Anche se la guerra dei dazi tra Usa e Cina sembra rientrata, resta da chiedersi: cosa accadrà in futuro, vista la dipendenza della crescita mondiale da quella cinese?
L’accordo con Xi Jinping è stato trovato dagli Stati Uniti, ma la tensione delle relazioni economiche tra i due Stati ha sollevato una questione di ampie proporzioni sugli squilibri delle partite correnti delle due economie più grandi del mondo.
Va ricordato che la crescita mondiale dipende strutturalmente da quella cinese che nel 2017 è stata del 35 per cento (circa il doppio rispetto agli Stati Uniti). Infatti, se da una parte si assiste al fatto che la “fabbrica del mondo” la cinese, ha spiazzato investimenti e depresso il livello dei prezzi in numerosi settori e in molti paesi, accade che d’altra parte la domanda di consumatori e imprese cinesi ha sostenuto la produzione e l’export di molti altri e diversi paesi, non solo avanzati, ma anche emergenti e poveri. Per questo nessuno si augura un rallentamento dell’economia cinese causato eventualmente da una guerra commerciale minacciata tempo fa da Trump.
A Pechino il 19 maggio i negoziatori hanno fugato i timori di una guerra commerciale, ma non quelli di un forte ribilanciamento, che gli Stati Uniti vogliono accelerare in Cina. Infatti, se si va ad osservare con attenzione, il vero motore cinese per lo sviluppo è stato l’accumulazione di capitale che nel 2014 ha raggiunto un picco del 45% del Pil, per poi iniziare a rallentare con lo sviluppo dei settori delle costruzioni e delle infrastrutture, che sono andati a compensare la minor vivacità dell’export dovuta al crollo della domanda mondiale durante gli anni della crisi. Ma poi, con la diminuzione di fabbisogno di infrastrutture e di abitazioni si è avuto un ulteriore rallentamento del trend dello sviluppo,giunto al 6-7% annuo, e non più del 10%. Infine, sono venuti meno gli altri due pilastri della crescita e precisamente:
la diminuzione della popolazione attiva, registrato ininterrottamente dal 1960, per l’aumento delle generazioni anziane e una diminuzione del tasso delle nascite (per l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro urbano), per cui sembra che anche la Cina diventi“un paese di vecchi”, rispettando la tendenza occidentale, ma senza essere diventato un paese ricco;
l’andamento della crescita della produttività, che è fortemente legato alla crescita dell’export per poter competere sui mercati globali, come presentato dai dati di Conference Board analizzati da Capital Economics, si vede che dal 1960 i paesi che hanno saputo generare una crescita della produttività sono anche quelli con la maggior crescita delle esportazioni e raramente, (solo nell’1,2%dei casi) si è registrato un aumento di produttività che non fosse associato a una forte capacità di esportare. Questo ci chiarisce come sia difficile per la Cina, dal momento che l’export cinese mondiale ha raggiunto il 13 per cento e la domanda estera di beni cinesi è arrivata anch’essa al traguardo e associato a questo si rileva una diminuzione dei consumi.
E’ dunque necessario agire in favore di “un cambiamento strutturale”, come indicato dal rappresentante del Commercio Robert Lighthizer, ma senza bloccare quel meccanismo che ha da sempre contribuito alla crescita mondiale, che è fondato sul commercio estero e sugli investimenti nei settori di esportazione.
Danilo Turco