Era il luglio del 1938 quando venne pubblicato il Manifesto della razza, supportato dalle firme di diversi scienziati, mentre nel settembre dello stesso anno furono emanati i primi provvedimenti per l’espulsione degli stranieri di origine israelita residenti in Italia e l’esclusione da tutte le scuole e le università pubbliche degli studenti e dei docenti ebrei.
Il 18 settembre, a Trieste, Benito Mussolini tenne un lungo discorso antisemita dai toni particolarmente violenti; fu l’anticamera ai provvedimenti di novembre, i decreti a difesa della razza, integrati più tardi, nell’estate del 1939. Furono vietati i matrimoni tra ebrei e “ariani”, fu epurato il pubblico impiego, nonché il settore bancario ed assicurativo; gli ebrei furono anche esclusi dal servizio militare, dalla professione di notaio e giornalista. Fu vietato loro di essere proprietari di beni immobili al di sopra di un certo valore e di prendere a servizio persone domestico non ebraico.
Per quanto si ispirassero all’esempio delle norme antisemite del 1935 della Germania di Hitler (le così dette leggi di Norimberga), le misure razziali italiane furono prese da Mussolini in piena autonomia, senza che vi fosse pressione alcuna da parte del Führer sul suo alleato.
Il clima in cui vennero accolte dalla società civile italiana e, soprattutto, dalle altre forze politiche, per quanto ridotte alla sostanziale immobilità dal regime, fu alquanto singolare. Nessuno si chiese perché proprio gli ebrei fossero divenuti oggetto di una persecuzione che non aveva precedenti nella storia dell’Italia unita. Per le forze di sinistra del nostro Paese, accanto alle difficoltà del marxismo di immaginare altra forma di violenza al di fuori di quella di classe, c’era un altro fattore da tenere in considerazione: per la sinistra antifascista le masse proletarie non erano antisemite e tanto meno fasciste, piuttosto appartenevano alla visone del mito del “bravo italiano” per cui ad essere razzisti erano i fascisti ma non gli italiani. Una visone miope, che la portò a sottovalutare la pericolosità e la modernità della politica totalitaria, efficace e coerente nella sua drasticità.
Tra le forze di sinistra, solo il movimento fondato da Carlo Rosselli, Giustizia e Libertà, e il Partito Socialista Riformista di Pietro Nenni, dedicarono attenzione costante all’antisemitismo che prendeva piede in Italia.
Nessuno credeva che l’Italia fosse un Paese razzista e antisemita (non aveva alcun passato antisemita paragonabile a quello di altre nazioni europee), eppure l’epurazione attecchì; né si credette che il fascismo potesse essere un esperimento moderno di totalitarismo, ben organizzato, eppure, quella sistematica ed ordinata persecuzione razziale rappresentò un aspetto moderno della rivoluzione antropologica che il regime cercava di attuare: l’italiano nuovo, votato al primato a tutti i costi.
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale e per i successivi 15 anni, sulle persecuzioni antisemite italiane non si riuscì a produrre un giudizio storiografico che non fosse confuso, piuttosto si optò per l’interpretazione, ampiamente sposata per tutto il dopoguerra, secondo cui il regime non aveva prodotto alcuna sua propria specifica cultura, pertanto le leggi razziali furono classificate come una delle espressioni della barbarie fascista informe e priva di intelletto.
La storia contemporanea continua a smentire questa visione.
Rossella Marchese