La tumultuosa e sofferta vicenda esistenziale di Vincent Van Gogh, così profondamente legata alla sua arte, ancora non smette di interessare il vasto pubblico.
A pochi giorni dalla restituzione al Van Gogh Museum di Amsterdam dei due dipinti, la spiaggia di Scheveningen e la Chiesa di Nuenen, trafugati 14 anni fa e ritrovati nel covo di un malavitoso a Castellammare di Stabia, il mondo torna ad affascinarsi alla tecnica travolgente del maestro olandese, ai suoi segreti ed alla sua vita tormentata.
Eppure la nascita del mito è legata esclusivamente alla volontà e compassione di una donna, la cui storia dimenticata merita una luce ben più adeguata.
Johanna Van Gogh-Bonger sposò Theo Van Gogh, l’adorato fratello minore del maestro ribelle, nel 1889; intelligente e ben istruita, proveniva da una benestante famiglia borghese olandese, figlia di un broker assicurativo. Quello che Johanna comprese immediatamente fu il fatto che aver sposato Theo significava aver contratto impegno anche con il cognato Vincent. I due, infatti, erano legatissimi, lo testimonia il fitto epistolario tra i due, più di 900 lettere fondamentali per la ricostruzione postuma della figura e della poetica del maestro dei colori.
Alla tragica morte di Vincent, nel luglio del 1890, seguì quella altrettanto sofferta di Theo, solo 6 mesi dopo, e Johanna rimase sola, con un altro Vincent, il figlio neonato della coppia, e un numero spropositato di tele, circa 200, da dover curare e gestire.
Fu così che la cognata, semisconosciuta e defilata, si trasformò nella più oculata e scaltra dei promotori d’arte, decisa a lanciare l’inimitabile genio di Vincent Van Gogh, così come avrebbe fatto Theo. Trasferitasi da Parigi a Bussum, non lontano da Amsterdam, conobbe il gruppo letterario ed artistico dei “tachtigers”. Questi uomini e le loro compagne avevano fondato un gruppo socialista in una comune chiamata “Walden” (vita nel bosco) di Thoreau. Johanna fu indotta all’attivismo socialista da alcune delle donne e da loro prese l’idea di ammobiliare la sua villetta come un museo, la prima galleria d’arte per Van Gogh. La villa aveva un motivo funzionale, serviva da esposizione, una galleria casalinga dove la donna invitava artisti, collezionisti e mercanti, vendeva quel che voleva vendere e presto trovò la sua abitazione piena di visitatori. E il nome del pittore cominciò a farsi strada. Pur vendendone i quadri, Johanna si tenne gelosamente i capolavori, con una strategia ben precisa: esponendoli nelle varie mostre avrebbero portato più popolarità. La mostra autofinanziata del 1905, con ben 464 tele provenienti da ogni dove fu accolta con grande clamore ad Amsterdam e, nel 1914, il colpo di genio: pubblicare l’epistolario tra il marito e Vincent, quando ormai il nome del pittore era solido e tutta l’attenzione poteva spostarsi sul suo lato oscuro e sul processo creativo. L’insperato e definitivo riconoscimento dell’arte di Van Gogh si ebbe nell’anno 1924, quando la National Gallery londinese comprò uno dei quadri più celebri: il Vaso di Girasoli.
Il dipinto era il preferito di Johanna, quello che secondo lei meglio riassumeva l’essenza dell’artista e non avrebbe voluto privarsene. Indugiò ma fine cedette e con quell’acquisto Van Gogh ebbe l’immortalità. Ma ben altra sorte toccò a Johanna Bonger. Morì l’anno dopo lasciando tutto al figlio, che donò allo stato olandese i quadri che avrebbero formato il Museo Van Gogh di Amsterdam.
Johanna venne dimenticata dalla storia e il suo nome eclissato dall’accecante immagine di Vincent Van Gogh, eppure senza di lei quell’immagine sarebbe durata un attimo. Si disse che tutto questo lei lo aveva fatto per il figlio, affinché il passato non fosse sepolto con loro; per tramandare la memoria di quegli uomini e mostrarla agli occhi delle future generazioni.
Rossella Marchese