“Io sento tutte ‘e ccose! Comme si chesta fosse cella mentale…”, questa è la confessione di Gemito nell’introdurre la propria condizione di prigioniero della psiche.
E Gemito è il protagonista de Il genio dell’abbandono in scena in prima nazionale al Teatro San Ferdinando di Napoli. Fino al 5 marzo Claudio Di Palma, regista e attore di riferimento dello Stabile di Napoli, porta in scena l’adattamento teatrale del romanzo di Wanda Marasco Il genio dell’abbandono, edito da Neri Pozza, finalista al Premio Strega 2015. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile di Napoli-Teatro Nazionale, è interpretato da Angela Pagano (nel ruolo di Giuseppina Baratta), Claudio Di Palma (Vincenzo Gemito), Cinzia Cordella (Mathilde Duffaud), Paolo Cresta (dott. Virnicchi), Francesca De Nicolais (Peppinella Gemito), Giacinto Palmarini (Emanuele Caggiano), Alfonso Postiglione (Antonio Mancini), Lucia Rocco (Nannina Cutolo), Gabriele Saurio (Masto Ciccio).
Quella di Vincenzo Gemito è “una reclusione intima e finale, irredimibile e profonda. Ed è proprio questa reclusione a rappresentare il luogo del presente in cui cercano, sulla scena, senso e dinamica, continuità e tempo i segmenti narrativi della straordinaria biografia sincronica articolata da Wanda Marasco per raccontare del genio e dell’abbandono di Vincenzo Gemito”.
Il racconto portato in scena dal regista Di Palma è quello di un “corpo già finito o forse solo non nato di un folle, un corpo attraversato da ombre occulte che ammuinano il cervello, un corpo alla ricerca di una forma finale… ammacari di piscatoriello, un corpo/cella nel quale risuonano ancora tutte ‘e ccose: affettuosità e violenze, perversioni innocenti, amicizie fernute. Risonanze che, “pure se fosse solo pazzaria del ricordo”, sono ancora dolorose. Risonanze che prendono forma in corpi di matre, di mogliere sbagliate, di buon patre, di spiriti di compagnia in carne…. ed ombra. Sono tutti suoni percepiti e non sentuti per effetto del litio mancante, forse, o del bismuto curativo squagliato nelle serenghe; prodotti di una insana ‘nfrancesatura (sifilide contratta in terra parigina) o meglio ancora effetti di quella naturale distonia tra il reale ed il presunto tale che sempre sostanzia la vita creativa di un artista. Quel che ne risulta, dunque, è un Vicienzo in vorticoso delirio ai cui occhi anche Napoli si prefigura come panorama distorto e ‘nguacchiato, anche la Storia, con le sue presunte verità, si accartoccia e stinge in devianze visionarie. I disegni e le sculture, invece, si concretano solo nelle parole, attendono forma dallo struggimento di interiezioni e diverbi, di urla e sospiri e la lingua si modula, così, sui registri variabili di un dialetto napoletano ad un tempo aspro e colto, basso ed aeriforme che si configura come unica, possibile declinazione del verbo della sofferenza”.
E per Wanda Marasco “le vite che possiedono l’annientamento e la capacità di sopravvivere, ovvero le linee essenziali del dramma, appartengono per loro natura al teatro”.
Uno spettacolo teatrale di sicura presa sul pubblico interessato a meglio conoscere questo “genio dell’abbandono” e a percorrere con lui il percorso dell’arte.
Salvatore Adinolfi