Marco Maurizi è filosofo e musicista. Studioso del pensiero dialettico (Cusano, Hegel, Marx, Adorno) divide i suoi interessi tra la teoria critica della società, con particolare attenzione al rapporto umano/non-umano, e la filosofia della musica. Si è laureato presso l’Università di Roma “Tor Vergata” sotto la supervisione del Prof. Gianfranco Dalmasso con una tesi sul pensiero di Theodor W. Adorno e, dopo aver vinto una borsa di studio all’Università della Calabria e svolto un anno di perfezionamento presso l’Università e la Hochschule für Graphik und Buchkunst di Lipsia sotto la guida del Prof. Christoph Türcke, ha conseguito il dottorato in filosofia a Roma e svolto attività di ricerca come assegnista presso l’Università degli Studi di Bergamo. È cofondatore delle riviste Liberazioni e Animal Studies dedicate ai temi dell’antispecismo e della liberazione animale.
Questo dizionario procede all’incontrario: non va dalle parole alle cose ma dalle cose alle parole. Qual è lo scopo di un dizionario così insolito?
Lo scopo è quello di provare a “guardare” la lingua dall’altro lato del mondo, come un ponte tra le cose e noi. Ma non c’è alcun intento esaustivo, le parole di questo dizionario sono come “detriti” che vagano nel mondo, come frammenti di un’apocalisse osservati al microscopio da uno sguardo alieno. Diciamo che è il tentativo di guardare il mondo in una sorta di esplosione globale al rallentatore e provare a vedere di cosa sono fatti in effetti questi atomi impazziti che riempiono l’infosfera e il mondo di una cultura sempre più impotente e impazzita. Le parole possono avere un grande potere, le parole non sono solo flatus vocis, sono come punti in cui si annodano le trame del mondo, i nostri desideri, le nostre paure. Ho voluto dare forma di dizionario a dei pensieri che si erano focalizzati su certe parole, in cui avevo scoperto che le parole erano il crocevia di forze oggettive, storico-sociali più ampie. Come trovarsi in bocca improvvisamente le tendenze di un’epoca, la nostra, senza saperlo. Ecco, lo scopo era provare a immaginare che spesso quando parliamo attraverso le nostre parole passa il farsi della realtà stessa, non perché la realtà sia fatta solo di parole, ma perché senza le parole a fare da collante la realtà non avrebbe senso per noi. E quindi un dizionario in cui ogni lemma è come una lente di ingrandimento che porta al di là, fuori dalla pagina, fuori dalla parola, verso quella sostanza strana che si dispone tra noi e le cose e che si raggruma in forma di parola. L’idea era di scegliere alcune parole e provare a districare tutti questi processi che vi si aggrovigliano.
Ciascun lemma effigia un oggetto del mondo ordinario ciononostante lo offre da un punto di vista paradossale. Per comprendere pienamente il significato di una parola occorre sfidare l’uso comune?
In effetti inizialmente avevo intenzione di scrivere un dizionario paradossale, e molte delle voci provano a partire da una tesi contro-intuitiva (che l’amore sia divisione, ad es., o che l’uomo sia l’animale per antonomasia ecc.). Ma non ho mai amato il gusto della provocazione e in tutti questi casi c’era un motivo teorico per cui proponevo di rompere con il buon senso e provare a prendere in considerazione un significato alternativo. Diciamo che le parole sono anche dei campi di tensione, hanno dentro spesso forze opposte, possono significare cose diverse a seconda del contesto e dell’interlocutore. Un dizionario costringe ad essere obiettivi ma l’obiettività che cercavo io non era quella neutrale e scientifica del linguista, bensì quella del filosofo e del letterato, cioè di chi guarda l’animo umano e cerca di leggervi le tracce che vi lascia la realtà. E quindi, di nuovo, si tratta di provare a destabilizzare il lettore per fargli considerare meno ovvio ciò che accade dentro di lui, tentare di fermare con lo sguardo la forza che certe parole esercitano su di noi quando le diamo per scontate.
Controllare gli strumenti linguistici significa essere in grado di discernere, in ogni circostanza, il registro linguistico più adeguato ad essa. Ebbene, a suo avviso, quanto è significativo il contesto comunicativo rispetto alla rigida osservazione delle norme grammaticali da grammarnazi?
Assolutamente fondamentale. La lingua è l’uso che se ne fa, non è neanche uno strumento è la vita stessa che si comunica a sé stessa. Questo non vuol dire che si possa dire tutto o che non ci sia una logica o una razionalità anche in un certo modo oggettiva, ma si tratta appunto di una logica, di una razionalità e di un’oggettività sui generis, flessibili, legate al sentire e all’esperienza collettive. Su questo sono molto combattuto, perché, da un lato, detesto e trovo pericoloso il lassismo linguistico, l’impoverimento della lingua, l’abuso di anglismi inutili ecc. ma, d’altro canto, sono assolutamente convinto che non si possano imporre dall’alto delle regole che siano in contraddizione con le tendenze di fondo di un’epoca. Ogni epoca ha la lingua che si merita e che la rispecchia. Se il mondo si impoverisce di parole, se la vita ammutolisce nei confronti di sé stessa, non serve a nulla ricordarci con sdegno la ricchezza di un vocabolario stantio: ciò che deve far paura è la povertà dell’esperienza e a questo tipo di povertà può far contrasto solo un rinnovamento delle fonti della ricchezza della vita stessa. Di nuovo, il segreto delle parole ama nascondersi fuori dai nostri dizionari.
Lei pare ripercorrere la quotidianità linguistica, aprendo una riflessione sulla libertà che conferisce un uso pregno e consapevole della lingua. La Parola possiede un potere civico?
Immenso. Anche se, come ho appena detto, la povertà e l’oppressione che gravano sulle nostre vite non si combattono con le belle parole è vero che la battaglia per un’esistenza più degna passa anche da qui: spesso chi tiranneggia l’altro fa in modo anzitutto di togliergli la parola, la possibilità stessa di articolare un discorso diverso. È la voce del padrone. Esiste dunque un impegno storico oggi a parlare in modo da fare salva la libertà di poter parlare. In tal senso, parlare bene è il presupposto del vivere bene. Riappropriarsi della parola, prendere parola, non per farne ciò che si vuole ma, al contrario, per sottrarla all’arbitrio cui la costringe il potere che mente. E, si badi, che non ogni potere mente, non ogni potere è malvagio. Ma, appunto, per poter discernere il bene dal male occorre, anzitutto, essere in grado di parlare bene. “Bene”, ovviamente, non secondo una regola astratta e formale ma secondo quella legge che la vita in comune si dà quando esprime sé stessa liberamente. Mi piacerebbe usare l’espressione “parole in libertà” in senso opposto a come si fa solitamente: come segno di un rigore, non di una mancanza di consapevolezza.
Antonio Gramsci scriveva che “ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale…”
Reputa che tale questione sia a tutt’oggi aperta?
È la questione decisiva oggi. In questi quasi due anni di pandemia abbiamo imparato a parlare una lingua straniera, termini nuovi o derivanti da contesti prima esotici sono diventati pane quotidiano. E quello che accade nella crisi è appunto un riposizionamento, una nuova forma del mondo che cerca la luce e abbisogna di un linguaggio che possa veicolarla. Siamo dentro una grande trasformazione e la questione di ciò che ne è della lingua è attuale ed apertissima. Che lingua parleranno domani le classi dirigenti? Che lingua saremo in grado di opporre alla manipolazione e alla propaganda? La lingua è una questione eminentemente politica. Ma per capirlo occorre, appunto, svestire i panni del parlante ingenuo e comprendere quali questioni la lingua ci pone se vogliamo essere all’altezza del cambiamento che essa, come uno specchio deformato, ci rimanda.
Giuseppina Capone