Stefano Scrima, filosofo e scrittore, si è formato tra Bologna, Barcellona, Madrid e Roma. Fra i suoi libri: L’arte di sfasciare le chitarre. Rock e filosofia (Arcana, 2021); L’arte di disobbedire raccontata dal diavolo (Colonnese, 2020); Vani tentativi di vendere l’anima al diavolo (Ortica, 2020);per Castelvecchi: Digito dunque siamo. Piccolo manuale filosofico per difendersi dalle illusioni digitali (2019) e Socrate su Facebook. Istruzioni filosofiche per non rimanere intrappolati nella rete (2018); per Il Melangolo: Filosofi all’Inferno. Il lato oscuro della saggezza (2019) e Il filosofo pigro. Imparare la filosofia senza fatica (2017); per Stampa Alternativa: L’arte di soffrire. La vita malinconica (2018) e Nauseati (2016). “SatisPhilo” è la sua rubrica di filosofia su Satisfiction.
Quali sono le ragioni per le quali coloro che sono nati negli anni Ottanta reputa che si ritrovino afflitti da un precoce senso di fallimento esistenziale?
I nati negli anni Ottanta sono i trentenni di oggi, una generazione che – lo dicono i dati, ancor prima che le sensazioni – non ha la possibilità di vivere come ha vissuto la generazione dei suoi genitori. Le condizioni sociali sono profondamente cambiate, al contrario della mentalità e dell’educazione, le quali, sono andate invece a cristallizzare i valori assoluti del sistema capitalistico nel quale siamo cresciuti, primo fra tutti il lavoro come mezzo di identificazione identitaria attraverso la quale raggiungere la propria realizzazione esistenziale. È fisiologico che venendo a mancare la possibilità di lavorare – intendo, in particolare, assecondando la propria formazione per cui si sono spesi tempo, energia e denaro, e la propria inclinazione (chiamiamola, se vogliamo, passione) – lo spettro del fallimento non può che aleggiare sulle nostre vite. Beninteso, non è che non ci sia più lavoro (anche se la disoccupazione giovanile e nella fascia dei trentenni rimane spaventosa), è che il lavoro, per adeguarsi e rispondere alle esigenze del cosiddetto mercato, ha messo completamente da parte il benessere della persona (e figuriamoci allora la sua realizzazione) precarizzandosi, svilendosi, svuotandosi dei contenuti sociali e di dignità per cui avrebbe ancor senso “cercarlo”. Un lavoro precario, sfruttato, senza tutele, senza prospettive, oggi sempre più diffuso e spesso unico orizzonte per chi si affaccia nel mondo degli adulti, quale sentimento potrebbe suscitare in chi è sottoposto a tale condizione? Chiaramente, come scrivo nel libro, esistono delle soluzioni concrete, politiche, per tentare di cambiare rotta, ma prima di tutto è necessario aver coscienza di questo tradimento sociale e mutare la mentalità tossica che fa sì che la colpa sia addossata a chi non si adegua. Non è così e non deve essere così. La rivoluzione culturale parte dal ribaltamento dei valori assoluti e mai indagati della modernità liquefatta, più che liquida. Il lavoro, ad esempio, soprattutto nelle condizioni in cui versa (ma è ovvio che va cambiato tutto, non si può andare avanti così, e finché non sarà messa al centro la persona non andremo da nessuna parte), non può più assumere le sembianze dell’unica dimensione delle nostre esistenze. Non siamo nati per lavorare e basta, schiacciati dall’angoscia di non riuscire a trovare o mantenere un qualsiasi lavoro. Abbiamo le risorse tecnologiche per immaginare e realizzare un mondo diverso, evidentemente mancano quelle morali, o semplicemente umane.
Lei adopera l’espressione “gioventù incenerita”. Quali sono le differenze tra la gioventù che realizzò il ‘48 de “L’educazione sentimentale” di Flaubert e la “gioventù bruciata” degli anni Cinquanta?
Probabilmente ogni generazione ha le sue ragioni per sentirsi fallita, ma la differenza della mia generazione – e per questo la chiamo “gioventù incenerita”, che non sta nemmeno più bruciando – è che vive come se fossimo alla fine dei tempi, come se dopo non potesse esserci più niente, alcun cambiamento, come se l’unico orizzonte possibile fosse quello che abbiamo sotto gli occhi, nel bene e nel male. E, ancora una volta, non è così. È un atteggiamento culturale tipico dell’ideologia capitalista, che si ritiene unica in grado di garantire il solo progresso utile all’umanità. È una gioventù incenerita anche perché, al contrario della generazione di Flaubert, o quella di James Dean, o quella del ’68, del ’77, ma anche della generazione X, sente di non aver realizzato nulla e avverte vivida la propria impotenza. Vive di ricordi mai vissuti. Se esiste una colpa per tutto questo non so di chi sia, ma di certo è la prima volta nella storia moderna, diciamo dalla Rivoluzione francese, che una generazione intera viene cresciuta senza alternative, chiedendole nient’altro che adeguarsi al sistema, fare il suo gioco e cercare di vincere qualcosa a discapito degli altri.
“Chi sono io?”, “Chi siamo noi?” Ebbene, come risponde ad un quesito identitario di tal fatta chi non ha un lavoro, risultando un inetto?
Eh, bella domanda. Nella nostra società se non hai un lavoro non sei nessuno o, meglio, sei un inetto, appunto. Oppure, se un lavoro ce l’hai, diventi quel lavoro, al netto della sua natura precaria, destabilizzante, ansiogena. Insomma, se non sei riuscito a ottenere un lavoro migliore è solo colpa tua. È ovvio che non è realmente così, ma il giudizio sociale, figlio di una mentalità subdola e ipocrita (in cui più sei ignorante e ti adegui allo stato delle cose meglio è e meglio vivi), pesa come un macigno. Non potrebbe essere altrimenti. Realizzarsi nel segno del proprio essere, diventare se stessi, come direbbe Nietzsche, non passa ovviamente attraverso il lavoro per come è inteso oggi. Passa invece attraverso la scoperta delle proprie qualità, dei propri talenti, nel riuscire a esprimere il potenziale che ognuno ha dentro di sé. Che sia attraverso un’attività remunerata o meno non dovrebbe incidere sul riconoscimento collettivo della persona, creando diseguaglianze economiche e morali che spesso si basano sulla malafede di chi vive solo per interessi personali a discapito della società (atteggiamento foraggiato dal sistema). Finché non costruiremo una società che ha a cuore la “fioritura” (termine che va tanto di moda, senza però che si metta mai in dubbio il sistema che fa di tutto per farci appassire) della persona, ma solo la quadratura economica improntata alla crescita infinita, le cose non faranno che peggiorare, e riconoscerci, trovare noi stessi, sarà sempre più difficile, se non addirittura impossibile.
Il meccanismo perverso del capitalismo oggi punta sul “sogno”. Qual è il valore commerciale del “sogno” e come si reagisce alla disillusione del sogno infranto?
Donne e uomini sono fatti per sognare, sono programmati così, non possiamo farci nulla. Leopardi, fra gli altri, ci aveva messo in guardia da questo sognare, pieno di splendide illusioni che nella maggior parte dei casi verranno disattese provocando in noi sentimenti di dolore, frustrazione e noia. E quindi? Bisogna smettere di sognare? No, mai. Sognare fa parte della vita e più è difficile tramutare il sogno in realtà più saremo felici, anche se, non contenti dell’obiettivo raggiunto, inseguiremo mille altri sogni fino alla fine dei nostri giorni. Detto questo, una società che cresce i suoi figli attraverso illusioni – nel libro parlo in particolare del sogno americano del “puoi diventare ciò che vuoi” e dell’italianissimo sogno del posto fisso –, andando a stimolare e creare sempre nuovi bisogni che non servono altro che ad alimentarla, è una società malata. Il consumismo di oggi ha sempre meno a che fare con gli oggetti, la merce, e sempre di più con le esperienze, i sogni, le illusioni. Siamo costantemente spinti da ogni dove a volere, desiderare, sognare. Per poi vedere i nostri sogni sgonfiarsi nel cielo dell’indifferenza. Non c’è modo di reagire a questo circolo vizioso se non smascherandolo, smettere di sognare in funzione del sistema e farlo per noi, per quello che siamo e vogliamo veramente. Impresa erculea, quando siamo stati plasmati proprio da questa cultura.
Perché la definizione di “Ghost Generation”?
Perché la disperazione e l’angoscia quotidiana dei trentenni di oggi non è riconosciuta. Per questo è una generazione dimenticata, fantasma. Per malafede, vergogna, incapacità, impotenza di chi potrebbe fare qualcosa e non lo fa. Certo, anche gli stessi trentenni dovrebbero fare qualcosa, ma non sanno cosa e soprattutto come, schiacciati come sono a vivere alla giornata e con prospettive ridicole. Serve un’alternativa, un modello culturale antagonista nel quale riconoscersi. Non esiste nulla di tutto ciò, soltanto un’unica narrazione che vuole che questo sia il miglior mondo possibile. Io mi chiedo solo quando ci stancheremo di tutto questo e inizieremo a rivendicare un po’ di futuro anche per noi.
Giuseppina Capone