Ilaria Mainardi: Il racconto di un sogno. Ritorno a Twin Peaks

Ilaria Mainardi con Les Flâneurs Edizioni ha pubblicato il romanzo La quarta dimensione del tempo (2020). Collabora con il sito di critica cinematografica www.spietati.it.

Nel Saggio da lei redatto si legge:“Twin Peaks. Il ritorno” parla con noi ma non parla di noi, se si vuole intendere un dialogo rassicurante e ligio alla più fintamente progressista omologazione postmoderna.”

Qual è il merito di David Lynch?

Non so se si possa parlare di merito, né se l’autore desideri fregiarsene, quindi parlerei di peculiarità. Una di queste è quella di aver portato avanti un percorso internamente coerente. Credo che Lynch sia riuscito a essere l’artista che voleva. E anche nel caso di lavori “sfortunati” – in pratica disconosciuti – come “Dune”, la sua impronta stilistica è ben presente, quasi oltre lui stesso e oltre la volontà che ha indotto la produzione a rimaneggiare pesantemente il film.

David Lynch e Mark Frost: un connubio che, a suo avviso, ha realizzato “un capolavoro”.

In qual modo ciascuno ha espresso le sue potenzialità, attitudini, peculiarità in un progetto “lungo quasi trent’anni”?

Come spesso accade nella storia di Lynch, gli incontri sembrano avvenire quasi per caso e perché devono avvenire proprio in quel momento. Con Mark Frost, l’incontro avviene per un progetto che avrebbe dovuto intitolarsi “Goddess” (oppure “Venus Descending”), incentrato sulla figura di Marilyn Monroe. «Di David mi colpirono la franchezza e il grande senso dell’umorismo», dice Frost a McKenna, intervistato per la realizzazione della biografia “Lo spazio dei sogni”, edita in Italia da Mondadori.

Il lavoro comunque naufraga perché la United Artists, che avrebbe dovuto produrlo, teme ripercussioni politiche, a causa dei rapporti della famiglia Kennedy con la sfortunata diva. “Goddess” era di certo un progetto distante, da un punto di vista narrativo, dal mondo di “Twin Peaks”, al di là della supposta assonanza Laura-Marilyn. Gli intenti stilistici non lo erano invece così tanto, dato che sia Frost che Lynch concordavano sulla necessità di un approccio immaginifico, onirico, poco ancorato allo stretto realismo. Il resto è storia, come si suol dire, benché tra i due sodali non siano mancate divergenze, anche importanti, durante gli anni di lavorazione di “Twin Peaks”, specie per quanto riguarda la seconda stagione.

Lei asserisce che il regista, artista e musicista si amalgami con gli spettatori “modificando e lasciandosi modificare dagli spettatori a ogni visione, stabilendo una connessione con la coscienza più che con la materia”

Qual è la relazione che Lynch intende stabilire con coloro che guardano?

Ritengo che si tratti di un dialogo infinito, ragione per la quale l’interpretazione è allo stesso tempo un processo affascinante e frustrante. Per quanto mi riguarda, la bellezza dell’arte (e quella di Lynch lo è a pieno titolo, in quella sua inesauribile stratificazione semantica e simbolica) risiede nel suo essere imprendibile, sfuggente a ogni tentativo di chiusura dogmatica. Lo sguardo modifica, direi chimicamente, l’opera ed è modificato da lei: questo rapporto apre una molteplicità di significati, variabili con il tempo – concetto che permea il corpus lynchiano –, con il portato esperienziale di ciascuno ecc.. L’arte di Lynch (l’arte) è fenomeno, ma anche noumeno.

Il lavoro è così pulsante che qualsiasi esegesi mi parrebbe profanatoria, quasi il tentativo di dissezionare un presunto cadavere che invece è una creatura fervente di vita”.

Ebbene, può esplicitare le caratteristiche di un linguaggio tanto ibrido ed eterogeneo?

Lynch si muove per “idee” (e la capacità di averne sempre di nuove va allenata), in parte definibili come intuizioni creative, anche se la locuzione non è del tutto soddisfacente. Prendiamo per esempio “Velluto blu”. Nella biografia a quattro mani di David Lynch (con Kristine McKenna), “Lo spazio dei sogni”, si legge la modalità secondo la quale il regista dichiara di aver proceduto. È singolare, ma rende molto bene l’idea (appunto!) di un processo creativo, capace di attingere davvero a qualunque elemento, ri-semantizzato poi secondo la propria immaginazione. Si crea un caleidoscopio che contiene arte, ma anche oggetti, solo in apparenza privi di senso, in realtà denotati da sensi abissali. Parafrasando, Lynch rivela che all’inizio sono arrivate una sensazione e il titolo, “Blue Velvet”. In seguito ha come visualizzato l’immagine dell’orecchio mozzato, che determina di fatto l’avvio del plot, con il ritrovamento da parte del personaggio interpretato da Kyle MacLachlan (una sorta di Agent Cooper ante litteram e suo malgrado).

Vi sono svariati aneddoti sulla falsariga del precedente.

Meditazione trascendentale, arte figurativa, sciamanesimo, filosofia, arte visiva, psicologia: discipline differenti per compiere l’analisi di “Twin Peaks. Il ritorno”.

Cosa l’ha indotta ad allontanarsi dalle norme della narratologia?

Questo lavoro è un saggio, ma anche un racconto: è un saggio raccontato, un lavoro che si pone dunque come ibrido. L’intento principale è stato quello di lavorare per rimandi, simboli, suggestioni, lasciando che fosse l’opera stessa, il suo incessante parlare, a fare da guida. La consapevolezza di non poter – e a un certo punta quella di non voler – approdare in nessun porto sicuro è stata paradossalmente la sola, vera ancora della quale potevo disporre. Ho dunque stabilito un vero e proprio dialogo, complesso e mai rassicurante, con “Twin Peaks. Il ritorno” e ho cercato di ri-creare un percorso: mio, certo, ma anche condivisibile con gli altri. Ogni viottolo conduce a un’altra diramazione: non mi interessava inventarmi Verità, con la maiuscola, che non posseggo, ma fornire, nel mio piccolo, lo spunto per porsi ulteriori domande, per viaggiare ancora in mare aperto.

Giuseppina Capone

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