“Se le mie gambe non potessero più portarmi in giro potrei rimanere per sempre fermo a guardare il mondo dal mio giardino, non diventerei nemmeno grande, per qualche motivo il mio metabolismo si bloccherebbe, sarei una prova dell’inutilità della specie.”
Massimo Greco, quali sono le aspirazioni e le vocazioni del suo aberrante, distopico, crudele e depotenziato eroe? Quali le motivazioni che adduce al suo progetto atroce ed efferato per il comune sentire?
Senza significa privazione di qualcosa, nella fattispecie di una parte del corpo e Paolo aspira alla perdita della gambe. Del tema amputazione ne ho fatto un’allegoria, ho cercato un’interpretazione simbolica alla storia vera di Chloe Jennings, di cui lessi anni fa, della sua aspirazione a farsi recidere il midollo spinale; mi parve osceno che un essere umano sano di mente intendesse privarsi volontariamente di una parte del corpo, il mio libro è il tentativo di provare a razionalizzare questo assurdo desiderio. Paolo, il mio personaggio, mutua questa idea oscena perché gli sembra collimi alla sua aspirazione di rinuncia al mondo, di isolamento dalla realtà che non riesce a comprendere, dunque il taglio delle gambe sono la metafora di un distacco dalla contemporaneità, ma anche, in accezione più ampia, dalla Storia. Ed è intuitivo pensare alle gambe come l’elemento di adesione al mondo, le gambe ci mettono in contatto con la terra, ci portano in mezzo agli altri, la psicologia analitica lo indica, sognare di volare, di camminare senza contatto, significa estraneità, mentre camminare scalzi significa adesione, presenza, progressione. E senza gambe si resta fermi, è una regressione, rifiuto della vita, rifiuto del programma di competizione assegnatoci alla nascita, la competizione è, metaforicamente, una corsa e senza gambe non si può correre. Paolo è di certo ‘aberrante, distopico, e depotenziato’ ma non crudele, al contrario è fortemente disgustato dalla violenza, e la sua finale adesione a essa indica soltanto la sua definitiva iscrizione alla razza umana: nel compiere violenza Paolo diventa finalmente uomo, uguale agli altri. “L’uomo è violenza pulsante e in cammino” dice Paolo, ed è innegabile, la Storia lo insegna. La sua trasformazione in violento rappresenta semplicemente e simbolicamente l’iscrizione alla razza umana. “Là fuori non ci sono i mostri, là fuori ci sono gli uomini” Paolo dice a Francesca quando la incontra in carcere.
Lei ha inteso iniziare al sadismo i suoi lettori? Quale intento persegue un romanzo brulicante di morbosità accecante?
Ho scritto Senza come per un esorcismo: la violenza sugli altri mi atterrisce, a maggior ragione quella su sé stessi, il sadismo non mi interessa, il masochismo tanto meno, dunque no, non ho scritto Senza per iniziare al sadismo i miei lettori, al contrario, ho puntato l’indice provocatorio su un tema scabroso per sezionarlo, venirne a patti e spegnerne l’incandescenza; dunque l’intento principale è stato cercare di depotenziare dialetticamente una cosa così mostruosa come la violenza consapevole sul proprio corpo e su quello altrui, sono partito da qui, ne è nato Paolo e la sua rinuncia al mondo, l’intento reale del romanzo, alla fine, è puntare l’indice sulla realtà e la sua incongruenza, il sangue versato nei secoli, quello che sarà versato, gli orrori perpetrati dagli uomini sugli uomini e sulla natura, Paolo sente il disgusto e cerca di autoescludersi, vuole tirarsi fuori dagli orrori della Storia.
Lei ha affermato che il suo romanzo è “Solo per casi patologici”. Per quale ragione non per tutti?
In realtà l’affermazione è nata per scherzo, un commento ironico fatto sui social poi uscito in una recensione. Tutt’altro, il libro è per tutti, è per chi coltiva l’interesse di interrogarsi sulla vita e sul suo senso complessivo, è un invito al ‘religere’ a guardare due volte le umane azioni, un invito a uno sguardo il più possibile oggettivo, paradossalmente questa storia ‘folle’ invita a una riflessione disincantata. E poi il tema è universale: il disadattamento di Paolo è l’esasperazione di quello silenzioso e strisciante di ogni essere umano, non parlo delle singole storie private, gli uomini sono disadattati semplicemente perché ‘sono’; ci amputiamo nelle relazioni, rinunciando a parti di noi per farle sopravvivere, e amputiamo possibilità in genere perché scegliere è sempre un’esclusione. Ognuno di noi pianifica più o meno consapevolmente le proprie strategie di adattamento, lo facciamo tutti i giorni, alcune sono manifeste altre una specie di automatismo, l’adattamento di Paolo sta nella rinuncia, uscire dal mondo (con l’atto tangibile e simbolico dell’amputazione) è la sua soluzione. Certamente è uno scandalo ma il tema è anche e soprattutto questo: la rinuncia alle gambe è la risposta adattativa del mio protagonista al disagio dell’esistenza.
Il protagonista non intende omologarsi, si sente sideralmente distante dalla massa, rifiuta categoricamente il mondo. Qual è l’idea di libertà che veicola?
La libertà di non ‘esserci’ (con Heidegger). E’ la libertà che affranca dagli obblighi imposti per consuetudine, è la libertà di farsi monade irrelata, singolo spettatore non partecipante, è la libertà di non fare, di fuggire la competizione, l’omologazione al sentire collettivo. E Paolo non pensa al suicidio, non gli interessa, la morte non risolve, non permette un godimento, la libertà di Paolo somiglia a quella dell’asceta, è la libertà di cui parlava Emil Cioran e che in qualche modo cercava nella sua stessa vita, la libertà di non appartenere, di ‘inesistere’ come dice Paolo, verbo che ho mutuato da Dissipatio HG di Guido Morselli. Libertà come contemplazione fine a sé stessa.
Fantasie erotiche intrise di mutilazioni e brandelli di carne. Ciò scombussola la rappresentazione di una sessualità poco avvezza alla sfrontatezza della sincerità dell’assecondare le proprie pulsioni. Non trova?
La sessualità attiene al privato, due soggetti accondiscendenti e consapevoli sono autorizzati a fare del proprio corpo ciò che desiderano, è un tema su cui si potrebbe scrivere all’infinito, la storia ‘dell’uso dei piaceri’ è costellata di censure e moralismi, duemila anni di storia cristiana hanno trasferito la colpa nel corpo. In Europa e altrove sono nati centri dove volontari si offrono sessualmente a persone disabili, e ci sono ancora detrattori scandalizzati come se a un corpo menomato non si possa più chiedere l’erogazione di un piacere, come se la menomazione in sé rimanesse la sola qualifica connotante. Detesto la violenza, in tutte le sue forme e in tutti i ‘set’ in cui si pratica, ma quanto può valere il mio punto di vista? Può la mia riprovazione essere arbitro nelle altrui scelte? Se un soggetto ama farsi picchiare, torturare da un altro soggetto, può la mia personale visione del mondo intrudere un microcosmo che non mi appartiene? Ai corpi altrui non si comanda, non si comanda al corpo degli omosessuali, non si comanda a quello di Chloe Jennings. La violenza non è solo brandelli di carne e lame sanguinolente, è anche quella istituzionalizzata e solo apparentemente asettica: costringere una donna a partorire contro voglia è violenza tanto quanto quella agita da un sadico su un corpo che subisce nella costrizione, sono violenze di pari semantica, così come recludere corpi nelle prigioni, al di là del tema annoso sul cosa dovrebbe significare arginare chi commette soprusi. Al limite avere fantasie erotiche ‘intrise di mutilazioni’ dovrebbe entrare in una tassonomia di pensieri amorali e non di pensieri immorali; siamo gettati in un mondo già dato, precostituito di regole che accettiamo acriticamente e questo, con Heidegger, ci rende di fatto inautentici. Non si sfugge a questa inautenticità, è impossibile, però ci si può sforzare di consumare la superficie, ‘religere’ l’idea di moralità, ci si può sforzare di giudicare tentando di sottrarsi all’inconscio collettivo: ‘cultura’ è il tentativo di uscire da un tracciato, non saprei cos’altro intendere per cultura, anche scrivere un romanzo dovrebbe sempre andare in questa direzione, smuovere le acque, offrire un diverso punto di vista, prendere a mazzate le certezze e il pensiero preordinato, già ‘dato’ e tramandato. Mi diverte che tradizione e tradimento siano etimologicamente riconducibili: in fondo accettare passivamente una ‘tradizione’ etica, religiosa, politica, morale è ‘tradimento’ di tutti gli altri punti di vista che finiamo per escludere a priori.
Massimo Cracco, matematico e ingegnere, editore dal 2009 al 2011 (BrillostoEd.), ha pubblicato un romanzo breve per Scriptaed. (2015) ‘Restare senza un lavoro non è per sempre’e il romanzo Mimma, per Perrone Editore (marchio l’Erudita, 2017).
Giuseppina Capone