Le Comunarde si sono formate politicamente e pubblicamente in un contesto
storico che le negava proprio in quanto donne.
Quale idea di collettività propongono?
Le comunarde sono tante e diverse. Non
propongono un’idea univoca di collettività, né ricette politiche valide per
tutte e tutti. Sanno intessere storie e strategie di lotta alleandosi senza
annullarsi, rispettandosi nelle loro differenti visioni e genealogie politiche.
Non hanno una visione ideologica della società che vogliono contribuire a
creare. Rifiutano il potere, lo Stato, l’imperialismo, e ci restituiscono
un’idea plurale, contingente di politica: radicata nelle relazioni, nei
vissuti, che nasce nelle strade, negli spazi condivisi, fuori dai palazzi
governativi. Che si fa lottando, cantando, scrivendo, discutendo in assemblea,
e in mille altri modi. Le Comunarde sfuggono alle narrazioni misogine dell’epoca. Ebbene, quali
percorsi seguono per imporsi?
Non credo che “imporsi” sia il termine
più appropriato. Ciò che importa loro, in prima istanza, è svincolarsi,
“schivare”, quelle narrazioni. Hanno un obiettivo – creare una società nuova,
diversa, più giusta – e vogliono realizzarlo assieme. Si muovono su un piano
per certi versi inatteso, quello delle pratiche quotidiane e delle assemblee.
Non mirano a prendere il potere, a creare un governo, a istituire leggi:
vogliono esserci, ed esserci tutte intere. Vogliono che la loro parola politica
abbia valore, così come le loro decisioni collettive. Vogliono poter agire e
dare vita, nei fatti, concretamente, a una nuova società. Ma la società del
tempo dice loro cosa essere, a cosa aspirare, dove stare. Le fa madri o
puttane, vittime o assassine. Ne dequalifica il pensiero, la riflessione
collettiva e soprattutto cancella la portata politica della loro azione. Di
nuovo, come nel 1789, rischiano di essere lasciate sullo sfondo, fuori dalla
scena politica vera e propria. Questo perché una lunga tradizione di pensiero,
che risale almeno alla polis ateniese, vede le donne e il potere come piani
opposti e inconciliabili. Le comunarde dimostreranno che la politica è un
orizzonte più ampio del potere, e che non si esaurisce in esso. Come le
femministe italiane sottolineeranno a un secolo di distanza, “potere e politica
non sono la stessa cosa”. “Sante, puttane, furiose, sanguinarie, bestie, streghe, virago. Eppure,
nonostante questa fittissima cortina innalzata su di loro dallo sguardo
maschile, le comunarde oggi possono dirci e insegnarci davvero moltissimo”
Nell’anno del 150° anniversario quanto è attuale il loro messaggio politico?
Personalmente penso che la loro
esperienza abbia molto da insegnarci oggi, in tempi in cui le lotte femministe
si intrecciano con quelle di altre soggettività non eteronormate, creando
alleanze puntuali, contingenti e plurali. Ci insegnano a lottare insieme
nonostante le differenti genealogie politiche e le diverse esperienze verso un
obiettivo comune. Ci insegnano anche, però, che è fin troppo facile, nel
momento in cui si lotta insieme, dimenticarsi delle specifiche urgenze di ogni
soggettività o gruppo in lotta e cominciare a parlare per altrз. Ci insegnano
soprattutto che l’ideale non deve mai sovrascrivere la realtà dei vissuti e che
la politica si fa assieme, giorno per giorno, nelle pratiche e nel quotidiano.
Il saggio da Lei redatto rilegge l’esperienza della Comune di Parigi con
una visione femminista: “voglio rileggere questa esperienza a partire da una
postura femminista, incarnata e sessuata, lasciandomi orientare da chiavi
interpretative semplici: pratiche, alleanze, soggettività in conflitto, corpi,
relazioni, rapporti di genere, mutamento dell’immaginario.”
Quali sono le ragioni di tale approccio?
I femminismi mi hanno insegnato che
pretendere che il sapere non sia situato, ma che sia anzi oggettivo, razionale
e universale, e soprattutto che sia neutro, è una finzione che non solo
maschera la complessità del reale, ma che produce (e riproduce) oppressione. Il
sapere è un campo di forze, attraversato da numerose linee di potere. Nominare
il proprio posizionamento, e dunque la propria parzialità, orientando lo
sguardo verso ciò che quel sapere “scientifico” e oggettivo della modernità ha
lasciato in ombra in nome della “razionalità” – i conflitti, i corpi, i
vissuti, i rapporti tra i sessi – è in questo senso un atto radicale che libera
storie, relazioni e immaginari per tuttз. Louise Michel, Nathalie Lemel, Paule Mink, André Léo, Elisabeth Dmitrieff e
Victorine Brocher: figure antitetiche per molti versi.
Qual è il filo rosso che le accomuna?
Le comunarde hanno orizzonti politici,
genealogie, posizionamenti diversi. Lungi dal leggere la complessità come un
ostacolo o un elemento di difficoltà, le donne della Comune hanno saputo
pensare la politica come a un intreccio di relazioni, come un’alleanza che non
cancella, né assimila. Le accomuna la volontà di essere insieme, partecipare
alla Comune e alla creazione di una nuova società, dando priorità al
quotidiano, ai vissuti, alle urgenze concrete prima ancora che agli ideali astratti
o alle dinamiche classiche di potere, a cui sono scarsamente interessate.
Ripartono dalle esperienze, dalla materialità, dal fare assieme e immaginano un
mondo nuovo.
Federica Castelli, filosofa femminista e coordinatrice del Master in Politiche e studi di
genere dell’Università Roma Tre.
Giuseppina Capone
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