Il Marconi in scena al tempo dei Sedili con la regia di Antonio Vitale

All’I.S. “G. Marconi” di Giugliano in Campania fervono le prove e le riprese del musical “Il Marconi va in scena… al tempo del Covid”. Nato originariamente come “musical”, con il sostegno del MiBAC e di SIAE nell’ambito dell’iniziativa PER CHI CREA, ha dovuto necessariamente fare i conti con tutte le problematiche legate al Covid-19. Partito per essere rappresentato in teatro, a causa del Covid, ha subito una rivisitazione per renderlo fruibile online. Molti i giovani coinvolti nell’iniziativa del Marconi che da anni, con la dirigente scolastica Giovanna Mugione, ottiene prestigiosi riconoscimenti per tante delle iniziative didattiche che realizza.

Parliamo del musical con Antonio Vitale, attore teatrale, cinematografico e televisivo. Da qualche anno Vitale si cimenta nella regia teatrale di alcuni lavori, curandone di solito la drammaturgia o l’adattamento. Dirige laboratori teatrali presso accademie di danza, scuole elementari e medie inferiori.  

Come giudica l’esperienza delle attività di laboratorio teatrale a scuola?

Estremamente positiva. Quando si ha la possibilità di dirigere un laboratorio teatrale in una scuola è sempre, per noi professionisti dello spettacolo, un’occasione buona per far appassionare i ragazzi a questo mestiere, per fare apprezzare il lavoro duro che c’è dietro la realizzazione di uno spettacolo in tutte le sue sfaccettature.

Quanto è complesso fare la regia di un evento che vede protagonisti giovani studenti che non hanno mai recitato?

Sembrerà strano ma dirigere ragazzi e ragazze che non hanno mai recitato non è così complesso come si potrebbe immaginare perché riscontri in loro la voglia di imparare e l’entusiasmo di conoscere,  che li porta a seguire con attenzione le delicate fasi  della costruzione di un personaggio. Curare la regia, in generale, è comunque complesso in quanto il regista deve tener presente i tanti aspetti dell’allestimento di uno spettacolo, dalla direzione degli attori al disegno luci dello spettacolo. Un lavoro difficile ma allo stesso tempo gratificante ed affascinante.

Parliamo dell’esperienza che sta vivendo all’Istituto “G. Marconi” di Giugliano, dove state provando il musical “Il Marconi va in scena…al tempo del Covid”…

L’esperienza che sto vivendo nello specifico, per me, rappresenta una ripartenza come professionista dello spettacolo e mi auguro sia vera non solo per me ma per tutti i miei colleghi e colleghe, che vivono solo ed esclusivamente di teatro. In tal senso sono molto fiducioso. Inoltre è un arricchimento umano ed artistico. Umano perché in questo contesto ho trovato collaboratori efficienti, ognuno con una rispettiva professionalità, rispettosi del proprio ruolo, mettendo a servizio dello spettacolo le loro singole competenze. Una bella squadra. Poi ci sono i ragazzi, una sorpresa continua. Si sono catapultati in questa esperienza con tanto entusiasmo e stanno riscoprendo che, oltre ai cellulari e ai social, esiste anche un altro modo per trascorrere il tempo. Mi stanno dando molto. Artistico perché ho la possibilità di sperimentare linguaggi teatrali nuovi dal punto di vista registico.

Il Covid 19 ha rivoluzionato il progetto originario?

Sì, purtroppo. Ciò, però, non ci ha fatto alzare bandiera bianca anzi ci ha dato ancora di più la forza, nonostante le difficoltà del periodo che stiamo vivendo, di riprendere questo bellissimo progetto, rivedendolo in alcuni suoi aspetti e adattandolo alle misure restrittive, dovute all’emergenza sanitaria.

In che misura?

Abbiamo fatto di necessità virtù. Abbiamo dovuto sacrificare alcune scene per lavorare in sicurezza e ciò ci ha portato a riscrivere il testo, con l’ausilio dell’autore, Giuseppe Desideri. Purtroppo non ci potrà essere la messa in scena in teatro ma allo spettacolo si potrà assistere attraverso il linguaggio audiovisivo, con l’augurio di portarlo in teatro appena sarà possibile, restituendogli la sua vera natura.

Come stanno rispondendo i giovani attori a questa esperienza che li vede protagonisti?

I giovani attori e le giovani attrici stanno rispondendo con grande entusiasmo tanto è vero che stanno lavorando molto bene, mettendo a frutto tutte le indicazioni che vengono date loro. Vorrei, però, menzionare anche le ragazze, non coinvolte nel progetto come attrici, che stanno realizzando un ottimo lavoro per quanto riguarda il backstage e con loro è giusto menzionare anche tutti i ragazzi dell’audiovisivo, impegnati come operatori. Emerge un gran bel lavoro di squadra senza egoismi personali e ciò mi riempie di gioia. La dedizione che i ragazzi stanno mettendo nel lavoro, appassionandosi, mi fa ben sperare nel futuro.

Che cosa consiglierebbe ai giovani che volessero diventare registi?

Quello che consiglio anche a chi vuole intraprendere la carriera di attore ovvero studiare per realizzare il proprio sogno, perseguire più l’ “essere” che l’ “apparire”. Il talento da solo non basta, serve innaffiarlo con lo studio e i sacrifici. Vivo di teatro sia come attore che come regista e, a suo tempo, quando feci questa scelta di vita, valutai più i “contro” che i “pro” di questo meraviglioso mestiere. Alle ragazze e ai ragazzi, che ho avuto la fortuna di conoscere nell’ambito di questo progetto, dico di non arrendersi mai alle prime difficoltà ma di seguire i propri sogni ed avere la giusta determinazione per realizzarli.

Orsola Grimaldi

Francesca Sensini: La lingua degli dei. L’amore per il greco antico e moderno

Francesca Sensini è professoressa associata di Italianistica presso la facoltà di Lingue e letterature straniere dell’Université all’Université Côte d’Azur de Nice, dottoressa di ricerca dell’Università Paris IV Sorbonne e dell’Università degli Studi di Genova. Comparatista di formazione, dedica principalmente le sue ricerche alla letteratura italiana tra XVIII e XX sec., alle riscritture e all’ermeneutica dell’antichità classica in Europa e agli studi di genere in ambito letterario. Tra le sue pubblicazioni più recenti Pascoli maledetto, Genova, Il Melangolo, 2020; Marise Ferro, La guerra è stupida, a cura e con un saggio introduttivo di F. Sensini, Sestri Levante, Gammarò, 2021; La lingua degli dei. L’amore per il greco antico e moderno, Genova, Il Melangolo, 2021.

Lei ripercorre una storia ininterrotta, che va da Omero ed arriva fino ad oggi.
Cosa ha inteso illuminare, sottraendolo al buio della nostra dimenticanza?

La storia ininterrotta è quella della Grecia, del suo popolo e della sua lingua sullo sfondo del Mar Mediterraneo. Per un errore di prospettiva, legato alla nostra tradizione culturale, centrata sul destino di Roma, nel nostro immaginario tendono a esistere due Grecie, se così posso dire: da una parte l’antica, modello insuperabile di civiltà, oggetto di studi specialistici ed elitari; dall’altra, la Grecia moderna, di cui perlopiù ignoriamo la storia e la cultura, ridotta com’è a paese vacanziero, scintillante sfondo di cartolina, lembo marginale dell’Europa e sua infelice membro. Invece no, la Grecia è una e come tale va guardata per essere davvero compresa e conosciuta nella sua millenaria avventura, nel suo modo unico di essere nostro specchio e, insieme, prefigurazione di noi stessi, della nostra storia di individui e di comunità. Così, nella pagine di questo libro vago – e divago – dal IX sec. a. C., il tempo di Omero, che a sua volta ci racconta storie ancora più antiche, risalenti al XIII- XII sec. a. C., per arrivare ad oggi, 2021, anno in cui la Grecia festeggia la rivoluzione nazionale che l’avrebbe resa di nuovo una nazione indipendente. Ho tentato così di illustrare l’esperienza di questo paese mirabile e ammirevole attraverso ventiquattro racconti/riflessioni portati alla mia fantasia dalle parole, sia del greco antico che del moderno, come altrettante conchiglie risalite fino a me sulla riva del mare, provenienti chissà da dove, levigate da chissà quali correnti. Al di fuori del discorso specialistico, scientifico, ho voluto ‘illuminare’ il mio amore per questa patria ideale, contradditoria, magmatica, imperfetta, e per questo vivissima, sottrarre all’ombra della dimenticanza e a una memoria inerte, fossilizzata dal culto della tradizione, la Grecia di sempre attraverso il mio legame con lei, partendo da me per rivelarla agli altri, a chi il greco lo ignora del tutto o a chi invece lo conosce da studioso, a chi ama la Grecia d’istinto o a chi la venera per infinite ragioni. Ho tentato quanto meno, raccogliendo frammenti di storie.
Guerra di liberazione, combattuta con orgoglio, e reazione ad una devastante crisi economica.
Ravvede un medesimo moto d’animo, squisitamente greco, che cavalca i millenni?

Tra le qualità che davvero sembrano modellare lo spirito del popolo greco c’è sicuramente il senso di appartenenza a una civiltà che si distingue per la sua aspirazione alla libertà, intesa come espressione piena dell’umano e come condizione relazionale, che tiene conto degli altri intorno a sé, della comunità, e desiderio di fare e conoscere non sottoposto a catene, a dogmi. Altro tratto distintivo è senz’altro la capacità di accogliere in sé il concetto di alterità ed elaborarlo. I Greci sono viaggiatori, migranti, filosofi con la mente e con il corpo. Nella loro lingua il “dubbio” è l’ostacolo che si frappone al loro movimento, l’assenza di passaggio, l’a-poria in senso etimologico. Non è un caso per me. Dalle grandi battaglie di Maratona e Salamina nel V sec. a. C, quando l’impero persiano del Re dei Re, ricchissimo e strapotente, viene sconfitto contro ogni logica aspettattiva da una manciata di soldati coraggiosi fino alla follia e da poche navi inadatte gli scontri navali, fino allo scempio che del paese è stato fatto da una politica rapace e amorale, con la svendita del suo patrimonio nazionale a ricchi compratori esteri, la Grecia continua a opporre la sua resistenza. La Grecia ci insegna da sempre che esiste sempre un processo alternativo alla mera sopravvivenza, che qualcosa può sempre (e deve) accadere, se non ci lasciamo invadere dalla paura, ci insegna la “resistenza”, l’antístasi, il “mettersi davanti e contro qualcosa”, “l’opporsi”, che è tutto il contrario della “resilienza”, l’anthektikótita, quell’idea oramai corriva e detestabile che porta in sé l’idea che la vita non si possa liberare da quanto la opprime, la schiaccia, le spreme via energia e che in greco infatti rinvia al verbo “sopportare”.
Il testo è un encomio che non intende palesare le sue ragioni con ragionamenti logici bensì con i racconti che le parole recano con sé: quelle antiche e quelle moderne. La prima è, appunto, “memoria”.
La Grecia è una “questione” di memoria?

Sì, è una questione di memoria. La parola “memoria” è la stessa in greco antico e moderno, mnéme, μνήμη (oggi pronunciato mními). La lingua e la civiltà greca sono la nostra memoria comune. e non sto parlando di tradizioni. Il discorso del mio libro non è motivato da un’astratta venerazione per i modelli di una cultura dominante, per un bagaglio educativo considerato aprioristicamente illustre e ridotto con il passare del tempo a tecnica o ginnastica mentale. Si tratta di un dato storico e di civiltà. Ugo Foscolo – poeta che consideriamo senza farci troppe domande italiano ma in realtà greco delle Isole ioniche – lo riconduce alla possibilità di definire noi stessi. In una lettera del 1808 al diplomatico prussiano Jacob Salomo Bartholdy, il poeta dice più o meno questo: finché mi ricorderò chi sono, mi ricorderò della Grecia. La Grecia di Foscolo non è solo la sua terra di origine né solo la sua patria (anche l’Italia lo fu, dopo tutto). la Grecia, e quella che si chiama grecità, come a dire l’essenza della nazione, sono il paesaggio su cui si delinea la nostra figura, lo sfondo del nostro ritratto. Possiamo dire di no, far finta di niente obiettando che in fondo è roba antica, difficile, morta, ma sarebbe una rimozione, oltre che una clamorosa falsità. e a privarci di una risorsa vitale, mortificando le possibilità della nostra fantasia, saremmo tristemente noi, in ogni caso.
Omero e Kavafis: Grecia antica e Grecia moderna. Può instaurare qualche relazione e qualche confronto?
Greco di Istanbul nato ad Alessandria d’Egitto, l’antica “Parigi” ellenistica e ancora nell’Ottocento città cosmopolita, Kavafis è senz’altro un luminoso esempio di uomo e poeta autenticamente mediterraneo e perfettamente greco. La Grecia è diffusa nel Mediterraneo, è il viaggio che conta, non l’approdo, per evocare il testo di Kavafis forse più noto, Itaca, ispirato al personaggio di Odisseo/Ulisse. L’ispirazione di Kavafis, così come l’uomo Kavafis, è errante nello spaziotempo – ha cantato il mondo ellenistico pagano, l’impero di Costantinopoli, il suo profondo smarrimento nel presente – come errava Omero, poeta girovago di isola in isola, in tutto simile ai colleghi aedi di cui racconta nell’Iliade e nell’Odissea, Demodoco e Femio. Anche Omero errava col corpo e con la fantasia, pescando a piene mani nei secoli bui dove gli audaci Achei del Meditteraneo occidentale guerreggiavano contro i ricchi orientali di Troia per avere con sé la Bellezza, che i Greci hanno chiamato Elena e che meriterrebbe davvero un libro a parte. Le corrispondenze non mancano e accanto a Kavafis i nomi delle grandi voci della Grecia moderna sarebbero tanti quanti i nomi dei condottieri nel catalogo delle navi di Iliade, II (iperbole epica, mi sia concessa).
Può indicarci un particolare della “sua” Grecia, un elemento per lei inconfondibile?
La “mia” Grecia è uno scrigno senza fondo di storie – i “miti” che sono, etimologicamente, le “parole” pronunciate, dette a voce alta, condivise in uno spazio comune perché diventino codice comune, legame comunitario, emozione condivisa – storie forse mai veramente avvenute, storicamente indocumentabili, galleggianti come relitti nel mare del tempo, ma che, di fatto, sono sempre perché sostanziano il mistero dell’esistere; del nostro di occidentali, di europei, in particolare. È una Pandora al contrario. Non apre il contenitore da cui escono, diffondendosi irrimediabilmente, i mali nel mondo. Dal suo píthos escono doni di ogni genere: possibili strategie per mettere ordine nel disordine del mondo, per sfruttare a proprio vantaggio il disordine stesso dell’essere, parole e pensieri lontanissimi da nostri con cui rinnovare noi stessi e la realtà che ha smesso di meravigliarci. D’altra parte, Pandora significa “colei che è tutto un dono”. Così tutto torna, come si dice. La “mia” Grecia è la domanda ricorrente sull’arché, sul principio: com’è davvero cominciato tutto? La Grecia continua a formulare con me le sue ipotesi, a farmi intravedere risposte. Intanto un ospite sorridente mi porta, a fine pasto, senza che io abbia chiesto nulla, anguria fresca e tsípuro: la “mia” Grecia è anche l’antico simposio che si rinnova su una tovaglia di carta, a due gradini dal Mediterraneo, per poche dracme (oggi euro, qualcuno in più di un paio di decenni fa).

Giuseppina Capone

Alessia Barbagli: Scrivere per resistere. Il Decameron ai tempi del Covid

Alessia Barbagli insegna lettere in una scuola secondaria di primo grado di Roma, dottore di ricerca in Ricerca educativa e psicologia dello sviluppo, cultrice della materia presso la cattedra di didattica generale all’Università la Sapienza di Roma, si è occupata di educazione linguistica con pubblicazioni su riviste scientifiche nazionali e internazionali. Partecipa da anni a laboratori di formazione sulla narrazione e sul pensiero narrativo e attualmente collabora con il settimanale “Left”.

Scrivere per resistere. Il Decameron ai tempi del Covid si presenta come un’ampia opera collettiva.
Come e quando ha preso vita e quali sono stati gli umori che l’hanno accompagnata?
L’idea di trasformare in pubblicazione il percorso didattico svolto lo scorso anno durante il lockdown con la mia classe seconda mi è venuta verso la fine della scuola quando ho pensato che potesse essere importante condividere con altri una parte del mondo della “scuola a distanza”, da un lato rendendo disponibili le voci dei ragazzi e delle ragazze che, attraverso le novelle, hanno in qualche modo raccontato se stessi e il mondo che vedevano dalle loro case, dall’altro riportando il percorso che ha condotto a quel progetto. Si sono poi aggiunti i contributo di altri studiosi e studiose che hanno permesso di comprendere il significato assunto da vari aspetti dell’attività svolta.
Il progetto didattico in sé si è sviluppato dal 9 marzo 2020 per sei settimane, in pieno lockdown. La reazione dei ragazzi e delle ragazze è stata immediatamente entusiasta, poi, con il passare dei giorni e delle settimane, spesso le loro risposte risentivano del clima generale che si stava vivendo in quel periodo caratterizzato da momenti di maggiore o minore pesantezza che spesso corrispondevano a maggiori o minori difficoltà nella scrittura e nel racconto.
Durante il lockdown le studentesse e gli studenti hanno ricreato il meccanismo del Decameron di Boccaccio, costituito da 100 novelle. Per questo libro di storie ne sono state selezionate 129.
Quale criterio ha adottato?
Non è stato adottato un unico criterio ma una serie di criteri con priorità differenti. Il primo, e quello più importante, è che tutti fossero rappresentati da almeno tre novelle, poi spesso le novelle sono state scelte in base alla corrispondenza con l’argomento della giornata e con la lettura che, di volta in volta, ho dato del motivo per cui il re o la regina aveva scelto quel tema; altre volte le novelle sono state scelte perché oppure perché costituivano un esempio di evoluzione dello stile o del pensiero dell’autore o dell’autrice.
Quale ritiene sia stata la qualità di un’azione educativa siffatta?
Non è facile valutare l’efficacia di un’azione educativa in senso generale. Forse posso partire dal considerare gli obiettivi che mi ero posta all’inizio del progetto ovvero quello di mantenere vivo il gruppo classe facendo ciò che ci caratterizzava come gruppo ovvero attività didattica.
Scrivere è una pratica che permette di curare e “nutrire” la relazione se lo si fa in un’ottica comunicativa (come ha ben spiegato Patrizia Sposetti nel suo contributo nel libro), scrivere all’interno di una comunità di scriventi rende molto più efficace la scrittura stessa. Inoltre, raccontare storie, a partire da un tema dato da un componente del gruppo di riferimento, consente di raccontarsi agli altri e nel raccontarsi si costruisce il senso necessario per comprendere il mondo che ci circonda: in quel momento il mondo era particolarmente poco chiaro e poco certo e, se da un lato la necessità di cercare un senso era forte, dall’altro la condizione di novità e imprevedibilità rendeva particolarmente difficile farlo in modo autonomo. La forma del gruppo e del meccanismo del Decameron aveva lo scopo di facilitare questa attribuzione di senso. Spero, quindi, che questa attività abbia consentito di mantenere un livello di socialità sufficiente a contrastare l’isolamento e condividere la resistenza ad un momenti difficile e abbia dato ad ognuno di loro la fiducia nel trovare con la cultura gli strumenti per rispondere a molti dei quesiti che la vita ci pone davanti.
Agli oltre cento racconti raccolti nel libro, si affianca il contributo di esperti e studiosi, che hanno proposto un’intensa riflessione sul senso della scrittura come resistenza in questo incerto presente.
Può offrircene una sintesi?
Così come il progetto didattico è stato caratterizzato dalla coralità delle molteplici voci dei ragazzi e delle ragazze, anche il volume si presenta come un’opera “corale” che contiene contributi di esperti su tematiche inerenti il progetto stesso.
Franco Lorenzoni, ha scritto un’affascinante e intensa prefazione dove focalizza l’attenzione sull’importanza di raccontare le storie e sull’orchestrazione del progetto.
Simone Giusti, attualmente docente di didattica della letteratura all’Università di Siena ha approfondito il Decameron come metafora di insegnamento della letteratura a partire dalla cornice; Patrizia Sposetti, professoressa ordinaria di Didattica generale all’Università la Sapienza di Roma e specializzata in educazione linguistica, ha scritto un saggio sulla funzione della scrittura dando una lettura scientifica della pratica svolta nel corso del progetto.
Infine Elena Monducci, psichiatra e psicoterapeuta, ha parlato dei ragazzi e delle ragazze dal punto di vista di chi si occupa di dimensioni interne tenendo in considerazione il particolare momento di crescita in cui alunni e alunne hanno scritto e hanno detto di sé.

Giuseppina Capone

Splende la luce sulla città con i Sedili di Napoli

“Splende la luce sulla città. I Sedili di Napoli attraverso la storia e le immagini”, questo il titolo della Mostra fotografica-documentale con riconoscimento FIAF (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche), organizzata dall’Associazione Culturale “Napoli è” dal 19 maggio al 30 maggio e inserita nel calendario del Maggio dei Monumenti 2021.

La mostra, allestita presso la Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus in piazzetta San Gennaro a Materdei n. 3, nel cuore di Napoli, attraverso una selezione di fotografie e di cartografie, porta il visitatore alla riscoperta degli antichi Sedili della città. Un racconto di luoghi, storia, attività, spaccato sociale, leggende.

La mostra è prorogata per tutto il mese di giugno dal lunedì al venerdì con i seguenti orari:  ore 10.00-13.00/ 16.00-19.00. Il contributo previsto per la visita alla mostra è di € 5,00. E’ obbligatoria la prenotazione telefonando al 351 1264195.

In relazione al frequente aggiornamento delle normative anti Covid-19 l’iniziativa è condizionata al rispetto della normativa vigente tempo per tempo.

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