In un tempo di crisi e di fondamentalismi il dissenso può costituire il senso stesso della filosofia?
Parliamo di un tempo di crisi nel senso di “crisi dei fondamenti” (o anche del concetto stesso di fondamento), crisi di concetti quali: progresso, storia come linea unica, razionale e progressiva, realtà, verità, umanità. La fine di quelli che Lyotard chiamò i “grandi racconti”, insomma l’orizzonte culturale ed esistenziale dell’annuncio nietzscheano della morte di Dio. Paradossalmente è anche il tempo dei tanti fondamentalismi, non solo religiosi (anche se è stato osservato che proprio da quando “Dio è morto” assistiamo ad un continuo fiorire di intolleranze, conflitti religiosi e guerre sante nel nome di Dio). Da un certo punto di vista, la questione del dissenso va ad incrociare proprio questi due aspetti, crisi dei fondamenti e odierni fondamentalismi.
Il termine “dissenso” ha avuto, almeno in Italia, una storia, un uso e una interpretazione alquanto particolari. Ricordiamo i “cattolici del dissenso” e l’opera dei “dissidenti” russi e dell’Europa allora chiamata “dell’est”. Per la verità, nel mondo della sinistra di quei tempi l’espressione “dissenso” non godeva di molta fortuna, perché considerata lontana se non avversa alla pratica e al pensiero “rivoluzionari” (ma ricorderemo, qui, che ogni potere istituito da una rivoluzione si è prodotto in una sistematica repressione del “dissenso”…)
Proporrei di pensare al termine dissenso non riferendoci al piano dell’espressione – di parola, di pensiero (e anche alle sue molte ombre, basti pensare alla “tolleranza repressiva” di cui scrisse Marcuse) – quanto al piano dell’esperienza, del vissuto: il dis-sentire ha a che fare con il senso e più ancora con il prefisso dis-.
Il prefisso indica dispersione oppure separazione, taglio, discrimine. In questo senso, anche dis-sesto (esser fuori sesto, vivere un tempo disturbato,“out of joint” come dice Amleto, come una spalla che va fuori posto, disarticolata), dismissione della sicurezza e esercizio di incertezza.
Anche dis-sociazione: in una avvertenza premessa al dattiloscritto del progetto inedito di Husserl per una trattazione che avrebbe dovuto costrituire la sesta delle Meditazioni cartesiane, Eugen Fink parla della filosofia come dissociazione, come metodica “schizofrenia” del vivere l’esperienza e contemplare l’esperienza vivente. Dissociato è, dunque, il discorso della filosofia.
Del resto, discorso deriva da discurrĕre: correre di qua e di là. Nel Sofista Platone scrive che il logos non soltanto denomina ma discorre anche, e per questo è detto discorso. Per Platone il pensiero porta dentro di sé una estraneità che gli si oppone e con cui deve fare i conti.
Il dis-senso è dunque il senso stesso della filosofia, del suo discorso. Esperienza vissuta di dissidio, tolleranza dell’incertezza ed esercizio del dubbio: una prospettiva di permanente, sistematica revisione dei codici interni a una data cultura.
Soprattutto in tempi di crisi, di fondamentalismi, di conformistica volontà di piacere (i social e la conta dei like…) e ricerca del consenso, il dissenso andrebbe inteso come la postura stessa della filosofia e del suo esercizio. La postura filosofica, capace di sostenere un attrito. La contemporaneità va infatti intesa nel suo senso più proprio, ossia compresenza e attrito di tempi diversi all’interno dello stesso tempo.
Il “limite”, attraverso i temi del confine, del gioco, del silenzio e dello stile in filosofia, è da anni al centro dei suoi lavori. Ebbene, “L’esercizio della filosofia” quale ulteriore apporto offre a “Voci di confine. Il limite e la scrittura” ed a “Ludus Mundi. Idea della filosofia”?
L’esercizio della filosofia porta a conclusione un percorso iniziato con i due libri da lei citati, pubblicati nel 2011 e nel 2016. Come ricordo e chiarisco nella Premessa, si tratta di un percorso durato dunque un decennio, che ha tuttavia iniziato a prendere forma nei miei lavori del decennio precedente. Ma a convergere in questo libro sono anche i seminari annuali che ho tenuto a Roma presso la galleria La Nuova Pesa, le conferenze e lezioni presso il Macro e il Museo delle Periferie di Roma, i dialoghi al Circolo dei Lettori di Torino, il Forum sulla pandemia curato alla Società Filosofica Europea di Ricerca e Alti Studi (Sfera). Il libro, insomma, non è soltanto la conclusione di una trilogia ma anche il primo tracciarsi di una proposta teorica, che queste pagine si assumono il compito di introdurre. Nella premessa ricordo anche che il libro è stato scritto durante la pandemia e che il tema della pandemia attraversa, con toni differenti, tutte le pagine del libro, a partire dagli stessi titoli dei capitoli. Ma esperienza, incertezza, distanza, convalescenza sono innanzitutto i termini attraverso i quali è andata delineandosi l’idea, centrale nel libro, di filosofia come “esercizio”. Ciò in particolar modo attraverso i rimandi a due fondamentali filosofi del Novecento. Il primo è Vladimir Jankélévitch: i due decenni di cui dicevo sono anche quelli che ho dedicato allo studio del suo Philosophie première, di cui ho curato l’edizione italiana, pubblicata proprio mentre lavoravo a L’esercizio della filosofia. Il secondo è Pierre Hadot. Sempre presente nel libro è il richiamo alla sua imprescindibile riflessione sulla filosofia “come modo di vivere”. A questo proposito, considero strettamente connesso a questo libro il mio Monte Athos, il cielo in terra. Esperienze della filosofia (Luca Sossella editore) uscito nel 2018 e in seconda edizione nel 2020.
Lascio infine il posto principale a Pasquale Panella. Il percorso dei due decenni che è all’origine di L’esercizio della filosofia è tutto attraversato dai nostri lavori scritti e pubblicati insieme. Tra i tanti, il suo Orfeo, un cantante chiude le pagine di questo libro, così come un suo poemetto concludeva Ludus Mundi e come i capitoli di Voci di confine hanno ispirato i suoi undici testi di “Pensiero ballabile”.
Lei scrive “Sospendendo e spostando soprattutto in tempi di crisi”. Il filosofo che ha scelto di non conformarsi alla politica e di non aderire alle etichette paga con la solitudine?
Lei si riferisce, evidentemente, ad una pagina di Jankélévitch che commento nel capitolo dedicato alla figura e al ruolo degli “intellettuali” oggi. In quella pagina Jankélévitch denuncia: “Non avere nessuna parentela filosofica con i propri amici politici, né alcuna connivenza politica con dei filosofi che forse condividono il nostro destino filosofico: è un triste destino filosofico. Ed è il mio destino. Nello stato gregario in cui oggi si esercita la funzione filosofica, chi non ha scelto il proprio pubblico e il proprio gregge è condannato alla solitudine: non ha un’etichetta sulle spalle, non è individuabile, non ha famiglia”. Nel mio commento a quella pagina riprendo un passo di Jankélevitch in cui egli tuttavia ci avverte: “Perché privarsi delle scoperte che ci riservano i cammini nascosti e abbandonati, deviati dei vagabondi? Le scoperte che vi si possono fare non sono giudicate degne di figurare sulle guide blu della cultura… E tuttavia la necessità di rompere con le idee date e acquisire nuove abitudini” è proprio ciò che fa sì che la cultura e ” la filosofia si nutrano di domande sempre nuove”. Insomma, in quel “triste” destino, in quella solitudine risuona tutta la carica dell’ironia di Janhélévitch: la postura socratica, solitaria, che non è isolamento; la messa a distanza che non è distanziamento sociale; il dissenso del non esser-di casa che non è il disagio che, come nei tempi di pandemia, si può provare proprio mentre si “resta a casa”…In altri termini, è quanto dicevamo prima su filosofia e dissenso, filosofia e contemporaneità, dilosofia come perenne indisponibilità ad ogni potere costituito e dogma.
Come deve esercitarsi la Filosofia, secondo il suo parere?
Appunto come esercizio di tale indisponibilità. Esercizio del suo spirito critico, ironico, come costante vigilanza.
“Mantenersi nell’incertezza”, diceva Jankélévitch, è il compito del filodosso convertito alla filosofia. Esercizio del dubbio e tolleranza dell’incertezza. Esercizio di radicale finitezza, pratica del limite, disciplina e “modo di vivere”.
Lei convoca a sostegno delle sue idee pensatori di tutti i tempi: Socrate, Jankélévitch, Hadot, Nietzsche, Heidegger, Gadamer. A me, però, interessa il Mito. Perchè lo chiama in causa?
Nei primi anni novanta, episodio che ricordo nel libro, in Italia si ebbe una fioritura di pubblicazioni e di seminari intorno al mito. Soprattutto all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli si discusse sul tema del mito proponendo nuove prospettive in cui ripensare il rapporto tra filosofia e mito. Partecipai a ciascuno di questi seminari, insieme a Vattimo, Givone, Curi, Rella, alternandosi presentazioni, relazioni e commenti per alcuni anni. Ripensando a quel contesto, forse anche il mio Voci di confine, credo possa essere collocato in quel tipo di riflessione sul tema della narrazione e, nel mio caso in particolare, sulla filosofia come genere di scrittura. In quella fioritura di studi e discussioni, c’era un punto centrale che potremmo formulare così: la “fabulizzazione” del mondo operata dal sistema media-scienze sociali, impone alla coscienza contemporanea l’esigenza di ridefinire la propria posizione nei confronti del mito. In altri termini, caduta in crisi la nozione di storia unitaria, razionale, orientata verso un fine, anche la la metafisica della storia sia idealistica che storicistica è andata perduta. Di conseguenza, la stessa teoria filosofica del mito non riesce più a formularsi nei termini tradizionali. Perché il mito si presenta (ad esempio nella psicoanalisi, nella teoria della storiografia, nella sociologia dei mass media) rispetto al sapere scientifico non come semplice rovesciamento dei caratteri di dimostratività e obiettività, quanto per il suo tratto specifico: la struttura narrativa. Proprio ricordando il tema principale di quei nostri lontani seminari, l’ultima parte di L’esercizio della filosofia è dedicata alle primissime battute del Protagora di Platone. Invitato da Socrate a dimostrare che l’arte politica sia un’arte (potremmo pensare qui alle parole di Jankélévitch prima ricordate) il grande sofista – in un passaggio in verità spesso trascurato dagli interpreti – dice: «Preferite che io lo dimostri mediante un racconto oppure attraverso un ragionamento?». I suoi interlocutori lo invitano a scegliere il modo a lui più gradito e Protagora allora decide per un mito: perché il racconto è più dilettevole rispetto alla dimostrazione concettuale. Il mito non è dunque inteso come una narrazione fantastica destituita di verità quanto, invece, un equivalente modo di dimostrazione. Vedremo lo stesso Platone dimostrare spesso con un racconto quando certi temi saranno difficili da comprendere. Ma la storia della filosofia occidentale, come sappiamo, è anche la storia di una scelta: dimostrare secondo il ragionamento, non secondo il racconto. Autori, opere, narrazioni sono stati messi in ombra, rimossi. E’ una doppia operazione riduzionistica: c’è un solo tipo di pensiero, quello filosofico, e il pensiero filosofico si esprime solo attraverso il ragionamento. E’ dovuta a questa doppia riduzione la difficoltà a far rientrare autori come Kafka, Hölderlin, Proust, in quell’orizzonte di riflessione sulla condizione umana proprio perché, tra le due possibilità protagoree, hanno aderito alla forma della narrazione.
Dall’altra parte, invece, assistiamo al caso di non pochi testi filosofici che a molti spesso appaiono di rilevanza francamente dimenticabile ma inseriti nella pubblicistica filosofica per semplice appartenenza di categoria o di accademia: anche qui, un doppio spostamento. E un duplice “esercizio”: ma questa, come sappiamo, è un’altra storia…
Lucio Saviani, filosofo e scrittore, è uno dei principali esponenti dell’ermeneutica in Italia, (tra i suoi libri: “Ermeneutica radicale come esperimento in Nietzsche”, 1985; “Ermeneutica del gioco”, 1998; “Ermeneutica e scrittura”, 2008, “Voci di confine. Il limite e la scrittura”, 1994, 2011; “Segnalibro”, 1995; “Ludus Mundi. Idea della filosofia”, 2017; “Necessità della filosofia”, 2007; “Monte Athos, il cielo in terra. Esperienze della filosofia”, 2018-2020). Ha curato la prima edizione italiana di “Filosofia prima” di Vladimir Jankélévitch (Moretti&Vitali, 2020). Numerosi anche i suoi saggi in volumi e riviste. E’ socio fondatore della Società Filosofica Europea di Ricerca e Alti Studi. Ha insegnato Storia della Filosofia, Fondamenti di Scienze Umane ed Estetica all’Università “La Sapienza” di Roma. Già consulente di Rai Educational e collaboratore dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, è membro della Società Italiana di Estetica. Negli ultimi anni, per le Giornate della Cultura Italiana, ha tenuto conferenze all’Università di Breslavia, alla City University di New York e negli Istituti Italiani di Cultura di Parigi, di Cracovia e di Praga.
Giuseppina Capone