Piero Sorrentino: Un cuore tuo malgrado

Abbiamo incontrato Piero Sorrentino per parlare del suo libro.

Un cuore tuo malgrado: su quali temi si innesta la sua riflessione?

Sono partito dalla prima scena del libro, scrivendo solo quella e senza darmi un tema preciso. Il capitolo di apertura, quello nel quale avviene il rovinoso tamponamento tra l’autobus guidato dalla protagonista e voce narrante, Bianca, e l’automobile sulla quale viaggiano Dario Spatola, sua moglie Giulia e il loro figlio piccolo Vittorio, è anche il capitolo nel quale ho rifuso pressoché integralmente l’unico spunto autobiografico del romanzo, uno scontro appunto tra un autobus e un’auto al quale mi era capitato di assistere, praticamente nelle stesse identiche modalità raccontate nelle prime pagine del romanzo, ma per fortuna con esiti assai meno disastrosi. Da quel pullman era scesa un’autista donna, dall’auto era venuta fuori una famiglia di tre persone, e mi aveva colpito il fatto che la relazione che si era immediatamente innescata da quello scontro era una relazione tra donne. Mentre l’uomo, come spesso idiotamente facciamo noi maschi, era corso a guardare il paraurti della sua bella automobile, l’autista donna era andata immediatamente verso la mamma che teneva in braccio suo figlio e aveva messo una mano a coppa, a casco, sulla testa del bambino, benché fosse chiarissimo che nessuno si era fatto neppure un graffio. Da lì ho cominciato ad assecondare il meccanismo immortale del “what if’”, del cosa sarebbe successo se le conseguenze di quello scontro fossero state invece decisamente più gravi.

E a partire da questo, ho capito che la prima cosa che mi interessava raccontare era quella che Ottieri aveva chiamato in un suo libro bellissimo “L’irrealtà quotidiana”, quella irrealtà quotidiana, nel caso della storia raccontata in “Un cuore tuo malgrado”, di chi vive un momento di pura sorte che dura dieci secondi – cioè appunto l’incidente – e le conseguenze di questo che si allungano su tutta la vita. Quindi stare dentro un dolore e raccontare una ferita, un trauma che da un lato trascolora nella normalità del dopo, nella ripresa della vita, ma contemporaneamente anche, seguendo un movimento opposto, la quotidianità che assume le fattezze del trauma, le giornate in cui non hai neppure la possibilità di elaborare un lutto intanto per il non trascurabile motivo che sei stato tu il portatore di quel lutto; e poi perché non hai la possibilità di dire addio a quel momento, in questo caso l’incidente d’auto provocato da Bianca, perché di quel fatto, che pure ha portato alla morte di due persone, ne resta una terza, resta colui che è sopravvissuto, e dunque resta il testimone scandaloso non solo del suo dolore ma anche del TUO dolore, la sua esistenza è la denuncia continua non solo della tua colpa ma della tua fragilite della tua impossibilità di trovare un posto, in qualsivoglia forma, nel mondo sbagliato, nell’universo storto che hai contribuito giocoforza, e tuo malgrado, appunto, come recita il titolo del libro, a creare.

Il suo romanzo narra anche di due sorelle, legate da un laccio sentimentale inscindibile, quello della famiglia. Perché i legami familiari sono sempre così passionali, in grado, al contempo, di allontanare ed attirare, congiungere e dividere, annientare e generare?

Perché le famiglie sono il nodo che stringe fino al soffocamento o che ti salva dal precipizio, dipende da come e quanto riesci a regolarlo senza farti male. In questo caso un ruolo importantissimo nel romanzo è quello di Margherita, la sorella di Bianca. Margherita è una traduttrice letteraria, ed è dunque anche in fondo una scrittrice – noi spesso ci dimentichiamo che un traduttore è anche uno scrittore. Intere generazioni di noi non hanno mai letto The catcher in the rye di Salinger, hanno letto Il Giovane Holden di Adriana Motti. E dunque in virtù di questo suo statuto professionale Margherita è profondamente consapevole che le parole sono creature viventi, assumono forme diverse, significanti che mutano spesso radicalmente da una lingua all’altra, e quindi sa che le parole che salvano non sono facili da rintracciare, proprio come spesso non è facile portare da un’altra lingua i sensi, le sfumature, i significati, le gradazioni. Margherita sa quello che sapeva benissimo Marina Cvetaeva quando diceva: “Faticoso e febbrile è il lavoro necessario nel trovare parole che facciano del bene. Lei ci prova con Bianca subito dopo l’incidente, le suggerisce di seguire la terapia di parola per eccellenza, che è quella psicoterapeutica, ma ottiene da parte di sua sorella un rifiuto forte, frontale, diretto, e quindi a un certo punto farà un passo di lato provando a starle accanto utilizzando altre virtù, quella della speranza, per esempio, o della temperanza, assecondando la semplicità dimessa dei bisogni di Bianca. È un personaggio, quello di Margherita, al quale pensavo sempre come se agisse tenendo tra le mani la mappa dell’ “Isola del Tesoro” di Stevenson, un pezzo di carta per il quale ci sono morti, arrembaggi, tradimenti salvo poi scoprire che era tutto inutile visto che il tesoro fin dall’inizio era già altrove, non è mai stato lì dove era indicato. Per Margherita la salvezza di Bianca corrisponde esattamente a quella crocetta sulla mappa: apparentemente vicinissima, letteralmente sotto gli occhi, eppure irraggiungibile.

Il percorso della protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole impatto emozionale.

Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione?

Io non volevo raccontare il tempo della sintesi, della elaborazione. Sarebbe stato un altro romanzo, quello del tempo che passava, e Aldo Busi, per esempio, questo l’ha detto magnificamente nell’incipit di quel suo primo romanzo straordinario che è “Seminario sulla gioventù”: “Che cosa resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore…”.

Quello della protagonista è un percorso di urgenza, la traiettoria di qualcuno che non capisce o non vuole capire di dover armonizzare la sua esperienza del tempo con quella degli altri, che siano appunto Dario, ma anche sua sorella Margherita. E per raggiungere questo scopo utilizza anche mezzi e strategie di puro inganno.

Questo è un libro sul dolore, sul senso di colpa, sul trauma ma è anche un libro sulle maschere. In esergo ho indicato tre o quattro versi di un testo di un poeta molto bravo – temo non troppo noto – che è Vittorio Reta, morto suicida molto giovane, nel ‘77, a neppure 30 anni, versi che per il lettore sono – almeno credo, almeno queste erano le mie intenzioni – una traccia utile di decifrazione di tutta la vicenda del libro. È come se gli consegnassi subito in mano le chiavi che aprono la porta di questo romanzo ma poi ovviamente gli stacco la targhetta col numero, è lui che deve andare, come è doveroso che sia, alla ricerca del percorso giusto da fare per trovare la toppa utile con la quale aprirlo.

Amore, condivisione, solidarietà sono solo alcuni dei temi che affronta.

Qual è il messaggio etico ultimo che intende veicolare?

Qui non saprei bene che cosa rispondere, anche perché credo che la letteratura non debba mai mandare messaggi, soprattutto etici. Questa, del resto, è anche una storia che contiene aspetti contraddittori e respingenti del nostro essere e del nostro animo, come la rabbia. Di tutti i sentimenti, io credo che sia la collera che spesso spinge le persone più direttamente alla volontà di esprimersi. Come nel caso di Dario, il personaggio che subisce una grave tragedia, che è profondamente in collera con la vita, e che da questa sembrerebbe, con quella brutta espressione che spesso usiamo, sempre sul punto di essere invitato da chi gli sta accanto, come a volte capita in questi casi, a “buttarsi subito nel lavoro”. In realtà è per colmare lo strappo che l’esperienza della perdita apre nella sua esistenza, Dario va contro l’insegnamento tragico di Lacan, Freud, della psicoanalisi, quando spingono verso la notissima “elaborazione del lutto”. Non la capisce, non gli interessa. Siccome viene presentata come lento ritorno alla normalità, smussamento del dolore e così via, lui fa finta di intraprendere questo percorso tenendo un corso di fotografia, lanciandosi in un nuovo progetto fotografico, ma in fondo la sua volontà è quella di tenersi stretta questa esperienza tragica (per esempio continua a tenere in bella vista nel suo studio le fotografie della moglie e del figlio, anzi le dispone in modo tale che risultino a lui SEMPRE e COSTANTEMENTE visibili), lui raccoglie l’eredità di questa tragedia, non vuole che vada dispersa perché sennò rischierebbe di sentire di star perdendo una dimensione della nostra vera condizione, cioè quella di esseri viventi esposti irreparabilmente al rischio, letteralmente ogni secondo, della morte, la nostra e quella altrui. E lo fa imponendosi una costrizione, quella di un progetto fotografico in cui assume molte identità. È un lavoro realmente esistito di un americano che si chiama Caleb Cole, “other people’ clothes”, i vestiti degli altri, e questa costrizione lui la vive non come un limite che richiude una esperienza ma come un varco da attraversare.

La storia che narra delinea un percorso che pare indurre ad evadere dalla “comfort zone”, sfidando i propri spettri per smettere di sopravvivere e iniziare realmente a vivere.

Questo delicatissimo libro nasce con uno scopo salvifico? La scrittura stessa può assurgere ad una funzione soterica?

Anche in questo caso, guardo sempre con sospetto i libri che nascono con delle intenzioni. Però è altrettanto vero che questo non è un libro interamente nero e pessimista, e in fondo uno spiraglio di luce si apre con il personaggio del bambino Carlo, che incarna una ipotesi e una prospettiva di futuro e di redenzione (anche se ovviamente non dirò quale e in che modo per lasciare il sacrosanto gusto della scoperta dei lettori). E Carlo lo fa assumendo su di sé la figura della Speranza. A pensarci, non è tanto facile comprendere la natura di virtù della Speranza, che sembra non avere alcun legame con le altre sei Virtù, perché nella Speranza c’è inevitabilmente la condizione del futuro, di qualcosa che non c’è e che noi crediamo verrà, ma non esiste, ci è estranea la Speranza. Io posso essere forte, temperante, giusto, prudente, e posso soprattutto esserlo qui e ora, ma la Speranza, chi lo sa. In fondo è pure qualcosa che ci pesa: aspettiamo i giorni favorevoli futuri, e però mentre lo facciamo sentiamo ancora di più il peso dei giorni presenti che sono angoscianti. C’è una pagina dello Zibaldone in cui Leopardi notava come abbiamo un sacco di modi e di parole per esprimere il timore, il temere, l’intimorire, il timoroso e così via, alla speranza, diceva, toccano “una parola o due”, e questo vale, notava Leopardi, non solo per l’italiano ma per lo spagnolo, anche il greco…

Ecco, io ho voluto che in quella figura si addensasse una possibilità di ricostruire un tessuto di contatto anche con una esistenza tormentata nella quale la luce della speranza si può accendere e può arrivare da dove meno te l’aspetti.

 

Piero Sorrentino

Suoi racconti sono stati pubblicati nelle antologie Voi siete quiIl corpo e il sangue d’Italia(minimum fax), Niente resterà pulito(Rizzoli), A occhi aperti(Mondadori). È dottore di ricerca in Studi letterari. Dal 2010 è autore e conduttore del programma radiofonico Zazà, in onda su Rai Radio3. Questo è il suo primo romanzo.

Giuseppina Capone

Eleonora Molisani: Affetti collaterali

Parliamo con Eleonora Molisani del suo romanzo, “Affetti collaterali”.

Sei personaggi in cerca di ascolto, che vanno alla deriva tra incomunicabilità e solitudine esistenziale. Quanto ha attinto dal contemporaneo urlato isolamento interiore?

Facendo la giornalista da più di 25 anni non riesco a prescindere dall’osservazione di quello che mi circonda. Il progresso ha accorciato le distanze fisiche ma ha amplificato quelle emotive, i rapporti umani sono in crisi, l’incomunicabilità familiare e quella tra genitori e figli è un’emergenza che non si può ignorare. Siamo distratti da mille cose e perdiamo il senso di quello che è più importante, salvo poi rendercene conto quando capita una tragedia. La pandemia, per esempio, che ci ha costretti a fare i conti con le cose che negli anni avevamo trascurato, a ripensare le priorità. E poi: più che la narrativa “di evasione” mi interessa quella “di invasione”. Mi ispiro alla frase kafkiana: “Un libro dev’essere l’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi”. Amo la narrativa che scuote le coscienze, che turba e disturba. Che non lascia indifferente nel bene o nel male, che lascia dentro di noi un sedimento.

Questo è un libro che gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni. Qual idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?

Mi ripeto, ma penso che l’emergenza della pandemia abbia enfatizzato all’ennesima potenza quello che volevo esprimere nel romanzo. Molte coppie vivono la stanchezza di rapporti di lunga data, sperimentano quotidianamente la fatica di seguire i figli, le difficoltà del lavoro, la crisi economica. Di conseguenza può essere comprensibile la tentazione di evadere, di cedere alla distrazione di “affetti collaterali” che danno l’illusione di evadere dalla routine, di ricevere ascolto e attenzioni, come capita a Nero e Scura nel romanzo. Migliaia di adolescenti si sentono inascoltati dalla famiglia e dalla società, non compresi, senza punti di riferimento saldi, e si rifugiano nel mondo virtuale oppure nelle dipendenze, come succede a Ricola, la giovane protagonista di Affetti collaterali. Migliaia di immigrati vivono la speranza nel momento dell’accoglienza, e poi sono costretti a vivere la disperazione di una falsa integrazione sociale, come capita a Blanca, la ragazza madre extracomunitaria della storia e a suo figlio Momo, un ragazzo pieno di rabbia e di voglia di riscatto.

I protagonisti della sua narrazione esistono in quadri della quotidianità che si scopre sotto i loro occhi mediante circostanze comuni che divengono le porte per una sensibilità, a volte, al limite della sopportazione. Perché ha deciso nei suoi racconti d’esplorare il banale, reale, vero quotidiano anziché l’esuberante straordinario?

Credo che ci si rifugi sempre di più nello straordinario, nell’intrattenimento, perché la verità, nuda e cruda, procura sconcerto, sensi di colpa, paura. Questo timore genera nelle persone distanza e indifferenza verso i problemi altrui, individui anestetizzati, sempre più superficiali ed egoriferiti. Philip Roth diceva che “la letteratura dev’essere spietata, anche terribile”, che “il libro è un feroce viaggio all’interno di ferite aperte”, che “il compito del narratore è di presentare al mondo i problemi, anche se non spetta a lui risolverli”. Sentendomi prima di tutto una giornalista, la realtà che mi interessa non è quella dell’ombelico dello scrittore, ma quella che si annida nell’esclusione, nell’abbandono, nella violenza, nell’ingiustizia, nelle speranze e nelle sconfitte delle persone normali. Sempre citando Roth: “nella narrativa bisogna contemplare gli afflitti, i feriti, i vulnerabili, gli accusati e i loro accusatori”.

Le sue righe suggeriscono l’amore come un sentimento che intrappola, che non dà scampo e non prevede vie di fuga: Elena e Paride infrangono ogni regola, ogni convenzione narra Omero. Ebbene, non si sceglie d’amare né d’essere amati?

L’amore non intrappola ma sicuramente è una “trappola”. Nel senso che è relativamente facile nel momento passionale, quello in cui si immagina solo la parte entusiasmante ed avventurosa del viaggio a due. Poi, però, se non ci si mette in ascolto dell’altro, può diventare una fatica quotidiana. Volevo rappresentare persone che si sono scelte con convinzione, che si amano, eppure non fanno altro che ferirsi e farsi del male, perché non trovano la chiave per comunicare nel modo giusto tra loro. Come diceva il poeta Eugenio Montale, in ciascuno di noi coesistono la dolcezza e l’orrore. Dipende da noi saper riconoscere la bellezza o le fragilità altrui, se non ci mettiamo in ascolto dell’altro le relazioni costruttive diventano distruttive. Spesso ci poniamo nel modo sbagliato, siamo troppo centrati sulle nostre esigenze, con il risultato di tirare fuori dall’altro solo la parte aggressiva, rabbiosa, negativa. Per questo nel romanzo sia Nero che Scura cercano negli “affetti collaterali” quella accoglienza e quell’ascolto che come coppia non riescono più a darsi. E’ una dinamica che si scatena spesso in famiglia, perché la convivenza è un lavoro duro, quotidiano. Lo psicologo statunitense Carl Rogers diceva: “Ascoltare vuol dire capire ciò che l’altro non dice”. Se vogliamo essere amati dall’altro, dobbiamo metterci prima di tutto in ascolto.

Qual è il rapporto con il tempo dei suoi personaggi?

Il rapporto con il tempo è fondamentale. Nelle dinamiche familiari il tempo ha un ruolo determinante. Perché inesorabilmente stanca, trasforma, logora. Come dicevo prima, nella coppia il tempo può essere deleterio se dopo la passione non si coltivano il dialogo e il reciproco ascolto. Lo stesso vale per il rapporto tra genitori e figli. Se l’adolescente, nel momento in cui ha più bisogno di ascolto e di conferme, non viene riconosciuto, seguito e amato dai genitori, cresce come una pianta arida, storta. E’ quello che capita a Ricola, che con il suo gesto estremo farà capire ai genitori l’importanza dei tempi in amore. Ci sono cose che vanno fatte nei tempi giusti, e se non vengono fatte in quel determinato tempo, rischiano di non poter essere più recuperate. Nei rapporti umani vale sempre il detto: “Chi ha tempo non aspetti tempo”. Nel mio romanzo il tempo sarà fatale per tutti e sei i personaggi.

 

Eleonora Molisani, Eleonora Molisani, giornalista professionista, si occupa di attualità, costume e libri per il settimanale Tustyle. Collabora, come docente di giornalismo, comunicazione e new-media, con la Scuola Mohole di Milano, dove cura la rassegna letteraria annuale “Parolibere”. Ha collaborato alla redazione di libri di scolastica e saggistica per Garzanti e McGraw-Hill. Nel 2014 ha esordito nella narrativa con “Il buco che ho nel cuore ha la tua forma” (Priamo & Meligrana). Nel 2016 ha partecipato all’antologia “Pausa caffè” (Prospero). Nel 2019 ha pubblicato il romanzo, “Affetti collaterali” (Giraldi). Nel 2020 ha partecipato all’antologia “Lettere al padre” (Morellini). Nel 2020 ha partecipato all’antologia “Reboot-Lettere d’amore a Milano” (BookaBook). Nel 2021 ha pubblicato la raccolta di poesie: “Romanticidio, spoesie d’amore e altri disastri” (Neo edizioni).

Organizzatrice di eventi culturali, online ha fondato la community “Natural Born Readers and writers”, per la tutela della bibliodiversità. Cura la rubrica di libri “Book & Mood” per Scrittori a domicilio.

Giuseppina Capone

Franco Mimmi: Lontano da Itaca

Parliamo con Franco Mimmi della sua pubblicazione “Lontano da Itaca”.

Lei ha rievocato l’Odissea, uno dei testi fondamentali della cultura classica occidentale. Perché ha voluto dialogare con Omero?

Omero rappresenta, con Dante, Cervantes e Shakespeare, uno dei quattro vertici della letteratura mondiale, è praticamente impossibile evitare il dialogo con loro, sia pure dalla posizione più umile possibile. Basti pensare al paradosso di Harold Bloom, che sosteneva che Shakespeare ha influenzato anche gli scrittori che lo hanno preceduto. Diciamo dunque: in che cosa ho voluto dialogare con Omero? Quel qualcosa è stata l’attrazione di un personaggio come Odisseo, le cui peripezie, nel tribolato viaggio di ritorno a casa dalla sconfitta Troia, costituiscono il primo romanzo dell’Occidente infinite volte rivisitato, reinterpretato e rielaborato nei secoli successivi. Il re di Itaca attraversa il tempo come personaggio via via mitico, umanistico, romantico, naturalistico, moderno e certamente, qualunque cosa la parola significhi, anche postmoderno, e insomma protagonista ante litteram di qualsiasi momento o movimento letterario. Ha ispirato, in ventotto secoli, la reinvenzione sublime di Dante nel canto XXVI dell’Inferno (Fatti non foste a viver come bruti…) e quella giocosa di Guido Gozzano nel poemetto L’Ipotesi (Il Re di Tempeste era un tale / che diede col vivere scempio / un ben deplorevole esempio / d’infedeltà maritale…), quella decadente di Giovanni Pascoli in L’ultimo viaggio, dove si afferma che la morte è più dolorosa che non nascere (Non esser mai! Non esser mai! Più nulla,/ ma meno morte, che non esser più!) e quella iconoclasta di Jean Giono in Nascita dell’Odissea, dove la realtà è ben diversa dall’eroico mito ma a prevalere è quest’ultimo persino contro la volontà del protagonista. Ha ispirato l’Ulisse di Joyce, dove l’autore si concesse la variante di presentare un Telemaco/Dedalus più intelligente di Ulisse/Bloom, forse perché era con Dedalus e non con Bloom che si identificava. Ha ispirato il Viaggio di Odisseo di Vincenzo Consolo e Mario Nicolao, dove il nostos è un viaggio di espiazione per l’orrore della guerra e l’invenzione del “mostro tecnologico”, il cavallo di legno. E poi decine e decine di componimenti poetici, da Alfred Tennyson a Gabriele D’Annunzio a Umberto Saba fino allo splendido Itaca, di Kostantinos Kavafis, dove si canta il concetto che più dell’arrivo è importante il viaggio (Itaca ti ha dato il bel viaggio, / senza di lei mai ti saresti messo / in viaggio: che cos’altro ti aspetti?). Sono soprattutto questa poesia e questo concetto che hanno ispirato Lontano da Itaca, la storia che anch’io ho voluto caricare sulle capaci spalle di Ulisse.

Nessuno fra i Greci ignorava Odisseo: la sua astuzia e la sua impulsività. Il suo desiderio di uccidere la morte, disprezzandola. Odisseo va inteso come paradigmatico d’una specifica maniera d’affrontare la vita?

Nessun greco ignorava Odisseo, anche perché quelli di Omero erano i testi fondamentali per l’insegnamento, ma già allora la sua figura era multiforme, e non solo d’ingegno. L’Odisseo dell’Iliade e quello dell’Odissea sono ben diversi, come quello dell’Aiace di Sofocle, dove viene definito “scaltro intruglio schifoso” ma è anche colui che salverà le spoglie del protagonista dal restare insepolte, e come quello delle Troiane di Euripide, dove Ecuba lo chiama “spregevole traditore, nemico della giustizia, / un mostro che non conosce legge”. È questo affascinante polimorfismo, che attraversa i secoli dal tempo di Omero a quello dei grandi tragici, che mi diede l’idea di inserire nel mio testo brani degli autori che ho citato ma anche di Eschilo e di Tucidide.

Poi verrà Dante Alighieri, che non conosceva il greco e mai aveva letto quei testi, sapeva di Odisseo, o meglio di Ulisse, grazie alle citazioni di autori latini – primo fra tutti naturalmente Virgilio e la sua Eneide – e a un compendio latino dell’Iliade, la Ilias Latina, di età neroniana, e per pura genialità si inventò un Ulisse tutto nuovo, spinto dal desiderio di scoprire che cosa vi sia “di retro al sol, del mondo sanza gente” al punto da preferire la nuova fatale avventura al ritorno a casa e agli affetti familiari. È questo l’Ulisse che ancora paga il prezzo del castigo divino, per troppo osare, ma che il Rinascimento libererà anche da questa catena, per esempio nel Morgante di Luigi Pulci, e che poi i moderni, affascinati, moltiplicheranno.

Ulisse è oculato, astuto e menzognero altresì debole, impegnato nella contesa con la propria limitatezza. Eppure è unanimamente reputato eroe. E’ la sua umanità foriera d’eroismo?

In realtà la debolezza di Ulisse si manifesta solo nel suo confronto con gli Dei ed è piuttosto un problema di impotenza, vista la statura dell’avversario, ma anche tra gli Dei ha degli ammiratori della sua resilienza che interverranno a dargli una mano. Il suo eroismo consiste soprattutto, come dice il poema del Tennyson splendidamente tradotto da Pascoli, nell’essere, lui e i suoi compagni grazie al suo esempio, “duri sempre in lottare e cercare e trovare né cedere mai.”

Odisseo muta incessantemente il suo status: eroe polýtropos, naufrago in balia delle onde, migrante vestito di cenci. C’è un tratto d’indole immutabile?

Nell’arco millenario della sua esistenza il tratto immutabile di Ulisse è l’audacia, della quale un eroe evidentemente non può fare a meno, ma per il resto l’abbiamo visto mutare continuamente, e possiamo scommettere che continuerà a trovare nuovi interpreti dei suoi vizi e delle sue virtù.

L’Ulisse dantesco, Frodo e l’impresa post-cubana del Che contraddicono la teoria di Christopher Vogler. Quali altri tipi di viaggio si profilano?

Non c’è motivo, ovviamente, perché il viaggio sia confinato alla dimensione spaziale, oltre che fisico può essere spirituale, mentale, interculturale, temporale: pensate per esempio ai viaggi compiuti da Darrell Standing, protagonista del Vagabondo delle stelle, di Jack London, mentre in realtà giace in prigione immobilizzato da una camicia di forza. E forse è meglio non spingere gli accostamenti oltre le colonne d’Ercole della buona letteratura, dove rischieremmo di vedere il mare richiudersi sulla fragile barca delle nostre ipotesi e delle nostre interpretazioni. Per ciò che riguarda Frodo, per esempio, mi costerebbe molto metterlo in una categoria ulissica: Il signore degli anelli non mi ha mai conquistato, non sono mai riuscito ad andare oltre un centinaio di pagine, e sono piuttosto d’accordo con l’impietosa critica che gli dedicò Edmund Wilson, sarcasticamente intitolata Oh, i mostruosi orchi!, che nel libro di Tolkien trovava cattiva prosa, scarsa originalità, e quanto alla pretesa di avere scritto un libro per adulti, “c’è poco, nel Signore degli anelli – commentò il grande critico americano –, che ecceda la testa di un bambino di sette anni.” Ho piuttosto l’impressione che il crescente entusiasmo degli adulti per il libro e per i film derivati siano un altro segno, insieme con il dilagare di supereroi, maghi e maghetti, zombi, vampiri eccetera, di un processo di infantilizzazione della specie.

Lascerei da parte anche Che Guevara, le cui imprese post-cubane furono probabilmente il frutto della delusione per come progrediva, o regrediva, la rivoluzione castrista, che era stata anche la sua ma che non vedeva più tendere all’avvento del nuevo hombre, l’uomo nuovo che avrebbe dovuto coniugare il rivoluzionario con l’umanista.

Interessante il richiamo a Christopher Vogler, ma anche in questo caso sarei per un distinguo: il suo libro è stato pubblicato in Italia con un titolo sviante, Il viaggio dell’eroe, quando in realtà si intitola The Writer’s Journey: Mythic Structure For Writers, ed è, insomma, una intelligente individuazione e sistematizzazione degli archetipi narrativi, sicché viene ad essere al tempo stesso una lucida analisi letteraria e un dotto manuale ad uso dei bravi artigiani che ci regalano i best seller e le serie televisive tanto in voga, l’equivalente attuale del feuilleton ottocentesco. Attenzione, però: il manuale di Vogler ci insegna il “che cosa”, ma Vladimir Nabokov avvertiva che il valore di un’opera letteraria andava cercato nei “divine details”, nei divini dettagli, e che la grandezza di un libro non stava nel “che cosa” ma nel “come”, e insomma nello stile. Qualcosa che nessun manuale e nessun corso di scrittura puó dare.

 

Franco Mimmi. Laureato in Lettere. Giornalista professionista (Il Resto del Carlino, La Stampa, Il Mondo, Italia Oggi, Il Sole-24 Ore, l’Unità) e scrittore. È autore di “Rivoluzione” (1979–Premio Scanno Opera Prima), “Relitti” (1988), “Villaggio Vacanze” (1994), “Il nostro agente in Giudea” (2000–Premio Scerbanenco), “Un cielo così sporco” (2001), “Cavaliere di grazia” (2003–finalista Premio dei lettori di Lucca e Premio città di Scalea), “Una vecchiaia normale” (2004), “Povera spia” (2006), “Lontano da Itaca” (2007), “Oracoli & Miracoli” (2009), “Tra il Dolore e il Nulla” (2010), “Corso di lettura creativa” (2011), “Una stupida avventura” (2012), “Il tango vi aspetta” (2013), “Le tre età dell’uomo” (2015), “Le sette vite di Sebastian Nabokov” (2016), “L’ultima avventura di Don Giovanni” (2016), “Il Sogno dello Scrittore” (2017), “Su l’arida schiena del formidabil monte sterminator” (2018), “Amanti latini, la storia di Ovidio e Giulia” (2020), “Il Topo e il Virus” (2020).

Giuseppina Capone

 

Tansgender: i coraggio di essere liberi. La storia di Marcello

“Io non mi sento a mio agio, questo corpo non è mio, quando mi guardo allo specchio non riesco a vedere la mia anima.” Marcello, trentotto anni, napoletano, racconta la sua storia.

Marcello, quanti anni avevi quando hai scoperto di essere attratto da persone del tuo stesso sesso?

Prima di provare attrazione verso una persona del mio stesso sesso, io ho da sempre sentito il desiderio di essere donna, al di là di tutto. Avevo solo 7 anni. Una domenica mattina stavo passeggiando con mia madre quando vidi passare una meravigliosa donna (ad oggi credo almeno al 7 mese di gravidanza) e nel guardarla provai una sensazione di invidia. Invidia, perché già a quella tenera età pensavo che quella di creare una vita dentro sé fosse la gioia più grande che una donna possa provare e che io, essendo maschio, non avrei mai potuto provare una sensazione simile. Diventando grande, questa voglia di voler essere donna cresceva sempre di più, ma, allo stesso tempo, è sempre stata una sofferenza per me perché mio padre non mi accettava. Mio padre era uno di quegli uomini che avrebbe preferito avere un figlio drogato anziché omosessuale. Mio padre ha sempre maltrattato me e mia madre. La sofferenza che mi porto dietro da bambino ha segnato tutta la mia vita. Avevo sedici anni quando provai a dire a mio padre che non sarei mai stato con una ragazza e che un giorno avrei voluto diventare donna a tutti gli effetti. La sua reazione fu tremenda. “Meglio avere un figlio delinquente o tossicodipendente, ma io un figlio come te non lo voglio, non l’ho fatto io”- disse – naturalmente, da bravo maschilista- facendo ricadere tutta la colpa su mia madre, dicendole che, non mi aveva concepito con lui o che, peggio ancora, non era stata una buona madre perché aveva fatto venir su “un uomo che non è uomo”, come diceva lui- adesso ho trentotto anni e sono stato in terapia dallo psicanalista (portato con la forza da mio padre) per ben tredici anni. Ho dovuto fingere di essere tornato etero o, meglio ancora normale, come voleva sentirsi dire mio padre. Odiavo quell’uomo. Solo due anni fa ho avuto il coraggio di andare via e prendere casa con mia madre. Mio padre è morto un anno fa. Io non riesco a sentire la sua mancanza. Ora vivo la vita che voglio.

Pensi di realizzare presto il tuo sogno?

Sì, presto andrò a vivere dall’altra parte del mondo, proprio perché il mio desiderio più grande è quello di diventare donna a tutti gli effetti e vivere tranquilla senza essere giudicata ogni giorno come accadrebbe se restassi a vivere qui in Italia. Voglio potermi guardare allo specchio e vedere la mia anima nel corpo giusto. Voglio poter essere me stessa e con chiunque, senza dovermi nascondere o vivere con il terrore di essere giudicata, maltrattata. Voglio scendere per le strade della città vestita da donna, truccarmi e portare tacco dodici di Jimmy Choo, poter interagire con altre donne ed essere considerata tale. Io sono una donna, lo sono sempre stata. Tra meno di un anno realizzerò tutti i miei sogni. Ma c’è un pensiero che mi tormenta: sono felice ora che mio padre non c’è più. Mi tormenta perché mi fa credere di essere una persona crudele, anche se mia madre mi ripete in continuazione che questo nostro stato di felicità ora è comprensibile perché quell’uomo ci ha reso la vita un incubo per anni. Molte persone mi dicevano che sono un debole perché solo a trentasei anni ho avuto il coraggio di andar via. Forse è cosi, ma chi non l’ha vissuto non può provare quello che ho provato io. Purtroppo io dipendevo mia madre che a sua volta dipendeva da lui. Lei non riusciva a mandarlo via, è come se avesse per anni avuto una sorta di dipendenza da lui e questo ha fatto si che di conseguenza anche io dipendessi da qualcun altro: da mia madre, ero morbosamente legata a lei e in realtà lo sono ancora tutt’ora. Non riuscivo ad andare via di casa finché non è venuta anche lei con me. E, soprattutto, la mancanza d’affetto che avevo da parte di mio padre ha fatto si che io mi sentissi sempre un po’ bambino.

Come hai trovato la forza di andare via nonostante tutto e di portare tua madre con te?

Ero stanco, esausto. Ero esasperato. Da quando sono nato non ho mai vissuto la vita che volevo e ho più volte addirittura pensato di farla finita ma un giorno, tornando da lavoro, trovai mia madre per terra con il labbro sanguinante e mio padre che dormiva sul divano con una bottiglia di liquore, allora pensai che se fossi finito io, nessuno avrebbe salvato mia madre. Avevo il sospetto, sin da bambino, che lui fosse violento con lei, ma mia madre aveva da sempre negato. Quando ti toccano la cosa che hai più cara al mondo, puoi arrivare a tirar fuori tutta la forza che non credevi nemmeno di poter avere. Mio padre, oltre ad essere una persona violenta, era un alcolista. Credo che in quel momento mi si sia annebbiata la vista perché mai avevo visto mia madre in quelle condizioni. Ad oggi credo sia stato un bene, forse, paradossalmente. Perlomeno quella vicenda ci ha fatto trovare il coraggio di andar via. Tutto l’odio represso che avevo provato da sempre nei confronti di mio padre l’avevo finalmente e improvvisamente scaricato in quel momento. Per la prima volta in tutta la mia vita sentii un senso di liberazione e soprattutto avevo io, anche se solo per poco, la situazione in mano. Presi mia madre per mano e racimolammo un po’ di cose da portar via e alloggiammo per qualche notte a casa di sua sorella fino a quando abbiamo trovato la casa dove finalmente abitiamo adesso. Dopo circa un anno mio padre morì con una brutta malattia. Sono ovviamente andato al funerale. Non ne sento la mancanza.

Adesso com’è la tua vita?

Decisamente migliore. Sono libera, almeno in casa, di essere come sono e dire ciò che voglio. Fuori casa ancora c’è qualcuno che mi giudica per come parlo o per come mi vesto. Ora che mio padre non c’è più io sono rinata e con me anche mia madre.

Nessuno ha il diritto di rovinare la vita degli altri e nessuno dovrebbe permettere al prossimo di farsi rovinare la vita. Mia madre era sua succube, la sua martire, la sua schiava. Lei ora è un’altra persona. Vederla sorridere, vestirsi e truccarsi come desidera, addirittura trovarsi un lavoro e uscire con le amiche, le sue nuove amiche, mi riempie il cuore di gioia. Adesso la mia vita ha un altro sapore, mi pento solo di non aver avuto prima la forza di liberarmene, avrei potuto iniziare a vivere molti anni fa. Anche se, per anni e ogni giorno, cercavo di fare il lavaggio del cervello a mia madre ma con scarsi risultati. Ho trascorso tanti anni vivendo così, soffriva lei e soffrivo io. “Mamma, fallo per me” le dicevo sempre. Lei mi guardava e piangeva e diceva che per me si sarebbe fatta ammazzare e che la cosa che più le faceva male era che non riusciva a reagire per suo figlio, allora mi supplicava ogni giorno di andarmene ma io senza lei non riuscivo a farlo. Adesso, la cosa che conta, è che entrambi abbiamo avuto la forza di andar via. Bisogna avere il coraggio di ribellarsi e di liberarsi di queste persone, maggiormente se fanno parte della famiglia, anche se è difficile. Personalmente, oltre a questa situazione demoralizzante con mio padre, io dovevo affrontare ogni giorno le critiche delle persone di quartiere, a scuola, al catechismo e in ogni luogo io mettessi piede. Ho subito atti di bullismo sin dalle elementari, e per me, vivere così dentro e fuori casa non mi dava la forza di lottare. Mi sentivo solo.

Come hai affrontato le critiche e i bulli?

Naturalmente ogni giorno andavo a scuola e ogni giorno subivo. Parole offensive, sgambetti, mi rubavano la merenda. “ Marcella 5 stelle” mi chiamavano. Perché amavo indossare braccialetti con dei ciondoli luccicanti e loro dicevano che somigliavano ai lampadari di un albergo a 5 stelle. Quando tornavo a casa, le persone del quartiere mi deridevano, e parlavano a bassa voce e c’era chi accennava un sorriso o chi addirittura rideva senza ritegno. Alcuni ragazzini con il motorino mi bloccavano e non mi facevano passare. Quando tornavo a casa, cercavo conforto dai miei genitori ma da mio padre ottenevo solo insulti. Mio padre litigava con tutto il quartiere per far capire loro che io fossi etero e che lui un figlio “anormale” non ce l’aveva. Intanto, però, continuava a trattarmi male perché diceva che dovevo parlare e camminare come fa un uomo. Mi iscrisse a calcetto, mi comprava giornaletti porno, ovviamente con immagini di donne. Credeva fosse una malattia, ne era convinto e lo è stato fino alla fine. Allora dopo questi lunghi tredici anni di terapia dallo psicanalista ho dovuto poi fingere di essere etero.

Non avevi nessuno amico che ti supportava?

A parte mia madre, avevo la mia migliore amica Alice. Per il resto ho avuto sempre problemi a relazionarmi con le persone, a crearmi amicizie e soprattutto ero molto insicuro e non mi fidavo di nessuno. Credevo, inoltre, di non essere capace a fare nulla, nemmeno di laurearmi e di realizzare i miei sogni, perché mio padre mi aveva da sempre fatto sentire un buono a nulla. Ora ho preso consapevolezza di ciò che sono e di quanto valgo e quindi di poter raggiungere qualsiasi tipo di obiettivo alla pari di chiunque altro. È una sicurezza che ho acquisito col tempo, quando mi sono reso conto della bella persona che sono. Alice è ancora la mia migliore amica anche se per un periodo lei è stata innamorata di me. Ma questo poco conta. Ora è sposata con Diego e hanno una bambina bellissima. Alice mi ha aiutato tanto nei momenti di sconforto, quando tutti mi andavano contro e quando nemmeno con mia madre potevo parlare perché era occupata a fare da schiava a quel mostro che aveva sposato. Se c’è una cosa che penso spesso è che se non avessi avuto lui come padre, la mia vita sarebbe stata completamente diversa, io sarei stata un’altra persona, magari più sicura di me. Adesso sono felice, anche se la morte di una persona dovrebbe portare sofferenza, io mi sento una persona nuova. Penso che per le cattiverie che si fanno prima o poi la vita ti presenta il conto tutto all’improvviso. E così è stato per lui. Spesso mi domandano come faccio ad essere così buona e altruista dopo tutto quello che ho subito dalla gente e soprattutto avendo avuto un padre così. La mia risposta è stata semplice: “proprio perché ho avuto un padre così, so bene come voglio essere, e di certo non come lui. Mi aveva rovinato la vita, avevo grandi ambizioni, volevo studiare biologia ma non l’ho mai fatto perché mi perdevo, mi smarrivo come se non riuscissi a mettermi sulla retta via e condurre una vita stabile. Ho quindi sempre lavorato come magazziniere. Mi sentivo disperso, la mia situazione personale e familiare mi faceva stare sempre male, ho praticamente vissuto da sempre in uno stato di disorientamento totale. Adesso sono già al secondo anno di università. Voglio riprendere la mia vita in mano. Non importa quanti anni io abbia e quanto ritardo possa fare nel realizzarmi. Conta solo quanto, da oggi in poi, quanto io possa vivere davvero come desidero. Ho solo paura di essere ancor più preso in giro ed emarginato una volta aver cambiato corpo, perché conosco storie di diverse persone che hanno avuto problemi ad inserirsi anche nel mondo del lavoro. Ma io credo che andrò via, oltre oceano, dove potrò sentirmi vivo davvero.

Alessandra Federico

 

Angela Nese: Microclimi

Angela Nese nasce ad Agropoli (SA), dove frequenta il liceo classico. Dopo il diploma si iscrive al corso di laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Salerno, dove consegue la laurea magistrale nel 2013. Lavora come editor freelance. Nel 2016 viene pubblicato il suo primo romanzo, Le tele di Valerie (Montedit); è del 2018 la raccolta di racconti Del tempo e dell’esistenza (L’ArgoLibro). Microclimi (L’ArgoLibro) è la sua prima raccolta poetica.

Ne parliamo con l’Autrice.

 “Microclimi”: su quali temi si innesta la sua riflessione?

L’esistenza, l’amore, il tempo, la natura, il corpo: potrei dire che si tratta di un solo grande tema. Sono i diversi aspetti di un nucleo unico riassumibile con l’espressione “essere mondo”. E come ha scritto Ludwig Wittgenstein: “Il mondo è tutto ciò che accade”.

In un tempo politico, sociale ed economico che grida l’impellente bisogno di tessere un dialogo con sé stessi, la conflittualità interiore può essere lenita dalla Poesia?

La Poesia insegna a vivere nel conflitto senza esserne sopraffatti. Più che lenire la conflittualità interiore, quindi, credo che la Poesia metta a fuoco i problemi dello stare al mondo, del vivere come esseri umani prima ancora che come cittadini, membri di una società. Il Poeta ha il compito di indicare ciò che è sommamente umano sia nel bene che nel male.

Sai dirmi qual è il posto / degli amori mai sbocciati? / Dove riposano gli amori / che ho soffocato col cuscino?” Il suo “viaggio” appare faticoso, scosceso, una scalata a mani nude. Il dolore come condizione ontologica?

Il dolore come condizione ontologica dagli esiti morali, in quanto momento di frattura dell’io che consente di accedere a un nuovo sé, più consapevole, meno integro ma sicuramente più autentico.

Lei scrive versi che narrano una quotidianità quasi atemporale, in cui si stenta a riconoscere il contesto storico in cui la vita si svolge.

La vita umana vive una costante condizione di anonimato?

La dimensione della Poesia credo sia quella di un tempo che precede quello storico, è l’istante nel quale è possibile vedersi semplicemente come creature che esistono, al di là di ogni contesto storico. Si può parlare di anonimato, ma assolutamente non in senso negativo. A volte per poter capire ciò che ci circonda, qui e ora, paradossalmente, occorre diventare a-storici e spogliarsi del proprio nome.

Ho bruciato lettere d’amore/altre le ho ingoiate ed erano vetro/ cocci azzurro ghiaccio e grigio tetro/ruvidi rudi prodotti del mio umore…” Eros, divinità dal potere abnorme, oscuro ed ossessivo, che turba ed atterrisce?

Saffo lo definiva “glykypikron amachanon orpeton”, e i tre termini significano rispettivamente “dolceamaro”, “senza rimedio” e “bestia”. Penso che questa definizione resti ancora valida, con qualche specificazione e svariate aggiunte, non ultima quella secondo la quale Eros è anche spinta conoscitiva, l’elemento che ci turba e ci pone di fronte all’alterità rappresentata dalla persona amata, imponendoci di accoglierla in quanto tale.

Giuseppina Capone

 

Lavoro, Banche, Territorio, Sindacato: attualità e prospettive al tempo del Covid-19

La web conference della Segreteria e Presidenza UNISIN Regionale della CAMPANIA, tenutasi lo scorso 23 marzo, dal titolo “Lavoro, Banche, Territorio, Sindacato: attualità e prospettive al tempo del Covid-19”, è stata occasione di spunti per interessanti riflessioni da parte dei tanti intervenuti.

L’organizzazione del convegno è stata curata da Bianca Desideri, Segretario Regionale responsabile di UNISIN Regionale CAMPANIA, giornalista e direttore della testata giornalistica Professione Bancario che ha moderato l’incontro e introdotto gli interventi degli illustri relatori.

L’on. Gennaro Migliore, componente della Commissione Affari Esteri e Comunitari e della Commissione Parlamentare di Inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali anche straniere, nel suo intervento ha ricordato la priorità, in ogni situazione, di riconoscere i diritti fondamentali dei lavoratori. Il diritto al lavoro deve essere sempre anche diritto alla salute ed alla salvaguardia contrattuale. Ha, quindi, sottolineato la necessità di un raccordo tra territorio e credito, soprattutto in questo momento di forte crisi per tante categorie economiche, in modo particolare per le piccole imprese e per le partite IVA, che soffrono di una grande crisi di liquidità. Un puntuale intervento governativo è ora fondamentale. In questo particolare momento i lavoratori del credito sono stati sempre presenti, a beneficio di tutte quelle persone in difficoltà economica a causa della attuale crisi. Sarà, comunque, prioritaria una decisa attività, volta ad impedire che la criminalità approfitti di questo momento di crisi economica e finanziaria per conquistare nuovi spazi.

La Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Napoli Isabella Bonfiglio ha rappresentato i tanti e gravi problemi che in questo particolare momento affliggono molte lavoratrici e lavoratori, anche degli istituti di credito, che vivono la situazione del lavoro agile con particolare difficoltà, ormai aggravata dalla attuale situazione determinata dal COVID-19. In particolar modo è diffuso il fenomeno del cosiddetto straining, che viene attuato con un comportamento vessatorio nei confronti del lavoratore, che subisce una sorta di isolamento, con la mancanza di formazione e la mancata indicazione del lavoro da eseguire. La lavoratrice e il lavoratore in agile affrontano un grande stress, per la mancanza di carichi di lavoro adeguati e la conseguente necessità di presidiare la propria postazione di lavoro in attesa di avere qualcosa da fare. Purtroppo, tale situazione porterà ad un’aumentata necessità di assistenza psicologica nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori che subiscono tale comportamento.

Domenico Falco, vicepresidente dell’Ordine dei Giornalisti della Campania, nel suo intervento, ha sostenuto la necessità che le forze politiche facciano squadra al fine di porre rimedio alla fragilità strutturale dell’economia del territorio meridionale, aggravata ancora di più dall’attuale pandemia, così da poter essere al fianco della vera imprenditoria meridionale e dell’imprenditoria giovanile. Sarà necessaria una interlocuzione tra le varie istituzioni, così che la perdita dei centri decisionali che erano rappresentati dai due banchi meridionali, siano compensati da un’opera concreta di credito al Sud.

Il segretario generale di UNISIN Emilio Contrasto nel suo intervento, tra le altre cose, ha avuto modo di ricordare come i bancari abbiano continuato a svolgere il loro lavoro in questo periodo e come il settore abbia registrato vittime del Covid-19. Ha, inoltre, evidenziato come, alla fine di questa emergenza sanitaria, il lavoro agile dovrà rientrare in un’ottica di volontarietà, con i limiti temporali previsti dall’attuale CCNL, garantendo il diritto alla disconnessione. Ha ricordato come questa pandemia sia intervenuta su una situazione economica già di per sé non florida, peggiorandola oltremodo, con il rischio, o meglio la certezza, che negli anni si aggraverà sempre più la situazione dei cosiddetti “crediti deteriorati”. Infine, poiché l’erogazione del credito è legata a coefficienti patrimoniali definiti a livello europeo, l’aumento delle sofferenze porterà necessariamente ad una minore capacità delle banche di concessione del credito. Invece è prioritario che le banche seguano in modo adeguato le famiglie, le piccole e medie aziende, i giovani e l’imprenditorialità giovanile. Con l’utilizzo appropriato dei fondi Next Generation Eu sarà possibile favorire il rilancio di tutto il Paese, con una particolare attenzione al Sud.

Per Giuseppe Scalera, già Senatore della Repubblica, giornalista, scrittore, medico, l’epidemia di Covid-19 ha portato un cambiamento nei rapporti interpersonali e nella vita di tutti i giorni, per ognuno di noi, a causa della mancanza di contatto. Si sostituisce a tutta una serie di attività svolte da sempre in un certo modo, qualcosa di nuovo con cui, in futuro, dovremo abituarci a convivere. Anche per tanti aspetti, quali il lavoro agile o la didattica a distanza, ci saranno delle sfide da affrontare,occorrerà comprendere le varie interconnessioni, anche psicologiche, correlate. In questo momento il discorso vaccinazioni è importante, occorre che ognuno affronti l’aspetto che riguarda la propria disciplina, le proprie conoscenze, però è anche necessario fondersi e abbracciare più aree del sapere per farle dialogare tra di loro. Un messaggio importante che la pandemia ci lascia è che bisogna percorrere nuovi territori e sviluppare percorsi multidisciplinari, ci saranno nuovi appuntamenti e nuove sfide e si dovrà cercare di trasformare in qualcosa di positivo questo straordinario momento di cambiamento.

L’on.le Stefano Caldoro, già presidente della Regione Campania, ha sottolineto la difficoltà che esiste al Sud per quel che riguarda la questione del credito e il ruolo delle istituzioni locali, che dovrebbero complessivamente lavorare insieme per migliorare la situazione del territorio. La mancanza di centri decisionali dovrebbe essere compensata da un gioco di squadra moderno e dalla necessità di fare proprie le migliori esperienze che si sono avute in ambito europeo, facendo l’esempio della unificazione delle due Germanie, quando il più grande fattore di divario europeo, che era appunto quello tedesco, fu notevolmente ridotto, permettendo alla Germania di fare passi da gigante. Una simile azione dovrebbe essere messa in atto per ridurre il divario tra Nord e Sud nel nostro Paese. Quando non c’è nessuna nuova idea bisogna fare proprio quanto di meglio hanno fatto gli altri, in questo caso quanto di meglio è stato fatto in Europa. Sarà, però, necessario che tutti collaborino. Questo sarà soprattutto compito del governo centrale, perché non possiamo lasciare alle autonomie locali la possibilità di risolvere problemi che le autonomie non possono risolvere. Soltanto lo stato centrale puòattivare misure speciali volte a garantire un flusso di credito per il rilancio dell’economia, un sostegno alle imprese meridionali e affrontare i vari temi, quali la sfida del Recovery Fund.

Massimiliano Iannaccone, presidente di UNISIN Regionale CAMPANIA, ha parlato dell’opera del sindacato a fianco delle colleghe e dei colleghi impegnati nel garantire l’attività di un servizio essenziale, con le turnazioni e con filiali che chiudono per effetto della pandemia. La mancanza di sedi decisionali di grandi banche al Sud si sente anche per il mancato gettito fiscale che una volta era assicurato dalla presenza nelle regioni meridionali delle sedi legali di istituti di credito importanti a livello nazionale. Le banche operano nel meridione, mai benefici reddituali non restano al Sud. Sempre più importante è sostenere le imprese meridionali ed è necessario che ci siano assunzioni di giovani meridionali e che i giovani assunti al sud non vengano dirottati a lavorare al Nord, abbandonando quindi la propria terra. Occorre una maggiore coesione organizzativa, strutturale, economica e finanziaria per permettere di invertire questo trend di impoverimento economico e culturale del Sud.

I tre Vicesegretari di UNISIN Regionale Campania Andrea Brancaleone, Francesco Grandine e Luigi Sarro, hanno portato le testimonianze di come ha vissuto quest’anno il Sindacato, in prima linea, nelle rispettive banche Monte dei Paschi di Siena, Unicredit e Intesa Sanpaolo.

Umberto Aleotti, docente di diritto internazionale alla Scuola Superiore per mediatori linguistici di Maddaloni, ha evidenziato l’importanza del rapporto tra le fonti del diritto dell’Unione Europea e quelle del diritto italiano.

Antonella Batà, docente di diritto alla facoltà di Ingegneria dell’Università degli studi di Napoli Federico II, ha trattato vari aspetti riguardanti il lavoro agile, con un’analisi dei vantaggi e degli svantaggi ed una particolare riflessione sul diritto alla disconnessione, sull’attuale normativa e le prospettive future.

Negli ulteriori interventi, Giovanna Mugione, dirigente scolastico dell’Istituto Superiore “G. Marconi” di Giugliano in Campania ha trattato le nuove normative che impattano su scuola professionale e territorio; l’avvocato giuslavorista Neil MacLeod, cultore del diritto presso l’Università della Campania Luigi Vanvitelli, ha portato la testimonianza relativa alla propria esperienza di legale impegnato con il Sindacato, in relazione all’attuale situazione; Assunta Landri, psicologa e psicoterapeuta consulente della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, nonché psicologa dello Sportello d’Ascolto QUIperTE UNISIN Regionale CAMPANIA, nel suo articolato intervento ha considerato le varie implicazioni di carattere psicologico legate alla pandemia, al lockdown ed al lavoro agile.

Andrea Brancaleone

Transgender: il coraggio di essere liberi

“Non mi hanno mai accettato, nemmeno la mia famiglia. Io sono un transgender ed è difficile vivere in questo mondo di pregiudizi, soprattutto quando nemmeno a casa ti senti protetto. Per questo motivo non sono riuscito a realizzare i miei sogni prima d’ora, mi sentivo perso, abbandonato. Messo al mondo e lasciato al caso. Adesso finalmente ho il coraggio di andare contro tutto e tutti”

Il mondo, fuori dalla propria casa, è spietato e disumano. Bisogna, dunque, tirar fuori le unghie per sopravvivere a tanta crudeltà. Ed è per questo che ogni bambino dovrebbe nascere in un ambiente sereno, lieto, protetto, sicuro e, soprattutto, senza qualcuno che lo sminuisca, per crescere ottimista e sicuro di sé, per avere la grinta e l’audacia per affrontare la vita. Ma quando non ci si sente accettati da chi ci ha messo al mondo, ci si sente smarriti, persi, e si finisce per avere poca stima di sé. Si rischia, inoltre, di portarsi dietro un senso di spossatezza, frustrazione e di vuoto d’animo che sarà poi difficile colmare una volta divenuti adulti. Ancora, si rischia di intraprendere strade sbagliate, pericolose, o, ancora più facilmente, perdere quella giusta, quella strada che si vorrebbe percorrere per realizzare i propri sogni. È sufficiente la mancanza di attenzione da parte di un solo genitore o, peggio ancora, parole offensive nei confronti del proprio figlio, per far si che quest’ultimo cresca con particolari fragilità e insicurezze che si porterà dietro per tutta la vita.

I genitori sono il punto di riferimento per ogni figlio, qualsiasi età egli abbia. Ma nel momento in cui anche nel proprio nucleo familiare non si ha l’opportunità di potersi rifugiare e farsi confortare, allora la vita può diventare davvero un inferno. È fondamentale, quindi, una volta raggiunta la maggiore età, andar via e cercare di ricostruirsi la vita, di reinventarsi e, soprattutto, fare una profonda riflessione su di sé per risolvere ogni trauma infantile, in modo da non permettere ai ricordi negativi del passato di ripresentarsi e farci male, per condurre una vita serena, per raggiungere i propri obiettivi, vivere relazioni sane e avere la forza di affrontare le malignità di chi ancora vive giudicando il prossimo. Purtroppo le persone, alcune persone, sono prive di sensibilità e di empatia, il loro giudizio è spesso inopportuno, le loro osservazioni risultano frivole e la loro visione è poco ampia per quanto sia complessa la vita. Vivere in un Paese dove ancora non si riesce ad accettare chi non è come tutti gli altri non fa altro che ostacolare la vita di alcune persone. Il transgender, ad esempio, viene ancora trattato come un essere diverso o addirittura viene considerato come un malato e spesso viene emarginato.

La diversità come normalità

Sembra si faccia ancora fatica ad accettare una persona che non è come tutti gli altri. Un transgender, ancora oggi, è costretto a lottare contro tanti pregiudizi, offese e atti di bullismo. Una vita da incubo quella che sono costrette vivere queste persone, perché sono addirittura, nella maggior parte dei casi, obbligate a cercare rifugio in qualche altro posto del mondo, che sia anche dall’altra parte dell’oceano, dove si è liberi di vivere anche fuori dagli schermi, dove non bisogna essere tutti uguali per essere accettati. Vivere con il terrore, con l’angoscia, con l’ansia di poter essere insultati e umiliati in qualsiasi momento e da chiunque, può diventare davvero un incubo.

Si definisce transgender colui che non si riconosce nel proprio corpo, che ha un’identità diversa dal suo sesso biologico. Il transgender non è solo chi muta il proprio sesso sottoponendosi a terapie psicologiche, ormonali e chirurgiche ma è anche chi che vuole sentirsi donna nell’anima. Chi non si sente a proprio agio nel proprio corpo trascorre gran parte della propria esistenza provando una sensazione di malessere, perché sente ostacoli nel sentirsi libera/o di condurre la vita che vorrebbe e di poter mutare la sua identità senza essere considerata/o come un essere diverso o inferiore. L’omosessualità non è una malattia: voler cambiare il proprio corpo, perché non combacia con il proprio animo, dovrebbe essere un diritto legittimo. Chiunque ha il diritto di vivere la vita che desidera, di essere chi vuole e come vuole. Questo risulta difficile soprattutto per chi ha avuto un’infanzia complicata, per chi, anche nelle mura di casa, non poteva sentirsi libero di essere chi voleva. Queste persone, una volta diventate adulte, compiono uno sforzo maggiore per vivere la loro vita, per trovare l’energia e la determinazione per combattere dentro e fuori casa per ottenere i diritti di una qualunque persona.

Ma la nostra infanzia quanto influenza la nostra personalità?

Chi siamo davvero!

Ognuno ha una personalità, una propria indole. Ma tutto ciò che si vive da bambini è capace di mutare gran parte del proprio carattere. Una bambina o un bambino ha bisogno di sviluppare una relazione profonda con una persona di famiglia. Ha bisogno, sin da piccola/o, di avere il suo punto di riferimento perché è importante per il suo sviluppo personale poiché influenzerà gran parte della sua vita. Se questo affetto viene a mancare, l’infante avrà paura di uscire dalla sua confort zone anche una volta raggiunta una maggiore età. Avrà poca fiducia di sé e degli altri, avrà problemi a creare relazioni d’amicizia ma soprattutto d’amore. Ancora, avrà timore di non riuscire ad essere capace di realizzare qualsiasi tipo di obiettivo. Quindi, i primi anni di vita di una persona sono fondamentali e possono influenzare la stima di sé stessi, le sue capacità di relazionarsi con gli altri per il resto della vita.

Alessandra Federico

Malika, cacciata di casa perché lesbica

 “L’errore non l’ho fatto io, per quanto io possa amare una persona del mio stesso sesso, non ho mancato di rispetto a nessuno. Non c’è niente di sbagliato, non c’è niente di male. Finché si ama non ci sarà mai niente di male. Ai miei genitori dico fatevi aiutare”.

Amare una persona dello stesso sesso non è una colpa, amare non è mai un errore. Le parole di Malika trasmettono tutta la sofferenza di chi è costretto a portate sulle proprie spalle il peso delle conseguenze dell’ignoranza del prossimo. Malika è la protagonista di questa storia complessa accaduta nel suo stesso nucleo familiare (madre, padre, fratello), all’interno del quale si sono verificati atti di disprezzo e ripulsione nei confronti della giovane donna.

Malika viveva in un paese vicino Firenze, ha ventidue anni e il 4 gennaio 2021 confidava ai suoi genitori di essersi innamorata di una donna. Malika viene insultata, derisa e in fine mandata via di casa in seguito a parole colme di violenza da parte di sua madre. I riferiti insulti della madre spingono Malika in una forte crisi di pianto e di panico. Trovatasi per strada senza un soldo, senza cibo, senza più nemmeno i suoi abiti Malika, l’8 gennaio prova a rientrare a casa con l’aiuto dei Carabinieri, ma anche il tentativo di tornare in possesso dei suoi oggetti personali non va a buon fine.

Le continue minacce da parte dei genitori e del fratello fanno vivere la giovane ventiduenne nel terrore e, in preda allo strazio, Malika decide di sporgere denuncia ai Carabinieri, ma non riesce, neppure dopo 3 mesi, a rientrare in possesso dei suoi effetti personali. Nonostante le infinite umiliazioni e violenze psicologiche subìte, Malika è ben consapevole di non aver nulla di cui vergognarsi anzi, sa bene di potersi ritenere una persona molto coraggiosa.

Purtroppo c’è chi,  ancora oggi, per salvare le apparenze, finisce per dare troppa importanza al giudizio altrui pur mettendo a rischio qualsiasi rapporto umano, anche quello che dovrebbe essere il più importante come quello tra genitori e figli. Sono le stesse persone che hanno ha paura di andare contro i pregiudizi, che hanno paura di lottare per i propri diritti, e preferiscono assecondare una società dalla mentalità chiusa, retrograda, discriminatoria (che ancora crede di avere il diritto di decidere quale dovrebbe essere la normalità tanto da condizionare le scelte altrui) anziché proteggersi e proteggere i propri figli.  Eppure si dice che, quando accade qualcosa di molto brutto, c’è sempre qualcosa di bello che ci attende e che quando il fato ti allontana da un certo tipo di persone ti sta solo salvando la vita.

Ma chi ha deciso che l’eterosessualità è la normalità?

L’omosessualità non è una malattia. Si spera che un giorno la parola omosessuale possa svanire per sempre (le parole etero e omosessuale non dovrebbero esistere, deve essere la normalità poter amare chiunque) affinché ogni essere umano riesca ad ottenere il diritto di sentirsi libero di essere ciò che sente, di innamorarsi, di sentirsi attratto da chi desidera, e di vivere serenamente la vita alla pari di qualsiasi altra persona. La vicenda di Malika dimostra chiaramente la scarsa sensibilità con la quale alcune persone ancora oggi affronta determinate situazioni e la totale mancanza di empatia.

Il ddl Zan, che si focalizza su questo tipo di reati ha subìto, ad aprile 2021, l’ennesimo rinvio in Senato (in Italia non ci sono ancora leggi che tutelano le vittime dei crimini di odio omotransfobico). È anche fondamentale essere al corrente che in spagna c’è una legge che autorizza i bambini ad andare a scuola come desiderano (anche maschietti vestite da bambine) perché non conta il loro genere biologico ma conta il loro genere sentito. Si spera che anche in Italia si possa un giorno sentirsi liberi di essere.  Ora Malika vive a Firenze, lontana da coloro che l’hanno messa al mondo, ma ad oggi è forte tanto da riuscire a buttarsi tutto alle spalle per vivere liberamente la vita come desidera.

Alessandra Federico

Consorzio Parmiggiano Reggiano, Nicola Bertinelli riconfermato presidente

 Nicola Bertinelli è stato riconfermato per acclamazione presidente dal Consiglio di Amministrazione del Consorzio Parmigiano Reggiano. Bertinelli, parmigiano classe 1972, guiderà il Consorzio per altri quattro anni e sarà affiancato da Kristian Minelli, vicepresidente vicario e Alessandro Bezzi, vicepresidente, insieme al terzo vicepresidente che sarà nominato nel corso del prossimo Cda fissato per giovedì 22 aprile durante il quale verrà costituito anche il Comitato Esecutivo.

Ringrazio la nostra base e tutti membri del Consiglio per la rinnovata fiducia – ha affermato Bertinellicontinueremo a lavorare affinché questa sia sempre di più la casa di tutti i consorziati. Un luogo di confronto costruttivo tra persone che condividono non solo un nobile mestiere ma anchei valori e quella passioneche fanno del Parmigiano Reggiano un’eccellenza assoluta.Il nostro compito è stato e sarà quello di tutelarla, di difenderla dalle contraffazioni, di valorizzarla sia in Italia sia all’estero edi favorire la transizione verso una filiera ancora più sostenibile e in linea con le richieste dei consumatori”.

La  filiera del Parmigiano Reggiano è composta da 321 caseifici e oltre 2.600 allevatori per un totale di50.000 persone coinvolte. Nel 2020 sono state prodotte 3,94 milioni di forme pari a circa 160.000 tonnellate.

Ambrogio Lorenzetti: il terzo protagonista della pittura  del trecento

Ambrogio Lorenzetti è il terzo protagonista della pittura senese del Trecento,  assieme a suo fratello Pietro e a Simone Martini. Ambrogio nasce a Siena nel 1285 ma, a differenza di Pietro, si presume che la sua formazione non sia avvenuta solo nella bottega di Duccio ma che abbia proseguito i suoi studi sotto l’insegnamento di Giotto poiché è spesso presente, nelle opere di Ambrogio, (pur rimanendo distante e mettendo in pratica la sua personalità nelle sue opere) un’evidente influenza dell’arte di quest’ultimo.

Ambrogio ha da  subito dimostrato la sicurezza delle sue capacità sin dalla sua prima realizzazione, la Madonna col Bambino di Vico l’Abate (Firenze 1319) dove la frontalità della Madonna è legata parzialmente al linguaggio dell’arte senese richiamando l’arte del chiaroscuro tenue, continuo e sentimentale di Giotto .  Nel 1321  e nel 1327, Ambrogio, risulta iscritto alla Matricola dell’Arte dei Medici e degli Speziali da cui  dipendeva la corporazione dei pittori. Viene ricordato molto presto per le sue innumerevoli opere meravigliose: Annunciazione per il comune di Siena (1344) in cui Ambrogio non tralascia lo sviluppo della propria riflessione sulla ricerca spaziale, difatti, viene recuperato il fondo oro e a suggerire la spazialità sono l’aspetto pieno di forza dell’angelo e della Vergine. Iniziava per Ambrogio il suo più impegnativo ciclo di affreschi, (palazzo pubblico di Siena 1338 -1340), egli fu capace di descrivere con attenzione la realtà e la vita quotidiana della Siena del Trecento. Le composizioni degli affreschi rappresentano le Allegorie e gli Effetti Del Buono e del Cattivo Governo nella città e nella campagna. Le immagini sono arricchite da scritte in latino in modo da dimostrare l’efficacia delle virtù repubblicane e di quei valori impersonali. La composizione delle scene è simmetrica: come se ai cittadini venisse offerta la scelta tra il bene e il male.

L’opera in assoluto considerata la più famosa è il crocifisso del Carmine di Siena in cui l’artista trasmette tutta la sua sensibilità d’animo e passione per l’arte ma soprattutto dove dimostra di aver ottenuto una forte maturazione nel campo artistico (1324-1331). In particolare si ricorda questa opera  con maggiore interesse perché in quegli anni anche il fratello Pietro realizzò un’importante opera, la Pala del Carmine. Il rapporto solido tra i fratelli Pietro e Ambrogio fece si che lavorassero fianco a fianco per diversi anni .

Il giovane Lorenzetti dimostrava, giorno dopo giorno, un notevole miglioramento artistico avvicinandosi, in maniera evidente, sempre più alla scuola di Giotto. Oramai all’apice della sua carriera, Pietro,  realizza il meraviglioso Trittico (1332- Madonna col Bambino tra i santi e Nicola)  proveniente dalla chiesa di san Procolo a Firenze (oggi Galleria Uffizi Firenze). Sono ancora molte le opere realizzate da Lorenzetti: Madonna col bambino (1330-1335, tempera e oro su tavola. Musée du Louvre, Parigi); Quattro Pannelli di un polittico con i santi Benedetto, Caterina d’Alessandria, Maddalena, Francesco, (1332,1335, tempera e oro su tavola, Museo dell’Opera del Duomo, Siena);  Maestà (1335, tempera e oro su tavola, dalla chiesa di San Pietro dell’Orto di Massa Marittima, Museo di arte Sacra, Massa Marittima); Maestà (1337-1338. Affresco. Chiesa di San’Agostino, Siena); Madonna col bambino (1340, affresco palazzo pubblico Siena); Martirio dei Francescani e Congedo di San Ludovico di Tolosa, (1336-1340, affreschi Basilica di San Francesco di Siena); Madonna col bambino (1340, tempera e oro su tavola, dal monastero di Sant’Eugenio presso Siena, Museum of Fine Arts, Boston). Nel 1348, come  per suo fratello Pietro, Ambrogio morì a causa della peste.

Alessandra Federico

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