Federico Dal Bo è Dottore di ricerca in Scienza della Traduzione (Bologna, 2005) e Dottore di Ricerca in Ebraistica (Berlino, 2009), svolge la sua attività di ricerca tra ebraistica e filosofia. Attualmente è post-dottorando all’Università di Heidelberg. Tra le sue recenti pubblicazioni si segnalano: Emanation and Philosophy of Language. An Introduction to Joseph ben Abraham Giqatilla (Cherub Press, 2019) e Deconstructing the Talmud. The Absolute Book (Routledge, 2019), Qabbalah e traduzione. Un saggio su Paul Celan traduttore (Orthotes 2019).
Colui che è capace d’esprimersi non ha necessità di appellarsi alla violenza: vige una cesura netta tra linguaggio e violenza?
Penso ci piaccia pensare — o piuttosto sperare — che si sia una cesura netta tra linguaggio e violenza. Purtroppo non è così. Primo Levi ci mette in guardia contro ogni facile distinzione tra i due. In uno dei suoi scritti, ci ricorda che il bastone dei kapò usato per percuotere i prigionieri veniva sarcasticamente chiamato der Dolmetscher — “l’interprete” — proprio perché sapeva spiegarsi meglio di qualunque altro in quella babele di lingue che erano i campi di concentramento nazisti. Questa feroce ironia tradiva una realtà tenebrosa e inquietante: la violenza può essere una forma di linguaggio.
Da un lato, è molto confortante immaginarsi che la violenza sia esclusivamente una cosa da bruti —appunto un atto “brutale,” attuato del brutus latino, da un essere privo di ragione e parola —e sperare che sia la risorsa ultima di chi non sa esprimersi altrimenti. È un’immagine spaventevole ma in fondo confortante perché estromette il violento dall’ambito del linguaggio e quindi, per implicazione, suggerisce che il linguaggio possa essere una sfera pacifica, quasi irenica della realtà. Dall’altro lato, però, sappiamo bene che non è così. Infatti, ci sono innumerevoli esempi storici, se non quotidiani, di uomini che sono pienamente capaci di comunicare, se non addirittura colti ma profondamente violenti – nelle parole e nei fatti. Vorrei richiamare l’attenzione ad un libro di alcuni anni fa che ebbe grande risonanza e fortuna editoriale: Le Benevole di Jonathan Littell. Questo romanzo, in fondo abbastanza modesto, si incentra sul personaggio fittizio di Maximilien Aue, liberamente ispirato alla figura storica di Léon Degrelle -un fascista e collaborazionista belga del quale si vocifera che Hitler una volta avrebbe detto: “se io avessi un figlio, mi sarebbe piaciuto che fosse come lui.” Una vanteria non da poco tra uomini di tal fatta… In ogni caso, sia il fittizio Maximilien Aue che lo storico Léon Degrelle emergono come figure ambivalenti: si tratta di uomini intelligenti, di buone letture, forse addirittura raffinati ma certamente violenti e depravati.
Penso allora che se si vuole che vi sia una cesura tra linguaggio e violenza, questa vada stabilita attivamente, quasi imprimendola tra loro, quasi forzandola. Si tratta, in un certo senso, di recuperare una dimensione socratica del linguaggio, confidando nella forza dell’educazione. Del resto, se come si può imparare una ideologia violenta, la si può anche disimparare.
Quanto il connubio linguaggio e violenza ha consentito il dilagare degli estremismi ideologici?
Se rinunciamo al mito filosofico di distinguere tra linguaggio e violenza, allora possiamo parlare di un’affinità fondamentale tra violenza fisica e violenza ideologica, quasi come se l’una trapassasse nell’altra. Anzi, si può dire che la violenza effettiva sia la prosecuzione della violenza linguistica con altri mezzi, per parafrasare una nota frase di Von Clausewitz.
Però, si noti una differenza fondamentale tra l’epoca post-Napoleonica e quella post-Novecentesca. Quando scrisse la famosa frase per cui “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi,” Clausewitz operava ancora in un contesto direi “classico” della guerra: erano tipicamente impegnati eserciti contro eserciti e le popolazioni erano per lo più vittime collaterali degli scontri ma non realmente bersagli dell’azione bellica. È chiaro che la guerra ha sempre comportato violenze contro le popolazioni ma almeno ideologicamente, come descritto in tutte le grandi epopee della letteratura mondiale, dall’Iliade all’Ariosto, per dire, l’ideale era un scontro – un duello – tra due fronti contrapposti. Si tratta di una visione che emerge ancora, nonostante diverse storture, ancora nel celebre torbido romanzo Nelle tempeste d’acciaio del controverso Ernst Jünger. In altre parole, Clausewitz riteneva di riconoscere la brutalità della guerra ma anche la sua finalità profondamente politica. Insomma, si trattava di ascrivere alla sfera politica anche la guerra, di rivendicare la guerra come un ambito stesso della politica, non un suo accidente, un errore o una sua trasgressione. Si trattava, insomma, di una lezione di realismo politico.
Eppure, con i totalitarismi del Novecento, questa continuità tra politica e guerra si è tramutata in qualcosa di infinitamente più brutale e oscuro. Se la Grande Guerra obbediva ancora agli stilemi della tipica guerra tra eserciti, di fatto quasi escludendo le popolazioni dal loro diretto coinvolgimento, con la Seconda Guerra Mondiale si generò una “guerra totale,” quella che lo stesso Jünger chiamava la “mobilitazione totale.” Si trattava però di una guerra che era già stata ingaggiata a partire dal linguaggio stesso – da un linguaggio oscuro, tetro, profondamente violento e disumanizzante. Nei suoi celebri taccuini sul linguaggio fascista, Viktor Klemperer ha mostrato accuratamente come la brutalizzazione fisica sia stata anticipata da un linguaggio snaturato – quello burocratico nazista – che era un incrocio inaudito di ipocrisia e violenza. Da un lato si negava la persecuzione con frasi abilmente manipolate, ma dall’altro la si incentivava disumanizzando le vittime.
Lei ha scandagliato con raro acume il pensiero di Walter Benjamin, Martin Heidegger, George Steiner e Sigmund Freud a proposito del linguaggio della violenza. Quali specificità emergono e quale, eventualmente, il filo rosso che li lega?
Anche se può sembrare paradossale, devo dire che il filo rosso che lega queste quattro figure è proprio l’ebraicità, anche se ovviamente non sono tutti ebrei. Di questi tre questi intellettuali l’unico non ebreo era ovviamente Heidegger – che però ebbe un fortissimo ascendente sulla classe intellettuale ebraica, moltissimi suoi studenti erano ebrei e molti dei suoi futuri studiosi lo saranno. Pensiamo ai più illustri e famosi come Hannah Arendt, Karl Löwith, Emmanuel Lévinas e Jacques Derrida. Del resto, non è un caso se in ambienti nazisti Heidegger venisse accusato di “talmudismo,” come riportato in un celebre valutazione ufficiale presentata da un suo collega presso il Ministero dell’Istruzione nazista negli anni Trenta.
Tuttavia, la questione è più complessa di così. Riguarda proprio la particolarità della cultura ebraico-tedesca – la cosiddetta Bildung. Da un lato, c’erano volenterosi ebrei tedeschi come Martin Buber che credevano nel dialogo ebraico-tedesco con tutto il cuore, per usare, non a caso, una metafora cristiana. Dall’altro c’erano intellettuali ebrei tedeschi del tutto disincantati, come Gershom Scholem, che ritenevano che questo dialogo ebraico-tedesco fosse un mito – a danno degli ebrei che si trovavano a rincorrere un sogno da cui si sarebbero risvegliati in modo feroce e crudele. Non so chi dei due avesse più ragione, forse entrambi proprio data la intrinseca contraddittorietà dell’ebraismo ebraico-tedesco che poteva portare due così grandi figure – Martin Buber e Gershom Scholem – a due posizioni così antitetiche.
Ciò emerge anche nel caso di Heidegger, ora stigmatizzato in modo forse un po’ troppo superficiale per i suoi già famigerati Quaderni Neri. La questione in effetti non è quanto fosse antisemita l’uomo bensì quanto il suo pensiero abbia cercato di assimilare l’ebraismo tedesco, cogliere alcune delle sue idee fondamentali e infine espropriarle, rivendicandole esclusivamente all’ambito tedesco – ovvero “ariano,” in questo caso. Penso in primo luogo all’idea che il linguaggio sia il luogo stesso della riflessione e della possibilità per la filosofia. È un tema profondamente ebraico che emerge in tutti questi quattro autori, appunto con la differenza che Heidegger non lo ascrive all’ebraismo ma anzi lo “estrae” dall’ebraismo tedesco, rivendicandone una filiazione esclusivamente greca ed ariana -la famosa connessione essenziale tra Grecità e Germanicità che ha fatto sempre molto discutere.
Ecco, queste pretese da parte di Heidegger non sono semplicemente una forma di ideologia tardo romantica ma bensì l’esercizio di una profonda violenza filosofica nei confronti dell’Altro. Trovo che questo atto di violenza sia infinitamente più brutale delle sue frasi antisemite che, in fondo, sono ridicole, banali, qualunquiste e persino indegne del pensatore qual era. Eppure, anche se potessimo depurare il discorso heideggeriano da queste frasi, espungendole o semplicemente ignorandole, saremmo sempre di fronte all’immane colpa di aver espropriato l’ebraismo tedesco dei suoi concetti fondamentali e averli ascritti esclusivamente e perentoriamente alla tradizione filosofica occidentale.
Quali sono le attuali possibili derive autoritarie del nesso linguaggio-violenza?
Per cominciare a rispondere alla sua domanda, credo sia importante pensare nuovamente agli orrori del Novecento. Se questo secolo terribile ci ha insegnato qualcosa è proprio che il nesso tra linguaggio e violenza può portare alla costruzione, organizzazione e perpetuazione di orrori inimmaginabili – che però sono stati immaginati e rappresentati in forme linguistiche precise, secondo leggi precise, secondo direttive precise. È una questione di una profondità inaudita. Non è un caso se grandi autori come George Steiner rimasero sempre scettici rispetto alla possibilità di “depurare” il linguaggio da un simile bagno di violenza e quasi adombrarono l’idea che una volta intaccato così a fondo l’albero del linguaggio, per riprendere un’immagine kabbalistica, non sarebbe più stato possibile salvarne la linfa vitale. Ora, non è necessario proiettare la questione del nesso tra linguaggio e violenza in una simile prospettiva, quasi metafisica per osservare che la questione del nesso tra linguaggio e violenza è sempre attuale, tragicamente attuale.
Per tutti coloro che pensavano che i campi di concentramento nazisti fossero un evento irripetibile, la ferocia delle guerre jugoslave negli ultimi anni del Novecento e la costruzione di campi di concentramento per bosniaci a Tarčin hanno purtroppo mostrato quanto avesse ragione Primo Levi a dire, con spirito squisitamente scientifico: se è accaduto una volta può accadere ancora. Al di fuori del contesto europeo, possiamo pensare al genocidio in Ruanda, avvenuto quasi negli stessi anni. Si è trattato di due eventi dalle motivazioni storiche e sociali diversissime che però hanno avuto una matrice comune nella propaganda della violenza prima della violenza stessa, nella loro preparazione e organizzazione.
Questo non significa dire che ogni forma di violenza o intemperanza verbale sia virtualmente omicida o addirittura causa di un genocidio bensì, più profondamente, che nessuna violenza può avere luogo senza il supporto del linguaggio che, per così dire, “si presta” ad essere abusato per perpetrare crimini. Si tratta di rendersi conto che i fascismi europei ma anche nei crimini più recenti videro alla loro guida e alla loro esecuzione non dei demoni bensì degli uomini in carne ed ossa. Si badi di non cadere nell’equivoco ingenerato, magari inconsapevolmente, dalla abusata idea della “banalità del male.” Questa formula ha il demerito di suggerire probabilmente il contrario di ciò che riteneva Hannah Arendt. Parlare della “banalità” di questi individui non significa dire che fossero uomini comuni o “banali” bensì che erano esseri umani normali, non deviati, psicopatici o abnormali. Ciò che li ha traviati, per usare un termine un po’ desueto, è stato il linguaggio. Si trattava infatti di individui che avevano grandi capacità oratorie ma che tuttavia erano dominati da una natura assolutamente violenta con cui avevano indottrinato i loro seguaci. Certamente, si può obiettare che costoro non fossero dei veri oratori ma bensì solo dei retori, dei sofisti, dei sobillatori e degli agitatori o, per dirla con Gadda, che i loro discorsi non fossero altro che “una istrombazzata di parole senza costrutto, ch’erano i rutti magni di quel furioso babbèo.”
Eppure, nonostante le cautele ironiche e caustiche del nostro Gadda, dà molto da pensare che la potenza oratoria dei dittatori esercitò un grande fascino anche su uomini di cultura. Si pensi, di nuovo, a Martin Heidegger — un uomo di grandi se non grandissime letture — che restò affascinato da Hitler. Quando gli venne rimproverato di lasciarsi trascinare da un uomo rozzo e ignorante, sembra che Heidegger abbia risposto: “la cultura è indifferente, basta guardare le sue mani portentose!” Si tratta di una frase spaventosa, non tanto perché tradisce il fascino dell’intellettuale per il Potere — questo, in fondo, è un luogo comune nella storia della filosofia, almeno dal caso di Platone e il tiranno di Siracusa in poi — ma piuttosto perché manifesta la debolezza dell’intellettuale di fronte al Potere. L’intellettuale si mostra per colui che è: qualcuno che è disposto a barattare la cultura per l’energia, la visione critica del reale per la propaganda, ovvero in un certo senso il linguaggio per la violenza. Ovviamente, si tratta di un tipo particolare di violenza, costruito su un uso particolare — oggi diremmo: demagogico — del linguaggio.
Arrivo allora alla risposta. Ciò che ci ha insegnato il Novecento appunto è la relativa facilità con cui si può indottrinare individui, gruppi o addirittura un popolo intero alla violenza, proprio perché linguaggio e violenza non sono intrinsecamente divisi bensì connessi, quasi permeabili l’uno con l’altro, se non tenuti distanti l’uno dall’altro, praticando proprio quella che lei prima chiamava una “cesura.” Insomma, si tratterebbe di concepire il compito filosofico come quello di incidere una cesura tra linguaggio e violenza, ottemperando al suo più antico spirito socratico. Il rischio più concreto, forieri di pericolose derive autoritarie, appunto è la demagogia.
La Cultura corre il rischio d’essere investita dalla violenza della comunicazione?
A dispetto di ogni nostro pregiudizio romantico o post-romantico, la cultura non è aliena dalla violenza ma anzi può esserne addirittura il veicolo principale. Se si legge Gramsci, la stessa idea dell’egemonia non è aliena dal presupposto che la cultura — lì intesa come cultura marxista — possa e anzi debba farsi carico di un’azione rivoluzionaria che ovviamente richiede l’uso della forza per effettuare un cambio di regime. Ciò non significa banalmente che la comunicazione svolga un ruolo fondamentale per veicolare i contenuti del linguaggio ma piuttosto che i canali di comunicazione di massa non siano necessariamente i più adatti per veicolare i contenuti del linguaggio, per quanto questo possa sembrare paradossale.
Ad un livello abbastanza superficiale, la sociologia della comunicazione cerca di diffondere una percezione quasi inoffensiva, tragicamente ingenua, dei canali comunicazione di massa – i cosiddetti mass media e social media. Entrambi però veicolano il contenuto del linguaggio su una scala e una trasmissibilità che facilmente trascendono l’orizzonte antropologico comune. Nel testo ho fatto l’esempio di Twitter che ai suoi albori venne usato maldestramente da un utente per una battuta assai infelice prima di salire in aereo per il Sud Africa. La frase effettivamente cretina (“sto andando in Africa. Spero di non beccarmi l’Aids. Scherzo, sono bianca!”) venne rilanciata su scala planetaria trasformando questa grande stupidaggine personale (ma chi di noi non dice stupidaggini a livello privato?) in un caso di razzismo che interessò moltissime personalità internazionali e le provocò gravi danni sul piano lavorativo e personale. Ciò che mi interessava di questo caso non era tanto se fosse una bella battuta o meno bensì il fatto che una comunicazione personale venne forzatamente trasformata in un evento di natura politica. Al fondo di questo evento non c’era tanto l’uso maldestro di un social media come Twitter bensì, mi sembra, la profonda eterogeneità tra linguaggio e un mezzo di comunicazione di massa – che evidentemente non è più l’amplificazione della comunicazione ma qualcosa di più inquietante che non sappiamo ancora comprendere esattamente.
Sarei tentato di dire che l’avvento della comunicazione di massa ma soprattutto dei social media stia avendo un impatto assimilabile a quello dell’invenzione della scrittura. Come l’invenzione della scrittura non era, nonostante il trito mito platonico, la semplicemente “trascrizione” della voce su carta, così l’invenzione dei mezzi di comunicazione di massa non è semplicemente la “amplificazione” della voce di un gruppo o del singolo – bensì qualcosa di più eterogeneo che ancora sfugge alla nostra comprensione.
Giuseppina Capone