Jean Paul Sartre scrive: «Il calcio è la metafora della vita».
Questo luogo comune può essere rovesciato in: «La vita è la metafora del calcio.»?
E’ quanto faccio, dichiarandolo, in football. Gli intellettuali, ma non solo loro, vedono il calcio come metafora, immagine, simbolo e così ripetono quello che è, appunto, un luogo comune. Sulla scia di Sergio Givone, ma andando al di là della sua intuizione, ho capovolto il luogo comune e ho mostrato che è la vita ad essere la metafora del calcio: ossia è l’esistenza umana che sembra modellarsi sul gioco calcistico fino a imitarlo o copiarlo. Per capire questo capovolgimento è necessario prendere il calcio proprio per ciò che è realmente: football, palla calciata. Si vedrà, allora, che le due regole del gioco del calcio, il controllo e l’abbandono del pallone, sono anche le due regole della vita.
Nel Novecento il calcio ha sconfitto i totalitarismi di Hitler e di Stalin.
Quale funzione politico-sociale-antropologica assume oggi il football?
Oggi il calcio è né più né meno che un divertimento, un affare e, volendo esprimere un giudizio moralistico, oppio. E’ anche giusto così. Questo accade perché il gioco praticato in una condizione di libertà è soltanto un gioco, mentre se il gioco è giocato in un regime dispotico o addirittura totalitario, come nel caso della Germania di Hitler e l’Urss di Stalin, diventa un gioco pericoloso, a tal punto pericoloso che in gioco c’è la vita. Proprio come accade nel gioco della filosofia quando la pratica del lavoro critico è condotta fino in fondo. Però, non c’è bisogno di vivere sotto una dittatura per scoprire la carica umana del gioco del calcio. Il mio libro, in fondo, vuole svolgere proprio questa funzione e assume il calcio come stimolo per pensare la vita e la sua connaturata libertà.
Il suo trattato lascia intendere che calcio sia il modello cognitivo del controllo e dell’abbandono, sostitutivo del “sistema di sicurezza” della storia del pensiero occidentale.
Il calcio come idea di libertà?
Sì, proprio così. Per poter giocare a pallone non possiamo fare altro che mettere la palla in gioco ossia rischiare di perderla, di subire il gioco avversario, di essere anche sconfitti. Ma non c’è altro modo per giocare. Così accade anche nella vita: per vivere non possiamo fare altro che mettere la vita in gioco e anche per pensare la vita non possiamo fare altro che metterla in gioco. La vita e la verità sono a tutti gli effetti come la palla, la sfera. Non era forse un grande filosofo presocratico, Parmenide, a dire che la verità è come una ben rotonda sfera? Una sfera che rotola, direbbe Eraclito. E noi non possiamo fare altro che controllare e abbandonare la palla, controllare e abbandonare la vita perché non siamo e mai saremo i padroni assoluti né del pallone né della vita. Ma, si aggiunga, proprio per questo siamo esseri votati alla libertà, perché per essere liberi è necessario giocare, lavorare, operare, partecipare alla vita e alla vita del sapere, del pallone. In fondo, il numero 10 più grande di ogni tempo, lo diceva già in modo mirabile quando osservava che la vita umana “partecipa” alla verità cioè la possiede se non per il tempo ristretto del giudizio conoscitivo che poi abbandoniamo per vivere.
La Var possiede una pretesa: controllare il gioco ed eliminare l’errore.
Ciò non stride con il carattere “hayekiano” di siffatto sport, che si profila come l’esito delle azioni dei giocatori e non di una volontà pianificatrice calata dall’alto? L’errore non è una variabile da accettare?
La Var è prima di tutto un’illusione: il convincimento di poter e dover controllare tutto. Poi è un rimedio peggiore del presunto male: perché non elimina l’errore ma lo assume trasformandolo in verità e imponendolo ai giocatori. Ma i giocatori giustamente si ribellano perché è il Gioco stesso che si ribella attraverso di loro. La Var è l’introduzione nel gioco dell’ossessione del sistema di sicurezza nel tentativo maldestro di eliminare l’errore, lo sbaglio. E’ la quintessenza delle contraddizioni della nostra cultura quando rifiuta la sua dimensione umana, umanissima. Nel libro suggerisco di usare la Var solo per la geometria ossia per il fuorigioco o per le linee, ad esempio per vedere se il pallone è di qua o al di là della linea; ma per il resto, ossia per le azioni di gioco, non solo va eliminata la Var ma va rivisto anche il regolamento con le assurdità del fallo di mano automatico, delle braccia attaccate al corpo. Il calcio è una danza e le braccia servono per danzare con equilibrio.
“Football” è un testo zeppo di storie vere. Può offrircene una?
Beh, c’è la storia del giocatore che fermò Hitler, Matthias Sindelar, o l’allenatore più importante nella storia del calcio italiano, Arpad Weisz, ma la storia che a me piace ripetere è quella del calciatore che giocava in due squadre e in una delle due sotto falso nome oppure la storia del mister che allenava due squadre che militavano nello stesso campionato e una domenica le due squadre si incontrarono e lui passava da uno spogliatoio all’altro per illustrare la strategia di gioco, dicendo chissà che cosa. Il gioco del calcio, che come tutte le cose non dominabili fino in fondo ha una natura ironica, è anche questo.
Giancristiano Desiderio, laureato in Filosofia all’Università Federico II di Napoli, inizia il suo lavoro giornalistico come collaboratore del Secolo d’Italia. Nel 1996 entra a far parte della redazione del quotidiano beneventano Il Sannio e nel 1999 ne assume la direzione. Nel 1999 inizia a collaborare con il Corriere del Mezzogiorno e con Sette del Corriere della Sera. Nel 2000 Vittorio Feltri lo assume come redattore politico di Libero e svolge il lavoro di cronista parlamentare. Nel 2004 passa a L’Indipendente diretto da Giordano Bruno Guerri e nel 2005, con la direzione di Gennaro Malgieri, ne diventa vicedirettore. Nel 2005-2006 conduce il programma televisivo Walk Show su Rai Futura, canale Rai diretto all’epoca da Franco Matteucci. Nel 2005 ha fondato la Biblioteca Michele Melenzio di Sant’Agata de’ Goti e ne è direttore. Dal 2008 al 2013 è editorialista del quotidiano Liberal fondato da Ferdinando Adornato e diretto da Renzo Foa. Ha scritto per Lo Stato, Il Giornale, Il Foglio, Il Riformista, Percorsi. Insegna filosofia e storia al Liceo Manzoni di Caserta. Scrive per il Giornale e per il Corriere della Sera.
Giuseppina Capone