Francesca Serafini: Tre madri

Francesca Serafini ha pubblicato tra le altre cose Questo è il punto. Istruzioni per l’uso della punteggiaturaDi calcio non si parla Lui, io, noi (con Dori Ghezzi e Giordano Meacci). Scrive da anni sceneggiature per la tv e per il cinema: con Claudio Caligari e Giordano Meacci ha scritto Non essere cattivo, film dell’anno ai Nastri d’argento nel 2016 e candidato italiano agli Oscar nello stesso anno. Sempre con Giordano Meacci ha scritto il biopic Fabrizio De André – Principe libero del 2018. Tre madri è il suo primo romanzo.

 

Segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del giallo. Il suo romanzo in che misura diverge dal genere codificato?

Mi piacerebbe che a questa domanda rispondessero i lettori. Sta a loro stabilire se partendo da questi stessi elementi – indispensabili nel genere – Tre madri riesce poi a crearsi una sua identità specifica. Quello che posso dire io è che per me, proprio di là dal genere, la scrittura letteraria deve avere una cura speciale per la sua veste linguistica. E questo è l’aspetto che più di altri mi ha tolto il sonno in tutti giorni della stesura del romanzo.

Il percorso dei protagonisti si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?

Quello che siamo nel presente, nella vita, è il risultato anche di tutte le esperienze che abbiamo vissuto nel passato. Per questo, per dare credibilità a un personaggio, per me è fondamentale immaginare tutto l’iceberg – riprendendo qui la metafora perfetta di Hemingway (un cui titolo apre il romanzo) – anche quando poi decidiamo di farne emergere solo la punta. È stato così per Lisa Mancini. Per capire che cosa è nel tempo in cui i lettori la incontrano, ho immaginato tutto quello che precede quell’appuntamento. E poi di tanto in tanto ne faccio emergere dei lampi, perché forniscano una chiave d’interpretazione alle sue reazioni rispetto quello che le capita nel presente. Se poi questo la aiuti a tenere a bada i demoni del passato, lo potranno dire i lettori quando sul finale li troveranno tutti schierati al cospetto di Lisa.

La sua scrittura, scorrevole ed incisiva, diretta e fluida, pare rinviare al linguaggio delle serie TV. Quanto risponde ad una sua precisa volontà la contaminazione dei linguaggi?

Nelle intenzioni, a dire il vero, il lavoro sulla parola è propriamente letterario. Dalle serie televisive, in particolare quelle inglesi, riprendo un certo modo di raccontare storie: di dare peso alla coralità dei personaggi, cercando di vedere in ognuno di loro luci e ombre, senza un giudizio da parte del narratore. Anche il genere arriva da lì. Per me serie come Happy Valley o Unforgotten sono esempi una narrazione moderna che mi ha affascinato da spettatrice e ispirato nella scrittura.

Pensando“cronaca nera”, reputa che il bisogno di verità possa sempre costituire un motore potente che spinge all’azione?

Il bisogno di verità è quello che spinge qualunque tipo di narrazione. Cerchiamo verità in tutto quello che leggiamo, per non pensare al fatto che la verità non esiste (neanche quando il fatto di cronaca è accaduto e non è frutto della fantasia di un autore). Se non le infinite verità che risuonano nella percezione di ognuno di noi. La sfida è trovare il modo di farle stare insieme in armonia tra loro.

Una comunità libertaria e anticonformista che trasforma in opere d’arte i materiali di scarto: quanto ha inteso riflettere circa i concetti di ostilità e pregiudizio?

Mi interessava raccontare lo sguardo di diffidenza di un piccolo centro provinciale (inteso in senso assoluto) su chi arriva lì proponendo un altro modo per vivere. Quel tipo di sospetto che c’è sempre con ciò che è diverso da noi. Il paradosso per cui tutto quello che dovrebbe incuriosirci e farci crescere nel confronto invece tende a farci paura. Ho inventato Montezenta e Ca de Falùg per parlare anche di questo. Anche se i due luoghi reali che ne hanno ispirato la costruzione (Santarcangelo di Romagna e Mutonia) invece rappresentato una felice e virtuosa forma di integrazione che niente hanno a che vedere con il mio racconto, e anche per questo mi è sembrato giusto trovare altri nomi.

Giuseppina Capone

 

 

Mario De Caro: Realtà

Mario De Caro è professore di filosofia morale all’Università Roma Tre e regolarmente Visiting professor presso la Tufts University, dove insegna dal 2000. Si occupa di filosofia morale, teoria dell’azione, metafisica e storia della filosofia della prima modernità. Già presidente della Società Italiana di Filosofia Analitica, è literary executor di Hilary Putnam e vicepresidente della Consulta Nazionale di Filosofia. Tra i suoi volumi Azione (il Mulino 2008), Il libero arbitrio (Laterza 20199), Realtà (Bollati Boringhieri 2020) e  (Harvard University Press, in preparazione).

Professore, quando inizia la riflessione sull’idea di realtà e sotto quali spinte?

La riflessione sulla realtà inizia con l’inizio della filosofia. In particolare, la filosofia ionica nasce come indagine sulla natura, alla ricerca della ragione unificante delle cose. Ma anche la ricerca filosofica ateniese sin dalle origini – con i sofisti e Socrate – indaga un altro genere di natura: la natura umana, così come viene declinata nella vita comune della polis. Sia Platone e Aristotele, poi, porteranno avanti le indagini su questi due tipi di natura, talora intrecciandole. Ma è solo con la rivoluzione scientifica che si presenta un problema che è ancora al cuore della filosofia: quello della radicale frattura delle due nature: quella del mondo che appunto chiamiamo “natura” (che include l’essere umano in quanto entità biologica) e quella del mondo umano, in quanto portato della cultura e della vita in comune. Insomma, per riprendere la terminologia della scuola aristotelica, “prima” e “seconda” natura cominciano a fronteggiarsi in modo esplicito con la nascita della scienza moderna che da una parte delegittimava il mondo ordinario postulato a partire dalla percezione, dall’altra assumeva la realtà di entità inosservabili come gli atomi.

In qual misura l’indagine sulla realtà è stata arrestata dalle filosofie legate alla “svolta linguistica”?

Uno dei caratteri principali della svolta linguistica è che ha marginalizzato la metafisica e ciò sia in ambito analitico sia in ambito continentale (in quest’ultimo senso si pensi allo strutturalismo e al poststrutturalismo). L’idea dei fautori di quella svolta, sostanzialmente, è che noi non possiamo mai uscire dai limiti del nostro linguaggio (come direbbe Wittgenstein) e dunque ogni indagine sulla realtà è dipendente da una preliminare e fondante indagine sulla natura del linguaggio e sul modo in cui il mondo è articolato linguisticamente. In questo quadro, la metafisica è pesantemente subordinata alla filosofia del linguaggio: Donald Davidson, per fare solo un esempio, decreta l’esistenza degli eventi a partire da un’analisi prettamente linguistica. In questo modo, però, è facile che si arrivi a forme di antirealismo di vario genere rispetto al mondo esterno: da Dummett (che a lungo ha negato la realtà del passato) a quanti negano la entità inosservabili della scienza (come van Fraassen).

Il “realismo ordinario” privilegia la testimonianza dell’esperienza percettiva a quella della scienza; il “realismo scientifico” reputa che il mondo contenga esclusivamente le cose che le scienze naturali possono rappresentare e spiegare. Esiste un’altra forma di realismo?

Certo. Innanzi tutto ci sono le forme di soprannaturalismo, per cui esistono entità non materiali ossia le sostanze spirituali. Poi ci sono le forme di realismo rispetto alle entità astratte (i numeri, le proposizioni, gli universali). Una cosa fondamentale da notare, però, è che tanto il realismo ordinario quanto il realismo scientifico tendono ad avere una visione unilaterale, monistica, della realtà. Tra questi due estremi, dunque, si collocano varie forme di realismo pluralista, che accettano come reale tanto la visione ordinaria quanto quella scientifica del mondo. Il “naturalismo liberalizzato”, per cui io simpatizzo, appartiene a questa categoria.

I giudizi estetici e morali hanno un preciso statuto rispetto all’indagine circa la realtà?

Se con il termine “preciso” si intende qualcosa su cui i filosofi sono d’accordo tra loro, la risposta a questa domanda è molto netta: assolutamente no. Dobbiamo però aggiungere subito che una delle discussioni portanti della filosofia contemporanea è se le proprietà morali e quelle estetiche siano reali. Cosa significhi, però, il termine “realtà” quando si applica a queste presunte proprietà è cosa molto controversa; e non solo nel senso che molti filosofi che si occupano di questo tema sono antirealisti. Anche lo schieramento realista, infatti, è frastagliato al suo interno. Pensiamo solo all’intenso dibattito metaetico sullo statuto delle proprietà morali: per alcuni realisti (come G.E. Moore), le proprietà morali esistono ma sono per definizione non-naturali; per altri (come molti naturalisti contemporanei) le proprietà morale esistono ma solo nel senso che sono integralmente riducibili alle proprietà studiate dalle scienze della natura. E in mezzo c’è un gran numero di posizioni diversamente articolate.

È concepibile una filosofia integralmente realista?

A mio parere, nessun filosofo degno di questo nome è mai stato del tutto realista o del tutto antirealista. L’arcirealista Meinong, per esempio, non credeva nella realtà del quadrato rotondo o delle assenze. Dall’altra parte, prendiamo Berkeley, antirealista al massimo grado rispetto al mondo esterno, che era super-realista rispetto alla mente (in particolare, la mente divina). Persino i filosofi post-moderni, nel decretare la fine del mito della Realtà, non negano certo che esistano oggetti concreti di cui si può dire che sono reali. Tutti i filosofi seri che si sono occupati della realtà, insomma, si sono sempre collocati nell’intervallo tra un ipotetico realismo integrale e un altrettanto ipotetico antirealismo integrale. Tutte le proposte serie di soluzione del problema del realismo, pertanto, sono in effetti questione di grado: il vero problema, è di determinare quale sia la giusta dose di realismo da adottare nei vari casi. Bisogna cioè stabilire quali sono, nei vari ambiti, le entità reali: i numeri? Gli universali? Le entità collettive? Gli atomi? Gli universi paralleli? I colori? I qualia? Le essenze? Le malattie psichiche?

Giuseppina Capone

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