Marinette Pendola fa parte del gruppo di lavoro “Progetto della memoria”, istituito dall’ambasciata italiana a Tunisi negli anni Novanta, cui sono legate numerose pubblicazioni, tra cui “L’alimentazione degli italiani di Tunisia” (Tunisi, Finzi, 2005), “Gli Italiani di Tunisia. Storia di una comunità” (Editoriale Umbra, 2007). I suoi studi hanno ispirato anche “La riva lontana” (Sellerio, 2000), romanzo autobiografico che ripercorre un’infanzia tunisina nel periodo coloniale. Per Arkadia Editore ha pubblicato “La traversata del deserto” (2014), che rievoca il ritorno degli emigrati dalla Tunisia all’Italia, e “L’erba di vento” (2016), storia potente di una donna che non si sottomette alla convenzioni del suo tempo.
La Tunisia rimane elemento focale delle sue ricerche e della sua narrazione, un punto di vista interessante, giacché lei è nata da genitori siciliani. Quali caratteristiche assume questa sorta di migrazione alla rovescia dal punto di vista della “mescolanza” e dell’integrazione?
Sono nata da genitori di origine siciliana a loro volta nati in Tunisia. Appartengo alla terza generazione nata in Tunisia. Perciò il paese nordafricano non è solo il mio paese di nascita ma quello in cui la mia famiglia si è profondamente radicata. E dover lasciare quella che consideravamo la nostra terra ha rappresentato un trauma notevole, uno sradicamento da cui molti non si sono mai ripresi. Poiché la mia infanzia e parte dell’adolescenza sono trascorse là, sono impregnata dalla cultura locale, in primis la capacità di convivere con culture diverse, l’accettazione dell’altro, la tolleranza. Difficile è stato inserirsi, per l’ignoranza della lingua, dei costumi locali, per la diffidenza nei nostri confronti. Tuttavia, negli italiani degli anni Sessanta del Novecento, periodo del nostro arrivo, la curiosità ha sempre prevalso sul rifiuto. Il che non mi pare che avvenga adesso. Ecco perché l’Italia di oggi, in cui emergono razzismi e sguaiatezze, non mi appartiene: non la riconosco, non la so capire.
Lei affonda la penna in una comunità stigmatizzata, portatrice di stereotipi e clichè. Le granitiche convinzioni possono scricchiolare?
L’ambiente che ho conosciuto nella prima infanzia era coloniale, socialmente ben strutturato. In alto stavano i colonizzatori, in altre parole i francesi, in basso i colonizzati, cioè i tunisini. In mezzo c’erano gli italiani, né colonizzatori né colonizzati, semplicemente emigrati in un momento storico in cui i francesi avevano bisogno di molta manodopera per costruire tutte quelle infrastrutture di cui il paese aveva necessità, e l’Italia aveva un eccesso di manodopera a cui non era in grado di dare lavoro. E gli italiani erano trattati da migranti, erano oggetto di stereotipi e cliché esattamente come lo sono oggi coloro che arrivano nel nostro paese. Nel mio romanzo “Lunga è la notte”, appare un piccolo campionario di questi stereotipi. Con il tempo e la conoscenza dell’altro, questi cliché possono essere scalfiti. Io faccio la mia parte. So perfettamente che è solo una goccia d’acqua in un oceano. Ma sono ottimista, gutta cavat lapidem.
Il suo romanzo narra di un femminicidio. Quanto ha attinto dalla cosiddetta cronaca nera?
Non ho attinto dalla cronaca nera. Questa storia, realmente accaduta, mi è stata raccontata da un testimone oculare. La vicenda risale agli inizi degli anni Trenta. Ho volutamente creato tutti i personaggi (nessuno di loro, ad eccezione del prete, è realmente esistito) poiché la vicenda è ancora viva nella memoria dei discendenti. Del resto l’ho chiarito nella Premessa.
Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del noir. Il suo romanzo in che misura diverge dal genere codificato?
È vero, il mio romanzo è farcito degli ingredienti tipici del noir. Ma non lo è. L’obiettivo di tutto il romanzo non è trovare il colpevole, ma ritrovare la memoria, mettere il protagonista di fronte al trauma rimosso e permettergli (forse) di uscire dalla gabbia in cui volutamente si è chiuso. La domanda che mi sono posta sin dall’inizio della stesura è stata: cosa succede alle vittime, a coloro che sopravvivono a una tragedia simile? L’obiettivo del romanzo è stato cercare di dare una risposta.
Il percorso del protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?
La memoria di Mimmo, il protagonista, è “involontaria”, come direbbe Proust. Sono attimi del suo passato che riemergono all’improvviso sconvolgendo il presente, ma non portano mai a una epifania. La sua è una vita senza memoria, dunque senza qualità. Il passato nutre il presente, esattamente come l’albero che ha bisogno di radici profonde per nutrire la chioma. Più profonde sono le sue radici, più avrà la possibilità di trovare acqua e nutrienti, tanto più folta e vitale sarà la sua chioma. La memoria è fondamentale nella mia produzione. Lavorare ancorata a questo tema mi ha permesso innanzitutto di rivelarmi a me stessa, di prendere coscienza della mia identità e comporne armoniosamente i tasselli in modo da formare un mosaico unico. Il mio obiettivo però non è quello di lasciare una testimonianza di me (che forse potrebbe interessare i miei nipoti e nessun altro), quanto di fare emergere un’intera comunità dimenticata dalla storia, e dare voce a chi non l’ha, non l’ha mai avuta poiché appartiene alla fascia più umile di quella collettività. In fin dei conti mi piacerebbe che questa mia testimonianza contribuisse alla costruzione di una storia alternativa, che includesse tutte quelle Italie fuori dall’Italia. Non so, di fatto, se il mio lavoro sarà utile in questo senso. So per certo che lo è per tutti coloro che hanno vissuto la mia stessa esperienza poiché ha permesso loro di prendere coscienza della propria identità individuale, ma anche e soprattutto di sentirsi in qualche modo riconosciuti sul piano sociale e culturale.
Giuseppina Capone