L’esercizio della filosofia. Per una vitale incertezza. Con un poemetto di Pasquale Panella

In un tempo di crisi e di fondamentalismi il dissenso può costituire il senso stesso della filosofia?
Parliamo di un tempo di crisi nel senso di “crisi dei fondamenti” (o anche del concetto stesso di fondamento), crisi di concetti quali: progresso, storia come linea unica, razionale e progressiva, realtà, verità, umanità. La fine di quelli che Lyotard chiamò i “grandi racconti”, insomma l’orizzonte culturale ed esistenziale dell’annuncio nietzscheano della morte di Dio. Paradossalmente è anche il tempo dei tanti fondamentalismi, non solo religiosi (anche se è stato osservato che proprio da quando “Dio è morto” assistiamo ad un continuo fiorire di intolleranze, conflitti religiosi e guerre sante nel nome di Dio). Da un certo punto di vista, la questione del dissenso va ad incrociare proprio questi due aspetti, crisi dei fondamenti e odierni fondamentalismi.
Il termine “dissenso” ha avuto, almeno in Italia, una storia, un uso e una interpretazione alquanto particolari. Ricordiamo i “cattolici del dissenso” e l’opera dei “dissidenti” russi e dell’Europa allora chiamata “dell’est”. Per la verità, nel mondo della sinistra di quei tempi l’espressione “dissenso” non godeva di molta fortuna, perché considerata lontana se non avversa alla pratica e al pensiero “rivoluzionari” (ma ricorderemo, qui, che ogni potere istituito da una rivoluzione si è prodotto in una sistematica repressione del “dissenso”…)
Proporrei di pensare al termine dissenso non riferendoci al piano dell’espressione – di parola, di pensiero (e anche alle sue molte ombre, basti pensare alla “tolleranza repressiva” di cui scrisse Marcuse) – quanto al piano dell’esperienza, del vissuto: il dis-sentire ha a che fare con il senso e più ancora con il prefisso dis-.
Il prefisso indica dispersione oppure separazione, taglio, discrimine. In questo senso, anche dis-sesto (esser fuori sesto, vivere un tempo disturbato,“out of joint” come dice Amleto, come una spalla che va fuori posto, disarticolata), dismissione della sicurezza e esercizio di incertezza.
Anche dis-sociazione: in una avvertenza premessa al dattiloscritto del progetto inedito di Husserl per una trattazione che avrebbe dovuto costrituire la sesta delle Meditazioni cartesiane, Eugen Fink parla della filosofia come dissociazione, come metodica “schizofrenia” del vivere l’esperienza e contemplare l’esperienza vivente. Dissociato è, dunque, il discorso della filosofia.
Del resto, discorso deriva da discurrĕre: correre di qua e di là. Nel Sofista Platone scrive che il logos non soltanto denomina ma discorre anche, e per questo è detto discorso. Per Platone il pensiero porta dentro di sé una estraneità che gli si oppone e con cui deve fare i conti.
Il dis-senso è dunque il senso stesso della filosofia, del suo discorso. Esperienza vissuta di dissidio, tolleranza dell’incertezza ed esercizio del dubbio: una prospettiva di permanente, sistematica revisione dei codici interni a una data cultura.
Soprattutto in tempi di crisi, di fondamentalismi, di conformistica volontà di piacere (i social e la conta dei like…) e ricerca del consenso, il dissenso andrebbe inteso come la postura stessa della filosofia e del suo esercizio. La postura filosofica, capace di sostenere un attrito. La contemporaneità va infatti intesa nel suo senso più proprio, ossia compresenza e attrito di tempi diversi all’interno dello stesso tempo.
Il “limite”, attraverso i temi del confine, del gioco, del silenzio e dello stile in filosofia, è da anni al centro dei suoi lavori. Ebbene, “L’esercizio della filosofia” quale ulteriore apporto offre a “Voci di confine. Il limite e la scrittura” ed a “Ludus Mundi. Idea della filosofia”?
L’esercizio della filosofia porta a conclusione un percorso iniziato con i due libri da lei citati, pubblicati nel 2011 e nel 2016. Come ricordo e chiarisco nella Premessa, si tratta di un percorso durato dunque un decennio, che ha tuttavia iniziato a prendere forma nei miei lavori del decennio precedente. Ma a convergere in questo libro sono anche i seminari annuali che ho tenuto a Roma presso la galleria La Nuova Pesa, le conferenze e lezioni presso il Macro e il Museo delle Periferie di Roma, i dialoghi al Circolo dei Lettori di Torino, il Forum sulla pandemia curato alla Società Filosofica Europea di Ricerca e Alti Studi (Sfera). Il libro, insomma, non è soltanto la conclusione di una trilogia ma anche il primo tracciarsi di una proposta teorica, che queste pagine si assumono il compito di introdurre. Nella premessa ricordo anche che il libro è stato scritto durante la pandemia e che il tema della pandemia attraversa, con toni differenti, tutte le pagine del libro, a partire dagli stessi titoli dei capitoli. Ma esperienza, incertezza, distanza, convalescenza sono innanzitutto i termini attraverso i quali è andata delineandosi l’idea, centrale nel libro, di filosofia come “esercizio”. Ciò in particolar modo attraverso i rimandi a due fondamentali filosofi del Novecento. Il primo è Vladimir Jankélévitch: i due decenni di cui dicevo sono anche quelli che ho dedicato allo studio del suo Philosophie première, di cui ho curato l’edizione italiana, pubblicata proprio mentre lavoravo a L’esercizio della filosofia. Il secondo è Pierre Hadot. Sempre presente nel libro è il richiamo alla sua imprescindibile riflessione sulla filosofia “come modo di vivere”. A questo proposito, considero strettamente connesso a questo libro il mio Monte Athos, il cielo in terra. Esperienze della filosofia (Luca Sossella editore) uscito nel 2018 e in seconda edizione nel 2020.
Lascio infine il posto principale a Pasquale Panella. Il percorso dei due decenni che è all’origine di L’esercizio della filosofia è tutto attraversato dai nostri lavori scritti e pubblicati insieme. Tra i tanti, il suo Orfeo, un cantante chiude le pagine di questo libro, così come un suo poemetto concludeva Ludus Mundi e come i capitoli di Voci di confine hanno ispirato i suoi undici testi di “Pensiero ballabile”.
Lei scrive “Sospendendo e spostando soprattutto in tempi di crisi”. Il filosofo che ha scelto di non conformarsi alla politica e di non aderire alle etichette paga con la solitudine?
Lei si riferisce, evidentemente, ad una pagina di Jankélévitch che commento nel capitolo dedicato alla figura e al ruolo degli “intellettuali” oggi. In quella pagina Jankélévitch denuncia: “Non avere nessuna parentela filosofica con i propri amici politici, né alcuna connivenza politica con dei filosofi che forse condividono il nostro destino filosofico: è un triste destino filosofico. Ed è il mio destino. Nello stato gregario in cui oggi si esercita la funzione filosofica, chi non ha scelto il proprio pubblico e il proprio gregge è condannato alla solitudine: non ha un’etichetta sulle spalle, non è individuabile, non ha famiglia”. Nel mio commento a quella pagina riprendo un passo di Jankélevitch in cui egli tuttavia ci avverte: “Perché privarsi delle scoperte che ci riservano i cammini nascosti e abbandonati, deviati dei vagabondi? Le scoperte che vi si possono fare non sono giudicate degne di figurare sulle guide blu della cultura… E tuttavia la necessità di rompere con le idee date e acquisire nuove abitudini” è proprio ciò che fa sì che la cultura e ” la filosofia si nutrano di domande sempre nuove”. Insomma, in quel “triste” destino, in quella solitudine risuona tutta la carica dell’ironia di Janhélévitch: la postura socratica, solitaria, che non è isolamento; la messa a distanza che non è distanziamento sociale; il dissenso del non esser-di casa che non è il disagio che, come nei tempi di pandemia, si può provare proprio mentre si “resta a casa”…In altri termini, è quanto dicevamo prima su filosofia e dissenso, filosofia e contemporaneità, dilosofia come perenne indisponibilità ad ogni potere costituito e dogma.
Come deve esercitarsi la Filosofia, secondo il suo parere?
Appunto come esercizio di tale indisponibilità. Esercizio del suo spirito critico, ironico, come costante vigilanza.
“Mantenersi nell’incertezza”, diceva Jankélévitch, è il compito del filodosso convertito alla filosofia. Esercizio del dubbio e tolleranza dell’incertezza. Esercizio di radicale finitezza, pratica del limite, disciplina e “modo di vivere”.
Lei convoca a sostegno delle sue idee pensatori di tutti i tempi: Socrate, Jankélévitch, Hadot, Nietzsche, Heidegger, Gadamer. A me, però, interessa il Mito. Perchè lo chiama in causa?
Nei primi anni novanta, episodio che ricordo nel libro, in Italia si ebbe una fioritura di pubblicazioni e di seminari intorno al mito. Soprattutto all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli si discusse sul tema del mito proponendo nuove prospettive in cui ripensare il rapporto tra filosofia e mito. Partecipai a ciascuno di questi seminari, insieme a Vattimo, Givone, Curi, Rella, alternandosi presentazioni, relazioni e commenti per alcuni anni. Ripensando a quel contesto, forse anche il mio Voci di confine, credo possa essere collocato in quel tipo di riflessione sul tema della narrazione e, nel mio caso in particolare, sulla filosofia come genere di scrittura. In quella fioritura di studi e discussioni, c’era un punto centrale che potremmo formulare così: la “fabulizzazione” del mondo operata dal sistema media-scienze sociali, impone alla coscienza contemporanea l’esigenza di ridefinire la propria posizione nei confronti del mito. In altri termini, caduta in crisi la nozione di storia unitaria, razionale, orientata verso un fine, anche la la metafisica della storia sia idealistica che storicistica è andata perduta. Di conseguenza, la stessa teoria filosofica del mito non riesce più a formularsi nei termini tradizionali. Perché il mito si presenta (ad esempio nella psicoanalisi, nella teoria della storiografia, nella sociologia dei mass media) rispetto al sapere scientifico non come semplice rovesciamento dei caratteri di dimostratività e obiettività, quanto per il suo tratto specifico: la struttura narrativa. Proprio ricordando il tema principale di quei nostri lontani seminari, l’ultima parte di L’esercizio della filosofia è dedicata alle primissime battute del Protagora di Platone. Invitato da Socrate a dimostrare che l’arte politica sia un’arte (potremmo pensare qui alle parole di Jankélévitch prima ricordate) il grande sofista – in un passaggio in verità spesso trascurato dagli interpreti – dice: «Preferite che io lo dimostri mediante un racconto oppure attraverso un ragionamento?». I suoi interlocutori lo invitano a scegliere il modo a lui più gradito e Protagora allora decide per un mito: perché il racconto è più dilettevole rispetto alla dimostrazione concettuale. Il mito non è dunque inteso come una narrazione fantastica destituita di verità quanto, invece, un equivalente modo di dimostrazione. Vedremo lo stesso Platone dimostrare spesso con un racconto quando certi temi saranno difficili da comprendere. Ma la storia della filosofia occidentale, come sappiamo, è anche la storia di una scelta: dimostrare secondo il ragionamento, non secondo il racconto. Autori, opere, narrazioni sono stati messi in ombra, rimossi. E’ una doppia operazione riduzionistica: c’è un solo tipo di pensiero, quello filosofico, e il pensiero filosofico si esprime solo attraverso il ragionamento. E’ dovuta a questa doppia riduzione la difficoltà a far rientrare autori come Kafka, Hölderlin, Proust, in quell’orizzonte di riflessione sulla condizione umana proprio perché, tra le due possibilità protagoree, hanno aderito alla forma della narrazione.
Dall’altra parte, invece, assistiamo al caso di non pochi testi filosofici che a molti spesso appaiono di rilevanza francamente dimenticabile ma inseriti nella pubblicistica filosofica per semplice appartenenza di categoria o di accademia: anche qui, un doppio spostamento. E un duplice “esercizio”: ma questa, come sappiamo, è un’altra storia…

Lucio Saviani, filosofo e scrittore, è uno dei principali esponenti dell’ermeneutica in Italia, (tra i suoi libri: “Ermeneutica radicale come esperimento in Nietzsche”, 1985; “Ermeneutica del gioco”, 1998; “Ermeneutica e scrittura”, 2008, “Voci di confine. Il limite e la scrittura”, 1994, 2011; “Segnalibro”, 1995; “Ludus Mundi. Idea della filosofia”, 2017; “Necessità della filosofia”, 2007; “Monte Athos, il cielo in terra. Esperienze della filosofia”, 2018-2020). Ha curato la prima edizione italiana di “Filosofia prima” di Vladimir Jankélévitch (Moretti&Vitali, 2020). Numerosi anche i suoi saggi in volumi e riviste. E’ socio fondatore della Società Filosofica Europea di Ricerca e Alti Studi. Ha insegnato Storia della Filosofia, Fondamenti di Scienze Umane ed Estetica all’Università “La Sapienza” di Roma. Già consulente di Rai Educational e collaboratore dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, è membro della Società Italiana di Estetica. Negli ultimi anni, per le Giornate della Cultura Italiana, ha tenuto conferenze all’Università di Breslavia, alla City University di New York e negli Istituti Italiani di Cultura di Parigi, di Cracovia e di Praga.

Giuseppina Capone

Il dolore e l’arte in Frida Khalo

“Molte volte nel dolore si trovano i piaceri più profondi, le verità più complesse, la felicità più vera”.

Frida Khalo (Magdalena Carmen Frida Khalo y Calderón ) è stata una pittrice Messicana. Nata a Coyoacàn in Messico il 6 luglio 1907, amava dire, però, che era nata nel 1910 perché  si sentiva figlia della rivoluzione messicana di quell’anno e del Messico moderno.

Una vita non facile e molto travagliata quella della pittrice, ma, nonostante le difficoltà della vita che ha dovuto affrontare, ha, sin da bambina, avuto un carattere temerario, forte, e indipendente, è stata e rimarrà una delle figure femminili più combattive e rivoluzionarie del novecento.

Frida amava l’arte e dipingeva, cominciò per gioco e per passione a dipingere i ritratti che lei stessa realizzava dei suoi compagni  di studio (Cachunas, gruppo di studenti col berretto che indicava un segno distintivo, sostenitori del socialismo nazionale)  della Escuela Nacional preparatoria. Inizialmente, però, aveva prima studiato al collegio tedesco Aleman. Alejandro faceva parte del gruppo e non solo, era il capo spirituale e ispiratore dei cachuchas e studiava diritto e giornalismo. Tra il giovane aspirante giornalista e la giovane aspirante pittrice nacque l’amore ma da lì a poco stava per accadere qualcosa che avrebbe per sempre cambiato la vita di Frida.

L’incidente

Il 17 settembre del 1925, i due innamorati erano in procinto di tornare a casa al termine delle lezioni al collegio, quando il veicolo  su cui viaggiavano si schiantò contro un muro. Frida subì 32 operazioni a causa del tragico incidente poiché le causò gravi conseguenze come la rottura delle colonna vertebrale in tre punti (nella zona lombare), collo del femore fratturato e altrettanto le costole, il piede destro fu schiacciato e slogato, la gamba sinistra subì undici fratture, la spalla sinistra restò lussata, l’osso pelvico spezzato in tre punti e l’asta di metallo del pullman le trafisse l’anca sinistra.

Obbligata a rimanere molto tempo nel letto di casa viste le sue condizioni, Frida si dedicò alla lettura di libri sul movimento comunista e alla pittura. Quando il gesso al busto le fu tolto, decise di trasformare la sua passione per l’arte in un vero e proprio lavoro. Diego Riviera era un illustre pittore dell’epoca, al quale Frida si rivolse per avere una sua critica. Quest’ultimo, rimasto colpito dallo stile moderno della giovane pittrice, decise di inserirla nella scena politica  e culturale messicana. Non passò molto tempo e Frida iniziava a partecipare a numerose manifestazioni fino a divenire un’attivista del partito comunista messicano (si iscrisse nel 1928).

La vita sentimentale

Questo continuo contatto con Diego fece sì che Frida se ne innamorasse e nonostante fosse consapevole dei continui atti di infedeltà da parte dell’uomo decise ugualmente di sposarlo.  Ma erano inevitabili le delusioni sentimentali così la giovane artista, decise di avere diverse esperienze anche omosessuali. Successivamente, però, i due coniugi si trasferirono negli USA per svolgere alcuni lavori che a Diego furono commissionati ma che a breve gli sarebbero stati revocati a causa dello scalpore suscitato dall’affresco nel Rockfeller Center (operaio con volto di Lenin). Le sofferenze per la giovane pittrice non erano ancora giunte al termine: durante il loro soggiorno a New york Frida era in dolce attesa ma dopo poco ebbe un aborto spontaneo. Decisero allora i due coniugi, distrutti dal dolore per la perdita del loro bambino, di tornare in Messico. Nel 1939 decisero di divorziare in seguito al tradimento da parte di Diego con la sorella di Frida. Ma dopo un anno circa, Diego la convinse a sposarlo di nuovo convincendola sul fatto che non aveva mai smesso di amarla.

La carriera artistica

“Sono felice, fino a quando potrò dipingere”.

L’intenzione di Frida era quella di affermare la propria identità messicana attraverso i suoi dipinti di piccoli autoritratti ispirati all’arte popolare e alle tradizioni precolombiane. Frida lo dimostrava anche attraverso il suo modo di vestire poiché si ispirava molto al costume delle donne di Tehuantepec (un comune di Oaxaca) in cui le donne comandano i mercati locali e deridono gli uomini. Forse era stato questo che aveva  maggiormente affascinato Frida. Il primo dipinto di Frida fu il ritratto del suo primo amore Alejandro e nei dipinti successivi raffigurava spesso gli aspetti drammatici della sua vita. Dalle sue tragiche esperienze prende anche spunto per altri dipinti: autoritratto con una colonna romana fratturata (che rappresenta la sua spina dorsale) e circondata da numerose scimmie che cura come figlie (probabile riferimento al figlio che ha perso e che tanto avrebbe voluto). Dal 1838 i suoi dipinti non erano più descrizioni della parte tragica della sua vita ma parlano del suo stato d’animo interiore. A città del Messico, a New York (1938) e a Parigi (1953) furono dedicate a Frida tre importanti esposizioni. Ma il valore delle sue opere artistiche state recentemente rivalutate soprattutto in Europa attraverso diverse mostre.

“Una surrealista creatasi con le proprie mani” affermava, nel 1938, il poeta e saggista surrealista Andrè Breton quando, per la prima volta, vide il lavoro di Frida. Estasiato dalle opere della pittrice, nel 1939, la invitò a Parigi dove le sue opere vennero esposte durante una mostra dedicata a lei. In quel periodo Frida a Parigi frequentava i surrealisti perché le piaceva essere considerata un’artista originale. Nel 1953 per un’infezione esitata in cancrena le fu amputata una gamba.  Frida morì di embolia polmonare a quarantasette anni nel 1954.

“Spero che l’uscita sia gloriosa e spero di non tornare mai più”.

Sono le ultime parole scritte da Frida nel suo diario.

Alessandra Federico

Valentina Della Seta: Le ore piene

Valentina Della Seta, scrittrice, collabora con Domani, GQ, Rivista Studio.

“Era passato l’inverno e non avevo fatto altro che invecchiare”
Quale relazione tesse la protagonista del suo romanzo tra Tempo e Corpo?

La protagonista all’inizio del romanzo vive in uno stato leggermente disancorato dalla realtà: non ha rapporti stretti non nessuno, lavora da sola, attraversa una serie di giornate tutte uguali e non si accorge del tempo che passa. Al corpo non sembra dare peso, se ne prende cura ma fa in modo di non occupare troppo spazio, di non inquinare, per questo va in bicicletta e fa la spesa al mercato di quartiere. Le cose cambiano quando sente il desiderio di una relazione. Immagina una relazione e si percepisce inadeguata, vede il proprio corpo in una luce che evidenzia uno per uno i cambiamenti legati al passare del tempo. Si accorge che in un certo senso è tardi, ma questa cosa la risveglia, le dà la possibilità di smettere di vivere da sonnambula e cominciare ad assaporare intensamente i momenti.
Questo è un libro che gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni.
Qual idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?

Non volevo esporre alcuna tesi sui rapporti umani, ho cercato di raccontare una storia di persone che si incontrano al di fuori dei circuiti abituali e che quindi non hanno molto in comune se non la voglia di aprirsi e fidarsi di un certo tipo di esperienze. Mi ha sempre affascinato l’infinita varietà di persone che esistono e si possono incontrare nel mondo; e l’infinita varietà di relazioni, anche inaspettate, che possono nascere. I personaggi del mio romanzo forse hanno in comune il coraggio di mettere in campo le parti più istintive di sé, quelle che rimangono quando ci togliamo gli abiti di scena legati al lavoro e al contesto sociale, culturale, familiare.

Oggidì, il corpo messo al centro del dibattito nella società contemporanea è quello muliebre. Quali forze diverse ed in contrapposizione si combattono su questo campo?
Mi sembra che al centro del dibattito ci sia il corpo di tutte e tutti, non solo quello delle donne. C’è il corpo delle donne che ha conquistato la libertà (purtroppo ancora solo in una parte di mondo, e lotteremo fino a che non sarà così per tutte e tutti) dopo secoli in cui è stato tenuto segregato nelle case, nelle cucine, nei salottini, lontano dalla vita pubblica e dal piacere sessuale. C’è anche il corpo degli uomini, che può smettere di uniformarsi a codici di abbigliamento, comportamento e identità che a molti andavano stretti. C’è il corpo delle persone trans e il corpo fluido. C’è il corpo disabile, che rivendica spazi e desideri. Più che alle contrapposizioni mi piace pensare alle cose che uniscono: l’avere un corpo è un’esperienza universale.
“Non ho avuto voglia di rispondere, mi sembrava che il nostro modo di stare insieme ci portasse a un livello di verità che non aveva bisogno di troppe parole. Una volta tanto non avevo dubbi su me stessa e non mi sentivo fuori posto”
Cosa determina il riscatto della donna sul corpo?

La donna del romanzo più che altro cerca un riscatto dall’insicurezza che la tiene lontana dagli altri. E in parte lo trova quando si affida totalmente ai desideri, al corpo, all’attrazione che prova per P. Lei smette di pensare, di farsi domande, si butta nell’avventura e nell’inaspettato. Le ore piene è un romanzo di scoperta, un romanzo d’amore.
La sua prosa non vela, non omette, non camuffa: il lessico è volutamente inequivocabile. Perché ha desiderato non intaccare l’esplicita logica connessione lettura-comprensione?
Ho cercato a lungo una voce che mi permettesse di raccontare questa storia, quando l’ho trovata è stata lei a dettare le parole e il ritmo delle frasi. Credo si tratti di una voce molto diretta ma nello stesso tempo timida, che ha paura di invadere, di annoiare l’interlocutore. Credo anche che la paratassi in un testo non equivalga per forza a una freddezza. Ho usato tante virgole, anche dove avrei potuto usare il punto o i due punti. Mi piacciono le possibilità lasciate aperte dalla virgola, amo la sua morbidezza.

Giuseppina Capone

I Puffi: origini e significato

I Puffi sono una creazione del fumettista belga Pierre Culliford in arte Peyo. Peyo diede vita ai Puffi nel 1958 e sono apparsi, da lì a poco, come personaggi secondari nella serie Jhon e Solfami. Ma il successo di queste piccole creature blu fu immediato tanto da dargli il ruolo di protagonisti in un racconto tutto loro che ad oggi possiamo vedere in più di 400 puntate divise in  9 stagioni. Dolci, teneri e gioiosi, i Puffi hanno da sempre catturato l’attenzione dei più grandi e dei più piccini con le loro storie fantastiche e avventurose e la loro allegria contagiosa che fa appassionare e innamorare chiunque abbia anche solo una volta ascoltato la sigla iniziale della serie. La realizzazione del cartone animato dei Puffi è stato una collaborazione con Yvan Delporte, fumettista e editore.

La storia

Schtriumpfs, è il termine Puffo in belga. Questo tenero nome nacque per caso quando Peyo, durante una cena, chiese al suo migliore amico di passargli la saliera chiamandola puffo “tieni il puffo, rispose l’amico – quando hai finito di puffare ripuffalo al suo posto”. Questa conversazione diede vita alla creazione dei Puffi e diventò presto il linguaggio degli ometti blu. Strunfi, fu il primo nome dei Puffi quando arrivarono in Italia all’interno della rivista Tipitì, ma poco dopo il Corriere dei Piccoli diede loro il nome Puffi. L’originale caratteristica della serie dei Puffi è proprio quella di inserire la parola Puffo all’interno di ogni frase (come ad esempio Puffare – Puffoso – Puffato e tanti altri termini simpatici e divertenti). Il nome di ogni puffo è stato assegnato in base ad un particolare che lo caratterizza o dal ruolo che il Puffo ricopre nel villaggio.

In collaborazione con lo studio Tva Dupuis, Peyo, creò la prima serie televisiva nel 1959. Entrava finalmente nelle case italiane all’interno del programma televisivo di Rai “Gli Eroi di Cartone” nel 1970. per realizzare questa serie Peyo, utilizzò la tecnica di animazione che consisteva nel muovere le figure di carta dei Puffi su dei disegnati. Ma la serie più amata di sempre è quella andata in onda per la prima volta nel 1981 fino al 1990 in Italia e in America. Al produttore della Nbc, Fred Silverman, venne l’idea per un cartone animato dei Puffi (che sarebbe stato perfetto per il Palinsesto della domenica mattina) quando, verso la fine degli anni ‘70, a sua figlia le regalarono un peluche di Puffetta.

In Italia, a contribuire al successo della serie animata, che approdò presto anche su Canale5 e Italia1 dove le repliche andarono in onda per molti anni, fu senza dubbio la musica. La prima serie fu intitolata Arrivano I Puffi (1981) accompagnata dalla sigla iniziale. In seguito la serie fu acquistata da Fininvest (trasmessa anche su Canale5) elaborarono altre nuove sigle cantate da Cristina d’Avena.

Le critiche

Diverse sono state le polemiche da parte di diversi critici il quale affermavano che il cappello bianco dei Puffi ricordasse il cappuccio del Ku Klux Klan. Non solo, sostenevano che il rosso del vestito del Grande Puffo sia stato ispirato dal Leader del Kkk perché anche lui è vestito di rosso.  Ancora, alcuni dicevano che il colore blu del Puffo sia un riferimento alla Massoneria e che il rosso del grande puffo sarebbe un chiaro riferimento al modello comunista descritto da Carl Marx ne Il Capitale.

Al contrario, Peyo raccontò che per quanto riguarda il cappello dei Puffi si era ispirato al berretto frigio degli schiavi dell’antica Roma (cappello che ha avuto un grande significato nella storia) che lo indossavano  come simbolo della loro libertà ritrovata. Ragion per cui per il creatore dei Puffi, il loro cappello ha un significato molto profondo, ed è il simbolo del villaggio dei Puffi:  villaggio in cui vivono in totale libertà, in cui vivono in una società senza classi sociali e dove sono identificati attraverso il lavoro che ogni puffo svolge.

Peyo ha voluto comunicare e trasferire  un messaggio di pace e serenità, cordialità e di forte empatia attraverso l’esempio della convivenza, dell’unione e della collaborazione tra i Puffi all’interno del villaggio, mostrando le loro grandi differenze caratteriali non contrastanti tra loro, bensì uniti in un reciproco rapporto di umanità, di rispetto, unione e amore.

“L’amore porta il sole anche dove non c’è”  (cit. dalla terza sigla de I Puffi).

Alessandra Federico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al Consiglio Regionale della Campania incontro sulle “buone prassi” anti-violenza

“Un confronto sulle buone prassi anti-violenza”: è il tema dell’iniziativa che si tiene oggi mercoledì 29 settembre 2021 alle ore 10,00 nella sala “Caduti di Nassiriya” al ventunesimo piano della sede del Consiglio Regionale della Campania, al Centro Direzionale di Napoli isola F13.

Si discuterà, tra l’altro, del referto psicologico e delle buone prassi sanitarie della Regione Campania sulla violenza contro le donne, di ampliamento della formazione e della costruzione della rete dell’emergenza. Introdurranno i lavori il Presidente del Consiglio Regionale della Campania, Gennaro Oliviero, la Consigliera delegata alle Pari Opportunità, Rosetta D’Amelio, la Presidente della VI Commissione consiliare permanente, Bruna Fiola. Interverranno la Responsabile del Centro “Dafne” dell’Azienda Ospedaliera “Antonio Cardarelli”, Elvira Reale, il Responsabile del Pronto Soccorso dell’ospedale C.T.O. dell’Azienda Ospedaliera dei Colli, Mario Guarino, il Giudice della I Sezione Civile del Tribunale di Napoli, Valeria Rosetti, il Procuratore aggiunto della IV Sezione Violenza di genere e fasce deboli del Tribunale di Napoli, Raffaello Falcone, la Dirigente della Divisione Anticrimine della Questura di Napoli, Nunzia Brancati, la Responsabile del Centro anti violenza “Aurora” di Napoli, Rosa Di Matteo. Modererà la dirigente dell’Asl Napoli 1 Centro, Antonella Bozzaotra.

Grazia Frisina: Pietra su pietra

Le sue pubblicazioni: il romanzo A passi incerti (2009 finalista “Premio Firenze” 2009), il dramma poetico sulla Shoah Cenere e cielo (2015- rappresentato al museo della Deportazione di Prato), le raccolte poetiche Foglie per maestrale (2009), Questa mia bellezza senza legge (2012), Innesti (2016 – opera vincitrice alla XVI ed. Premio Carver, 2018), Pietra su pietra (2021), I drammi poetici Madri (2018) pref. di Marinella Perroni, (dalla pièce Stabat Mater è stato realizzato un corto, girato nel carcere di Pistoia)
È presente, con alcuni suoi componimenti, in varie riviste letterarie nazionali.
Presso la biblioteca San Giorgio di Pistoia ha curato La gioia diventa un dipinto, incontro sulla poesia di Emily Dickinson, tra arte e musica (2014), e il dialogo poetico: Ricordi come raccoglievamo i narcisi, sulla storia d’amore fra Sylvia Plath e Ted Hughes (2015).
Presso la casa-museo Guidi di Firenze ha ideato e curato il dialogo poetico Il mare nel vento – Una voce dentro l’altra, sull’amore fra Elizabeth Barrett e Robert Browning (2017).
Ha partecipato al festival di poesia Notturni di versi di Portogruaro (ed.2016 e 2021).

 

28, unione panica con la natura nonché rilievo del poeta nel mondo coevo. Paiono tematiche prive di un fil rouge. E’ possibile, invece, scorgere una traccia che le inanelli?
Come nel nostro intimo essere è tutto un ondulare di dissonanze e ossimori, allo stesso modo sappiamo che non c’è linearità nel vivere: un avvicendarsi tumultuoso di eventi e cose, un susseguirsi di istanti mai uguali e sempre in fuga. Una rapinosa dispersione.
Attimi e accadimenti in apparenza scissi, contrastanti, inconciliabili fra di loro, ma in ogni caso l’uno legato all’altro nel sottile, mutevole filo della nostra disarmata esistenza, scorrente in un’ininterrotta metamorfosi.
Ecco, così nei miei versi, tento di ritrarre la multiforme, cangiante gamma del vivere.
Nel compiere ciò, il mio avvicinamento alla natura, alle cose e alla realtà cambia, si fa accurato, attento, mediante un ascolto minuzioso e stupefatto di ogni sensazione, tattile, olfattiva, uditiva, visiva, come se si trattasse dell’avvento di un inopinato scoprimento.
La linea che unisce le tematiche dei miei componimenti è come una partitura; movimenti sincopati, timbri bassi e acuti, in cui s’alternano e s’intrecciano nella loro singolarità, in un gioco di inseguimenti e di rimandi, occasioni, volti, luoghi, incontri, memorie, contemplazioni, senza alcuna antinomia, né scarto.
Trattengo fra le mani piccole scaglie, dettagli emersi dai sedimenti della mente o quelli fortuitamente sopraggiunti; rendo loro testimonianza, riportando i segni del loro fugace attraversamento, traducendoli in alfabeti, in parole, in immagini e, per quanto possibile, in versi. Per dare dunque dignità all’attimo vissuto, altrimenti destinato alle fauci della dimenticanza.
In un tempo politico, sociale ed economico che grida l’impellente bisogno di tessere un dialogo con sé stessi, la conflittualità interiore può essere lenita dalla scrittura, nella fattispecie dalla poesia?
Viviamo in un’epoca di derive e nichilismo, distanti dai sogni e dai valori culturali e sociali su cui la nostra civiltà ha fondato le sue basi. Questo è un tempo di scollamenti, di coscienze private dell’indugio, della capacità orfica di scendere e di sostare nell’interiorità, in quel territorio dell’oltranza, dove luce e ombra, nel loro continuo dissidio e intreccio, assumono una rilevanza simbolica.
Se riuscissimo a sottrarci alle dinamiche vorticose che oggi la vita impone e schiavizza chimericamente noi tutti, potremmo, con un esercizio di cura e di lentezza, recuperare la necessità di entrare in comunione con l’ignoto, con quell’altrove che soggiace all’io più manifesto.
La scrittura rappresenta di sicuro uno strumento che permette sia la discesa che l’esplorazione in quella regione assolutamente sconosciuta e impenetrabile che è “il porto sepolto” del nostro inconscio. La scrittura, in particolare la scrittura poetica, si presenta come scandaglio, che scruta e tocca la sostanza incorporea, sfuggente e inesprimibile dell’anima e può, seppure in minima parte, tentare di pervenire a una qualche forma di conoscenza e consapevolezza, di sciogliere certi grovigli di un’ansia perpetua, di una mai risolta tensione di uno spirito inquieto, sempre proteso a un’attesa o a una ricerca di senso, di un remoto e quanto mai irraggiungibile sacro Graal. E di rispondere infine all’urgente bisogno di esprimere e oggettivare anche solo un piccolo brandello o un impercettibile brusio di quell’ignoto appena lambito nella voragine oscura del proprio io.
Il fare poetico è un fare pausato e meditativo e tuttavia non si tratta di un procedimento passivo, inerte: spinto da un ansito interiore ha un suo movimento, un procedere verticale, ascensionale, che dal profondo si erge verso l’esterno, verso il mondo, verso l’alto, aiutando ad accorciare l’infinita distanza tra sé e il proprio abisso, tra la propria carnalità dolente e il divino mistero, tra le domande irrisolte e le manchevoli risposte.
Ecco, grazie alla poesia, alla vera poesia, si sperimenta il recupero dello spirituale, di quell’elemento così tanto censurato e soffocato dal compulsivo dinamismo e dal fragore ottenebrante delle nostre odierne società.
“Pietra su pietra”, un incedere dal basso verso l’alto, per strati differenti, congiunti alle multiple forme del vivere ed alle plurime forme del sentire. Il suo “viaggio” è faticoso, scosceso, una scalata a mani nude. Il dolore come condizione ontologica?
Il destino umano è un destino universale di prigionia, di abissi e di dolore: ogni giorno si vive l’esperienza della propria fragilità e finitezza, della propria imperfezione e incompiutezza. Condizione dell’anima è la condizione di un perenne esilio.
Ma è proprio col corpo straziato e nell’antro notturno di un’anima dilaniata che si può intravedere la scheggia luminescente, il riflesso di un bagliore, il presagio ineffabile di una bellezza anche solo da sfiorare momentaneamente.
Dalla sofferenza nasce un nuovo modo di porsi nei riguardi della vita e dei suoi polimorfi accadimenti, di avvicinarci ad essi con sguardo di stupore e animo di accoglimento. Le ferite acuiscono le percezioni, raffinano la nostra sensibilità; ci portano a cogliere le pieghe dell’essere terreno, ciò che esse custodiscono, anche nel loro sottrarsi, nel loro nascondimento, nel loro buio, dal quale nondimeno lanciano i loro richiami silenziosi.
Il fluire routinario della vita, tra cadute, perdite e dolori, non esclude dunque il lenimento di un conforto, l’epifania di una gioia che comunque l’esistenza nel suo assiduo, caleidoscopico manifestarsi, di tanto in tanto, ci dona.
Lei scrive narrando una quotidianità atemporale, in cui si stenta a riconoscere il contesto storico, che pure è presente. Reputa che la vita umana viva una costante condizione di anonimato, fuori dal tempo e dallo spazio?
Dimentichi del passato, privati del futuro, lontani dai miti, dagli ideali, dalle passioni, dalla fede, perché come affermava Martin Heidegger “non solamente gli dei sono fuggiti, ma lo splendore della divinità si è spento nella storia del mondo”, il nostro collettivo modus vivendi è spesso conchiuso in un camminamento stanco, miope, ridotto alla mera contingenza, intorpidito nella meccanicità di un fare quotidiano, ruotante nell’asse di un presente snudato di significato.
Un vivere oggi sedotto dagli ambigui, squillanti allettamenti di un mondo che ci vorrebbe massa omologata nel trionfo del consumo e dell’apparenza. Ma dietro lo sfavillante teatro del clamore e dell’efficienza, si sa esserci un mesto scenario, un dramma popolato da comparse, da individui oppressi nella medesima triste condizione di isolamento e desolazione, col pensiero e il cuore ammutoliti, spenti nell’assenza di dialoghi, di umane ed empatiche relazioni, uomini e donne impiombati nella gabbia di scambi virtuali, ciechi persino di fronte alle proprie sopraffatte individualità, senza possibilità di affrancamento alcuno né di risveglio, senza apertura al domani.
E tuttavia occorre aver fede nella forza disvelatrice e salvifica della parola poetica, capace di riscuotere l’uomo dal suo immobile letargo, di “sgelare gli occhi alla luce”
La sua versificazione appare, talvolta, refrattaria al rispetto ovvio ed ossequioso delle norme grammaticali, compromettendo irrimediabilmente la logica connessione lettura-comprensione. Qual è la chiave d’accesso per discriminare i suoi intenti comunicativi?
Scrive Cristina Campo: “la pura poesia è geroglifica, decifrabile solo in chiave di destino.” Chi scrive poesie infatti non ha nessuna chiave d’accesso da porgere al proprio lettore; giacché colui che legge, nell’accostarsi a un componimento, dovrebbe individuare e trovare in sé la modalità per entrare e cogliere tra i versi, tra le parole, persino nei silenzi degli spazi bianchi, ciò che avrà risonanza nell’intimo suo personalissimo sentire.
Perché l’intento del poeta non è mai quello di comunicare messaggi, né di essere compreso o di dare risposte, al più tacitamente chiede di creare una qualche segreta, remota reciprocità, un viaggio, un’avventura dello spirito da compiere ciascuno nella propria solitudine.
L’oscuro è l’essenza della poesia, il suo spessore vertiginoso: là sta la sua intensità, come la sua vulnerabilità.

Giuseppina Capone

Successo della Milano fashion week

L’evento tanto atteso per gli amanti dell’alta moda è finalmente tornato. Milano, capitale della moda italiana, torna ad accogliere celebri Fashion Designer e non solo, nuovi talenti emergenti hanno avuto l’opportunità di partecipare allo Show per presentare le loro collezioni durante la settimana della moda dal 22 al 27 settembre. Quarantadue sono state le sfilate dal vivo su sessantuno eventi previsti. Ancora, a tornare sulle passerelle è stato anche il Green Carpet Fashion Awards che ha premiato Brand e Designer che si saranno distinti nell’applicazione di principi della sostenibilità dell’industria della moda. Inoltre, si è data l’opportunità di presentare le loro creazioni (durante la Fashion Week) anche agli studenti provenienti dalle migliori scuole di moda italiane grazie alla sfilata di Milano Moda Graduate giunta ad oggi alla sua settima edizione.

“La nostra città è un marchio globale di bellezza ed eccellenza e, grazie al merito della campagna vaccinale, con Green pass alla mano, la Milano Fashion Week vivrà nuovamente l’emozione regalate dalla moda, tra artigianalità e innovazione, con nomi rinomati in tutto il mondo e nuovi talenti, ora con un occhio sempre più sostenibile” – ha dichiarato Beppe Sala, sindaco di Milano, durante la conferenza della Camera della Moda italiana.

Si è celebrato anche il 40° anniversario di Emporio Armani, l’anniversario per i 60 anni del Brand Marcolin, la celebrazione dei 50 anni di carriera di Chiara Boni e l’evento per il ventesimo della collezione Nudo di Pomellato. Con grande piacere, invece,  e per la prima volta nel calendario presentazioni, i brand Colville, Quira, Defaince by Nicola Bacchilega e Roberto di Stefano, Traffico, Airin Tribal, ATXV, Cormio, Andreadama .Grazie alla collaborazione tra CNMI e Black Lives Matter in Italian Fashion Collective, hanno aperto la Milano Fashion Week il 22 settembre, con le loro nuove collezioni, i nuovi talenti BIPOC (black indigenous people of color),all’interno di una Fashion Show digitale.

Fashion Bridges – I ponti della Moda” è un progetto lanciato a luglio organizzato insieme all’Ambasciata d’Italia in Pretoria, Polimoda, e Sud Africa. Progetto realizzato da quattro ex studenti della scuola e lavorato in coppia con quattro designer della South Africa Fashion Week, e, come risultato del lavoro svolto durante il percorso di mentoring, (con il supporto di CNMI) hanno presentato le loro Capsule Collection durante il Fashion Hub. Oltre a Milano, la collaborazione continuerà anche in Sud Africa in occasione della Fashion Week di Johannesburg che si terrà a fine ottobre. La Camera Nazionale della moda ha dato  la possibilità di seguire l’evento sul portale ufficiale della manifestazione.

Alessandra Federico

Giorgio Franchetti: A tavola con gli Etruschi

Giorgio Franchetti si interessa di storia romana da decenni. Per le Edizioni Efesto ha pubblicato il saggio storico “A Tavola con gli Antichi Romani”, (2017).

Lei ha definito la storia romana “un materasso culturale per il mondo intero”.
Ce ne spiega le ragioni?

Con piacere. È una questione, a mio avviso, sociologica. Anzi, guardi, diciamo meglio: di antropologia sociale. Roma arrivò a inglobare, sotto Traiano, un territorio vastissimo, popolato di genti che entrarono in contatto con gli occupanti e che, con loro, instaurarono un rapporto di osmosi culturale. Quando due o più popoli entrano in contatto è inevitabile una reciproca contaminazione, si prende e si dà, e questo avviene, negli individui, a vari livelli di coscienza: consapevolmente, e non. La contaminazione vera e propria, a mio parere, è quella a livello più profondo, quella inconsapevole, perché a livello di volontà si può operare una scelta che può decidere di escludere talune cose. Quando invece quelle cose sono percepite indirettamente si radicano più profondamente nell’animo proprio perché non si riesce ad arginarle. Un tempo, anche tra culture confinanti, esistevano divisioni più nette garantite da distanze maggiori tra centri abitati e dalla minore possibilità di interazione e comunicazione. Quindi poteva accadere che popoli anche vicini fossero molto diversi culturalmente. In questi incontri-scontri (perché a volte la cultura è stata “esportata” con la guerra) spesso esisteva uno squilibrio tra chi dava e chi riceveva novità. Quando Roma arrivò in Gallia con Cesare nel 58 a.C. trovò tribù divise, autonome, disorganizzate, culturalmente limitate nella loro espressione di civiltà organizzata, con evidente limite al processo di civilizzazione. Roma, invece, dopo sette secoli di storia, era a tutti gli effetti una civiltà, nel senso stretto del termine, che non va confuso con cultura. Per civiltà si intende un popolo che si è costituito e dato un ordinamento sociale, che si riconosce come un’unità per condivisione di vari fattori comuni, per la presenza, a mio avviso, di infrastrutture di beneficio pubblico e per un’organizzazione istituzionale. In Gallia c’era una grande cultura, ma non una grande civiltà. Roma, al contrario, fu da subito una monarchia costituzionale, come osservò Mommsen. In questo panorama storico, il divario tra due popoli così profondamente impari porta inevitabilmente, nel contatto, a uno squilibrio nello scambio di novità, informazioni, passaggio di concetti. È il più debole, o il meno organizzato e progredito, a ricevere il maggior beneficio dall’altro. D’altronde, il progresso corre sempre in un’unica direzione e, volontariamente, non inverte mai la rotta. Il concetto stesso di progresso prevede l’innalzamento di un fattore rispetto una condizione precedente. A questo va aggiunto che i Romani avevano l’abitudine di romanizzare i territori, applicando lì dove arrivavano e intendevano soffermarsi, i princìpi che adottavano in patria, e questo dicasi sia per la normativa (pur rispettando spesso la normativa locale alla quale la romana si sovrapponeva per giudizi di grado superiore), sia per quanto concerneva la costruzione di infrastrutture pubbliche. E questo avvenne non solo nei confronti di popoli divisi in tribù, come ad esempio in Gallia e in Britannia, ma anche nei confronti di popoli più organizzati e civilizzati. Non avvenne in Grecia, o quanto meno non in maniera così forte, perché esisteva già una fiorente civilizzazione che, al contrario, diede molto a Roma sotto il profilo culturale. Ma si tratta di un caso isolato. Per il resto, Roma impresse il proprio stile e il proprio modus vivendi e l’alta civilizzazione raggiunta si diffuse poi a livello mondiale. Il merito va agli autori classici. Da sempre considerati modello da tutti (lo stesso termine “classico” stabilisce un modello consolidato e spesso oggetto di imitazione), vennero continuamente ripresi nel corso dei secoli, da letterati e da giuristi. L’ordinamento giuridico romano, di eccellenza e all’avanguardia nel mondo antico, ancora oggi è alla base degli ordinamenti di tutto il pianeta. Quindi, finita l’epoca dei Cesari, il mondo romano sopravvive grazie alla cultura e alle leggi che ebbe Roma, nelle quali da sempre attingono artisti e giuristi di tutto il mondo. Ecco perché ritengo che la cultura di quel popolo rappresenti un materasso di spunti, ispirazioni e nozioni sul quale l’intero pianeta si adagia ancora oggi comodamente.
Usi, costumi e consuetudini d’un mondo davvero remoto.
Quali sono le difficoltà insite nel lavoro d’un divulgatore storico?
Nel mio caso, principalmente, la scelta del linguaggio da adottare. Quello che cerco di fare è avvicinare il grande pubblico alla storia, all’archeologia e alla storia dell’arte. Tutte bellezze e ricchezze di questa nostra incredibile Italia. Quando operi una scelta di questo genere devi necessariamente trovare il modo di parlare la lingua di tutti. Ti ritrovi a raccontare situazioni, processi sociali, avvenimenti storici che spesso hanno alle spalle intricate ragioni economiche e politiche e devi farlo in maniera semplice, lineare, in modo tale non solo da trasmettere a chi ascolta, o legge i tuoi libri, quei concetti, ma soprattutto far sì che li possa comprendere a fondo. Perché altrimenti non c’è comunicazione, ma solo un polo trasmittente senza un polo ricevente. Durante le presentazioni dei miei libri, o durante le conferenze, io passeggio sempre tra il pubblico, non sto mai seduto dietro una scrivania con un pc davanti e uno schermo dietro. Per due motivi. Il primo è che amo stare tra la gente, guardare le persone negli occhi mentre parlo, a volte singolarmente, creando una sorta di rapporto quasi esclusivo, più personale, con chi viene ad ascoltarmi. Il secondo è che, come ricordo sempre a ogni inizio di conferenza, non sono io il protagonista della storia che il pubblico, quella sera, ha scelto di venire ad ascoltare, ma la Storia stessa. È lei la protagonista, la Storia con la S maiuscola. Pertanto il palco e il fulcro dell’attenzione deve essere solo per Lei e non per me, che invece me ne sto di lato o passeggiando tra la gente mentre proietto immagini sullo schermo. In questo modo, oltretutto, il pubblico si sente più partecipe, empatizza molto di più con il contesto, se ne sente parte, e sicuramente la percezione dell’esperienza, alla fine di tutto, sarà diversa da una normale conferenza. Poi, aggiungo, non mi piace proprio il divario, anche fisico, dello stare dietro una scrivania: crea uno “scalino” che qualcuno potrebbe percepire come “sociale” tra chi parla e chi ascolta, come se ci fosse un “posto” solo per chi parla e solo per chi ascolta al mondo e non deve essere così. Purtroppo a volte chi parla teme di “impoverire” i concetti che esprime se non infarcisce il proprio discorso di nozionismo tecnico. Parafrasando Carandini, è inutile parlare di “dendrocronologia” con persone non tecniche che ti vengono ad ascoltare, è più utile spiegare che esiste un metodo di datazione basato sull’accrescimento degli anelli degli alberi, poi se c’è tra il pubblico qualcuno che sa che si può dire con una sola parola tanto meglio per lui. I paroloni tecnici non aiutano in un ambito non tecnico, e creano invece spesso un divario incolmabile.
Lei svolge attività di ricerca sull’archeo-medicina.
Ebbene, su quali campi di applicazione pratica e teorica s’incentra?

L’archeo-medicina è la mia passione più profonda. Ho incrociato questa branca di studi, che si pone a cavallo tra la medicina e l’archeologia, durante gli anni della mia formazione e me ne sono innamorato. Effettivamente, è un argomento che esula da quelli più comuni, legati alle due materie, e per questo ancora pieno di lati oscuri e interessanti punti di approfondimento. La vita di questi personaggi, i medici antichi, era particolare: si trattava di un esercito di professionisti della salute assolutamente eterogeneo, in ogni campo. C’erano tra loro soprattutto Greci e Romani, ma alcuni provenivano dal vicino Oriente. Alcuni erano schiavi, poi quasi tutti vennero liberati. Altri generarono figli che seguirono le orme paterne e che operarono in totale libertà. Alcuni raggiunsero i gradi più alti, divenendo medici di imperatori e famiglie imperiali, guadagnando anche delle vere fortune, altri, al contrario, caddero così in disgrazia da dover fare “un secondo lavoro”, come il becchino, o peggio ancora, il gladiatore, come ci racconta Marziale. Insomma, c’è un vero e proprio mare di storie ed eventi umani dietro ognuno di questi medici e c’è tantissimo da scoprire e raccontare. Oggi l’archeo-medicina è prettamente vissuta in maniera teorica, con lezioni di storia della medicina nelle università, abbracciando soprattutto il periodo ellenistico greco-romano, e con alcune sortite in Egitto per discutere dei papiri medici. Nel mio caso specifico, però, ho cercato di andare oltre. Negli ultimi 24 anni ho iniziato a farmi realizzare, da esperti artigiani quasi tutti israeliani, delle perfette repliche di strumenti chirurgici presenti in vari musei del mondo, cui ho aggiunto quelli di cui non abbiamo reperti ma che sono perfettamente descritti dalle fonti storiche. Oggi possiedo riproduzioni di strumenti chirurgici egizi, greci e romani, e la mia collezione è stata definita dal prof. Ralph Jackson, il maggior esperto mondiale di medicina antica, come la più vasta e dettagliata al mondo. Questa collezione, che a volte viene ceduta in prestito ai musei per delle esposizioni tematiche (come nel caso del Museo di Storia della Medicina, nel 2019), è al centro degli interventi che ho fatto in alcune università, come Roma Tre, La Sapienza e l’Università di Salerno, durante alcune lectiones magistrales che ho tenuto sulla storia della medicina egizia e greco-romana. I giovani studenti di medicina hanno potuto così vedere da vicino una serie di immagini di reperti e di scheletri e prendere poi visione degli strumenti utilizzati nei casi specifici, oltre a poter toccare con mano tutta una serie di strumenti medici che si sono spesso rivelati estremamente simili a quelli tutt’ora in uso nelle moderne sale operatorie. Questa è la principale applicazione, oggi, di questa conoscenza e di questi strumenti, che ho avuto il piacere di esporre in due occasioni anche presso il Museo di Gerusalemme. Il trasporto di oggetti così particolari attraverso i sistemi di sicurezza aeroportuali di Tel Aviv è stato semplificato dall’intervento dell’Ufficio di Cultura dell’Ambasciata di Israele a Roma, che ringrazio. Naturalmente, oltre all’esposizione durante incontri e dibattiti, un’ultima possibilità di impiego è quella nel settore documentaristico. I miei strumenti sono stati al centro di una puntata di Lineaverde su Raiuno e sono stati segnalati dal prof. Jackson a The National Geographic Channel per un documentario sulla medicina sui campi da guerra nell’antichità, cosa, quest’ultima, di cui vado davvero molto fiero.
“A tavola con gli antichi romani” ed in uscita “A tavola con gli Etruschi”.
Esistevano le diete ipocaloriche tanto in voga oggidì?

Direi proprio di no, non almeno nel senso che intendiamo oggi. Non esisteva il concetto, in antichità. Chi era facoltoso, dimostrava la propria opulenza anche a tavola, specie nell’esibizione presso terzi ma, a differenza di quanto comunemente ritenuto, il ricco romano quando era solo con la propria famiglia, non mangiava nelle sale tricliniari, ma regolarmente seduto. Le sale tricliniari erano intese come una sorta di moderni uffici di rappresentanza, dove ricevere e intrattenersi con personaggi con cui si voleva tramare, fare affari, stringere accordi matrimoniali o anche solo per dimostrare la propria ricchezza e generosità. Il tutto affinché, il giorno seguente, gli invitati potessero tessere le lodi del proprio anfitrione. Marziale scriveva “non è sufficiente per te, Tucca, essere goloso: vuoi che così si dica di te, e così apparire…”. Caligola beveva perle disciolte nell’aceto e cibi cosparsi di polvere d’oro, dichiarando di dover scegliere tra l’essere frugale oppure un Cesare. Anche Adriano fece parlare di sé con il famoso tetrafarmaco, così come Gallieno che indugiava nei peccati di gola. Però, questo sì, esisteva un concetto molto presente presso i Romani, specie quelli di stampo catoniano, che vedeva nell’eccesso di cibo e in quanto circondava questi rituali culinari, un impoverimento pericolosissimo del pondus romano, un ammorbidimento e addirittura una corruzione dei costumi degli avi. Questi personaggi prediligevano (almeno così scrivevano) un’alimentazione più moderata, morigerata, parca. Seneca, ad esempio, invocava una parsimonia veterum che era presente agli albori della storia di Roma e citava la rapa come emblema di questa semplicità. Tra questi strenui conservatori troviamo anche degli imperatori, che facevano della frugalitas un dovere morale nel rispetto delle tradizioni degli antenati. E fra loro Augusto, che mangiava pochissimo e solo il necessario. Ma anche Plinio il Vecchio raccomandava di mangiare poco senza eccessi. Ecco, per loro fu una scelta, poi, certamente, la maggioranza del popolo viveva in povertà e digiunava, a volte, senza scegliere di farlo, o comunque aveva delle carenze a livello nutrizionale spesso evidenziate anche da altri aspetti. Anche qui l’archeo-medicina si incrocia con i dati demografici e sociali: l’ex voto più frequente è il seno, e questa usanza di ricorrere alla sfera religiosa nella cura delle malattie era prerogativa, quasi esclusiva, del ceto medio-basso, cioè quella popolazione che non poteva permettersi cure sofisticate da parte dei medici. Certamente la loro alimentazione era inadeguata e la massiccia presenza di seni dimostra che la lattazione era assente o ritenuta insufficiente.
Lei possiede all’attivo partecipazioni a documentari come “Ulisse” di Alberto Angela o trasmessi da History Channel e The National Geographic Channel.
Quali differenze o analogie potrebbe indicare circa il mezzo di divulgazione storico-archeologica?

Il mezzo televisivo è estremamente potente e persuasivo. Raggiunge moltissime persone usando linguaggi diretti, semplici e accompagnati da immagini. Tutto risulta semplice e di immediato apprendimento da parte del pubblico. Quindi ritengo i documentari uno strumento eccezionale di divulgazione e informazione. Personalmente ritengo che non ci si debba legare a un unico personaggio ma ai contenuti. Il rischio è quello di essere interessati più alla visione del presentatore che all’argomento trattato, e questo è un fenomeno sociologicamente accertato e concreto. Si riesce ad avere la capacità critica di scegliere i contenuti o, tutt’al più, di selezionare le informazioni che vengono veicolate? Non saprei. Quindi, è evidente, chi va davanti a una telecamera ha una grossa responsabilità nei confronti del pubblico. Purtroppo, in questa logica televisiva, succede poi che studiosi assolutamente validi e che usano il giusto gergo nel trattare temi a livello divulgativo siano completamente ignorati, solo perché non sono anche “personaggi” ma solo “persone”. Un caso tra tutti: Alessandro Barbero. Bravissimo storico e divulgatore, non avendo potuto usufruire di grandissime platee televisive non ha il seguito che senza alcun dubbio merita, a mio parere. Infine, va detto, purtroppo c’è anche una forma di sensazionalismo documentaristico, e girando canale lo si può spesso incrociare. Quindi occorre serietà e rigore, sempre. Il pubblico deve saper essere smaliziato e più critico per evitare di incappare nel trash, e deve saper essere maggiormente selettivo nella scelta dell’offerta culturale. Personalmente, l’esperienza che ricordo con maggior affetto e che ritengo sia stato il culmine della mia attività, è stata quella della produzione di Andrea Vogt sul Colosseo, “Coliseum: the whole story”. Ho lavorato in questo documentario dove sono presenti esperti a livello mondiale come il prof. Darius Arya, come la dott.ssa Rossella Rea, all’epoca direttrice del Parco Archeologico del Colosseo, e la dott.ssa Federica Guidi, una delle maggiori esperte italiane sulla storia dei gladiatori. Il documentario è stato trasmesso da Discovery Channel e da History Channel e tradotto in tutte le lingue del mondo, io l’ho visto anche in montenegrino. C’è di che esserne davvero orgogliosi.

Giorgio Franchetti si interessa di storia romana da decenni. Si è formato in Archeologia e Storia dell’Arte presso l’Università della Tuscia e poi presso Roma Tre, ha collaborato e preso parte a documentari di importanti tv del settore storico documentaristico, da Ulisse di Alberto Angela a The National Geographic Channel. Ha scritto molti articoli di storia per diverse testate come Hera, Ars Historiae, Civiltà, BBC History e ha tenuto diverse lectiones magistrales presso l’Università degli Studi Roma Tre, l’Università La Sapienza e presso l’Università di Salerno. È apparso come esperto in un documentario sul Colosseo prodotto da Viasat e tradotto in tutte le lingue del mondo per il circuito Sky (Coliseum: the whole story) ed è stato il protagonista narrante e l’esperto storico per 8 puntate sui gladiatori trasmesse nel 2014 da RAIDUE per la serie Fattore ALFA. Ha diretto documentari e cortometraggi storici di cui ha curato anche la sceneggiatura. Per le Edizioni Efesto ha pubblicato il saggio storico “Panem et Circenses – Vita e morte nell’arena” (2014, tradotto in inglese e francese e classificatosi al 4° posto al concorso nazionale letterario Vittorio Alfieri nel 2016) e “Sangue sulla Decima Legione”, romanzo thriller storico (2015) e “A Tavola con gli Antichi Romani”, saggio storico (2017). Ha scritto la prefazione del saggio sul fenomeno dei gladiatori “Miseria e Fortuna: gli schiavi nella Roma antica” (2016) dello storico Stefano Azzone, del saggio “L’arte della cura. La regola sanitaria salernitana e la teoria dei 4 umori” dell’archeologa Ilenia Tamburro (2019) e di vari romanzi storici, da “Veritas filia temporis. Agguato sull’Aventino” di Alessandro Benin (2017), a “Nemesis. Roma non dimentica” di Riccardo Sciuto. Attualmente sta ultimando la stesura del suo nuovo saggio “A Tavola con gli Etruschi”, che vedrà la pubblicazione nei primi mesi del 2022.

Giuseppina Capone

Sorelle per sempre: la storia di Melissa e Caterina scambiate in culla la notte di capodanno

Due bambine siciliane scambiate in culla dagli infermieri la notte di capodanno e  ritornate nelle famiglie biologiche all’età di tre anni, cresciute come sorelle.

“Non ricordiamo molto dello scambio, ricordiamo solo che siamo cresciute insieme. Quello di cui siamo sicure è che i nostri genitori hanno sofferto molto, ma sono stati molto bravi a non far soffrire noi facendoci crescere insieme come una famiglia allargata, questo per noi è meraviglioso. Noi siamo sorelle gemelle” hanno più volte dichairato.

Era la notte di San Silvestro del 1998 quando, gli infermieri di turno all’Ospedale di Mazara del Vallo in Sicilia,  coinvolti dal festeggiamento per l’arrivo dell’anno nuovo, commettevano l’imperdonabile errore di scambiare le culle delle due neonate.

Tre anni vissuti nell’inconsapevolezza che stavano crescendo con la famiglia sbagliata. Ma, nell’autunno del 2001, le due bambine Melissa e Caterina frequentavano la stessa scuola materna e, a notare le somiglianze che le piccole avevano con la madre dell’altra fu proprio la loro maestra.  Così via con analisi del sangue e test del DNA per confermare che ciò che stavano presupponendo fosse la verità. Iniziava così l’incubo che avrebbe scombussolato due nuclei familiari. Un incubo che si sarebbe, però, ben presto trasformato in lieto fine; Caterina e Melissa tornano dai genitori biologici all’età di 3 anni, ma senza separarsi mai l’una dall’altra sin dalla scuola materna fino a proseguire gli stessi studi anche al liceo e all’università di Chieti. Ad oggi si definiscono sorelle gemelle, hanno due mamme, due papà, otto nonni. Prima di arrivare alla serenità, però, hanno inevitabilmente trascorso un periodo complicato sia i genitori ma soprattutto le bambine anche se ad oggi ricordano ben poco.

Ma in che modo, ad una bambina così piccola, si può spiegare, senza ferirla, che la mamma che l’ha allattata e il papà che le raccontava la favola della buona notte in realtà non erano i veri genitori e che avrebbe dovuto cambiare famiglia?

Per entrambi i papà e le mamme di Melissa e Caterina, la scelta di restituire ai rispettivi genitori la figlia biologica non è stata presa su due piedi anzi, hanno inizialmente attraversato un lungo periodo di titubanza consultandosi con diversi psicologi, giudici, e avvocati per capire quale sarebbe stata la cosa più giusta da fare e soprattutto meno dolorosa e traumatizzante per due bambine di soli 3anni di età. La decisione definitiva fu quella di attuare lo scambio affinché le bambine potessero vivere con i rispettivi genitori, anche se questo non ha mai impedito loro di crescere come una splendida famiglia allargata svolgendo ogni passo della vita assieme.

Non è facile far comprendere a bambini di tenera età che chi ti ha cresciuto e coccolato non era in realtà chi ti ha messo al mondo. A quanto pare, però, la scelta di far crescere le due bambine come se avessero quattro genitori è stata la decisione più giusta e senza dubbio quella più sana per tutti. Ad oggi Melissa e Caterina (ventitre anni) sono felici di essere nate quella stessa notte di capodanno e di essere state scambiate in culla per potersi felicemente definire sorelle gemelle.

Alessandra Federico

InnaMORAti dell’Arte

Piacevole serata quella di domenica scorsa, svolta in quel di Angri, al Ritrovo degli Artisti, curata dall’Associazione Culturale “Fratelli De Rege”, inaugurazione stagionale della rassegna teatrale InnaMORAti dell’Arte ideata e realizzata dall’attrice Evelina De Felice. Sul palcoscenico, allestito in ampio spazio all’aperto, gli attori Giovanni Allocca ed Enzo Varone, protagonisti dello spettacolo “…Vieni avanti cretino. Omaggio a Napoli e ai suoi artisti”, nel corso del quale si sono prodotti in scenette che ripigliavano certe semplici ma efficaci modalità umoristiche di un tempo, basate su frizzi, lazzi, incomprensioni e distorsioni lessicali, riportando alla mente figure comiche del passato, mai dimenticate, come Totò, Mario Castellani, Peppino De Filippo, Walter Chiari, Carlo Campanini o Nino Taranto.

A rimpinguare lo spettacolo, la voce e la tastiera elettronica di Sasà Benitozzi e gli interventi dell’attrice Carmen Pommella. Ad arricchire la serata, l’esposizione dei particolarissimi oggetti e capi di abbigliamento realizzati da Benedetta Iovino con foglie vegetali opportunamente lavorate e la mostra d’arte estemporanea di Orsola Supino.

L’iniziativa nasce da riunioni amichevoli all’ombra di una pianta di more, come lascia trasparire il titolo, e dalla sensibile percezione, da parte di Evelina De Felice, di una istanza di socializzazione indomita, a dispetto di ogni pandemia, che l’attrice ha acutamente coniugato alle preclare virtù del teatro.

Gli applausi che hanno coronato l’incontro e le risate che ne hanno costellato lo svolgimento restano la migliore conferma della bontà dell’idea e della sua felice realizzazione.

Sabato prossimo, “Il cane di fuoco. Spettacolo di cunti e canti di mare e di terra, fiabe green, dark, rouge, ma soprattutto bio”, di, e con, Massimo Andrei, che si esibirà con la fisarmonicista Eduarda Iscaro.

Rosario Ruggiero

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