Storia di un riscatto: un bistrot per ricominciare a vivere e riprendersi la libertà

A Poggiomarino, a pochi chilometri da Napoli, c’è un bistrot molto particolare,con un nome molto particolare, Viva, perché, come ha dichiarato una delle protagoniste di questa storia: “Viva è il nome di donne che hanno avuto un passato difficile”.

Sembra quasi l’inizio di una fiaba, ma Viva è, piuttosto, la costruzione del più lieto finale possibile per un incubo.

Viva Bistrot è il locale aperto dalla cooperativa Viola, composta da donne vittime di violenza coniugale, che hanno deciso di uscire dal buio, fuggendo dalle aggressioni dei loro compagni per riprendersi la loro vita, a cominciare dall’indipendenza economica.

Le tre artefici di questo piccolo miracolo etico ed economico si chiamano Antonella, Maria e Raffaella hanno prima creato la cooperativa Viola e poi hanno aperto un’impresa, senza conoscersi, all’inizio, ma con il forte legame di voler buttare il passato violento che le ha unite per una nuova vita, che le unirà per sempre.

Sono stati i loro avvocati a metterle in contatto e a convincerle. “Le donne come noi non hanno amiche”, dice Maria; “non abbiamo nulla. Da anni non parlo con nessuno, non esco di casa, non riesco nemmeno ad accompagnare i miei due figli a scuola. Mio marito mi segue ovunque, nonostante il divieto di avvicinamento. Ma ora voglio essere più forte di lui. Anche se ho paura di uscire, sono contenta di andare a lavorare e i miei figli sono più felici di me per questo. Affronterò le mie paure per uscire da quest’incubo”.

Lo scorso settembre Maria ha rischiato di essere bruciata viva dal marito.

Antonella, dal canto suo, ha dovuto combattere contro un marito nullafacente ed alcolizzato: “A Reggio Emilia, dove ho vissuto per 5 anni, sono stata costretta a chiedere l’elemosina in strada, a mendicare latte e pane dai vicini. Lavoravo 12 ore al giorno per 33 euro. Una miseria, e una notte lui mi stava ammazzando per 20 euro nascosti nella mia camicia da notte. Un giorno i miei figli mi hanno detto: “Mamma, non ce la facciamo più”. E io ho capito che era il momento per scappare. Loro sono la mia forza”.

Poi c’è Raffaela, con una laurea in Economia alla Federico II di Napoli, un bimbo di 2 anni e tanti sogni infranti per colpa di un compagno paranoico e geloso: “Ingiurie, percosse, non potevo nemmeno uscire a stendere il bucato. Lui vedeva amanti immaginari dappertutto. Ma ora riprendo finalmente in mano la mia vita; aumenta anche la mia autostima che lui ha praticamente ridotto a zero. Paura? Certo, ne ho. Ma qui siamo tutte donne con lo stesso problema e questo dà una carica in più”.

Adesso c’è Viva Bistrot nelle loro vite, che occupa tempo, energie e fatiche, rendendole indipendenti,padrone del loro tempo e del loro denaro, ma anche consapevoli del loro ruolo sociale, nonché dell’importanza della loro esperienza per le altre donne vittime di violenza domestica.

Adesso c’è da consolidare il progetto e sostenerlo nel tempo, con continuità. Che se ne parli, perché può essere un modello da esportare e riproporre, in un ambiente così delicato dove fare rete è vitale per le donne.

Ci sono farfalle dappertutto da Viva. E c’è il 1522, numero antiviolenza, scritto ovunque, fin sulle porte dei bagni. C’è la parete con le fotografie di donne simbolo dell’emancipazione: Frida Kahlo, Rita Levi Montalcini, Margherita Hack, Nilde Iotti. E ci sono loro, Antonella, Raffaela e Maria, con il loro coraggio. E poi c’è una frase di Seneca sulla parete d’ingresso del locale:

“Non è perché le cose sono difficili che non osiamo, è perché non osiamo che sono difficili”.

Rossella Marchese

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