Sara Jessica Parker: “pelle flaccida” critiche e insulti per il suo aspetto 

29“Sembra che le persone non vogliano vederci a posto con noi stesse, preferiscono che soffriamo un po’ per quello che siamo oggi, sia che decidiamo di invecchiare in maniera naturale o che proviamo a fare qualcosa per sentirci meglio. Sono come sono. Non ho scelta. Cosa ci posso fare? Smettere di invecchiare? Scomparire?”.

Si difende così, in una pagina Vogue dedicata interamente  a lei, Sara Jessica Parker, (attrice famosa di sex and city)  contro le offese spietate sui social da parte di altre donne: “Troppo vecchia”, “un frutto avvizzito”, “pelle flaccida”. Tanti sono stati i perfidi commenti alle foto della Parker in cui mostra qualche ruga e qualche capello bianco: “sei invecchiata male, dovresti ritirarti”.

Ma per quale motivo alcune donne giudicano altre donne per l’aspetto estetico?

Probabilmente, la difficoltà nell’abolire la mentalità maschilista, sta proprio nella forma mentis sbagliata della  donna stessa; finché sarà anche la donna a credere che ci siano dei ruoli da rispettare a seconda del sesso della persona (è compito dell’uomo pagare in qualunque occasione, l’uomo guida l’automobile, la donna porta la spesa e si occupa delle faccende domestiche, insomma, per alcune tutto ciò è sinonimo di gentiluomo) sarà complicato uscire da questo modo di pensare rigido e retrogrado. In poche parole, purtroppo e spesso, è proprio la donna ad utilizzare stereotipi propri della cultura maschilista soprattutto quando insulta un’altra donna proprio come farebbe un uomo. E forse, tale atteggiamento, condurrà sempre l’uomo a comportarsi da padre padrone e non avrà mai l’opportunità di evolversi in una visione della vita più ampia in cui potrebbe riuscire a convincersi che siamo tutti uguali. Eppure la galanteria è sinonimo di gentilezza, cortesia, premura e non di prevaricazione e prepotenza. Se è vero che la donna è riuscita ad evolversi, a ribellarsi, e a capire che però deve ancora continuare a lottare per ottenere ogni diritto che le spetta,  allora sarà anche in grado di comprendere qual è il modo opportuno per farlo; diffamare altre donne non è di certo la strada giusta. Ci sarebbe una grande svolta se ogni donna mandasse un messaggio istruttivo proprio come quello della Parker: “siamo come siamo, e la donna deve accettarsi per com’è e non essere schiava della chirurgia plastica e dei Botox come la maggior parte delle donne”. Il messaggio della star arriva chiaro e diretto: le donne devono imparare ad accettare sé stesse al contrario di chi le vorrebbe tutte uguali cercando solo di abbassare la loro autostima.

“Ci sono così tante chiacchiere misogine intorno a noi, e pensare che su un uomo non sarebbero mai state fatte” –  afferma l’attrice – tuttavia, la frase “ l’uomo invecchia meglio della donna”  non può che essere stata inventata da una donna. Forse una donna in conflitto con altre?

Ma intendiamoci meglio: forse la donna è in cerca di continua approvazione dell’uomo, e chissà se è addirittura rassegnata al fatto che, così facendo, diventa l’oggetto di quest’ultimo. Forse è  questo che la porta addirittura anche a rischiare la vita con chirurgie plastiche pur di piacergli. Se così fosse diventa semplice captare da cosa deriva tutto questo astio tra donne. Ragion per cui alcuni quesiti saltano facilmente alla nostra mente: chissà che vita conducono, che passato hanno avuto e che tipo di uomo hanno accanto coloro che passano il loro tempo a sminuire le altre, quelle che disprezzano altre donne per l’aspetto estetico. Ci piacerebbe saperlo, sarebbe interessante per tutti.

 Alessandra Federico

 

 

Selena Pastorino: Filosofia della maternità

Selena Pastorino (Genova, 1986) è Dottoressa di ricerca in Filosofia e docente di Filosofia e Storia presso il Liceo Mazzini di Genova. Si occupa di pensiero nietzscheano (Prospettive dell’interpretazione, ETS, 2017; Per la dottrina dello stile e Da quali stelle siamo caduti?, Il melangolo, 2018), pop-filosofia (Black Mirror, con Fausto Lammoglia, Mimesis, 2019) e filosofia del corpo (Filosofia della danza, Il melangolo, 2020). Nel 2018 è diventata mamma.

La maternità è un’esperienza corporea: ritiene che ciò le conferisca lo statuto di una condizione che si esaurisce nella costituzione corporea?

Sicuramente il corpo è stato per me l’ambito in cui ho potuto esperire la maternità con più forza, la dimensione in cui credo che si concretizzi meglio il senso di questa relazione. Penso che sarebbe tuttavia rischioso accettare, senza resto, una sorta di riduzione di questa esperienza alla sola sfera corporea. In primo luogo perché renderebbe meno evidente l’inclusione di forme di maternità non tradizionali, ma non per questo meno degne di questo nome: come ho provato a chiarire, madre si dice e si è sempre detto in molti modi, nessuno dei quali ha una priorità sugli altri. In secondo luogo, come ogni pratica umana anche l’essere madre non si riduce alla mera fisicità, bensì include un confronto costante con quello che si potrebbe chiamare il concetto culturale di maternità, vale a dire l’ideale materno che si considera “normale” in un preciso contesto storico-sociale e che determina aspettative spesso molto intrusive nel rapporto di ogni madre al figlio. Nonostante queste due derive, cancellare la realtà incarnata della maternità, la viscerale iscrizione di questa relazione nel corpo di ogni madre, anche se non è stata gestante, è altrettanto pericoloso, perché ne dimentica la concretezza e l’irreversibilità.

Il pensiero filosofico ha costantemente tentato di porre distanti l’attività di pensiero e la corporeità dell’esperienza. In questo saggio pare cogliersi una posizione di segno differente. Perché, a suo avviso, l’approccio della Filosofia continua ad essere meramente teorico?

La filosofia occidentale muove dallo stesso paradigma culturale che contribuisce ad alimentare, quello per cui da una parte si trova la realtà materiale, ivi compresa quella corporea, con il suo divenire complesso e, in quanto tale, incomprensibile, e dall’altra l’immaterialità di istanze meta-fisiche, tra cui, nell’umano, il pensiero. Immaginare e praticare l’uscita da questa contrapposizione di sapore manicheo implica il coraggio di osare una radicale decostruzione, per usare non a caso un termine della filosofia derridiana, e di tentare una non meno intrepida sperimentazione. Gli esempi di chi ha raccolto questa sfida, nel passato e nella contemporaneità, sono più numerosi di quanto potrebbe sembrare, ma è innegabile che una certa matrice continui a restare dominante, con tutte le implicazioni che comporta anche sul piano della convivenza sociale, dominata da una paradossale smaterializzazione venerante della corporeità. C’è da auspicarsi con Nietzsche che un nuovo modo di filosofare sia davvero all’orizzonte.

Questo saggio muove dalla personale esperienza corporea della maternità nel duplice senso di generazione e crescita di una figlia. Esiste un medium tra mente e corpo?

Con una boutade potrei dire che siamo noi a esistere come medium tra mente e corpo. Questi due termini mi sembra, infatti, si configurino come poli di una tensione senza soluzione di continuità che ci realizza, che ci rende cioè reali e vivi. In questo senso, la prospettiva autobiografica è il punto di partenza della riflessione filosofica nel mio lavoro, affinché si possa fornire un quadro alternativo a quella contrapposizione culturale di cui si è detto: l’esperienza incarnata sostituisce quella dicotomia impossibile con la concretezza del vissuto, da cui il pensiero origina ma a cui anche deve sempre essere ricondotto, per non perdere di vista quel reale con cui dovrebbe confrontarsi.

Superando Cartesio, si potrebbe affermare che il corpo pensi. Qual è stato l’apporto delle neuroscienze ai suoi studi?

Il pensiero del corpo è esattamente la chiave di lettura di quel genitivo che compare nel titolo: “Filosofia della maternità” non significa una trattazione astratta e generalizzata sull’essere madre, ma lo sviluppo di quella riflessione che da questa esperienza, che si è detta innegabilmente corporea, nasce. Per questo motivo ho integrato il mio vissuto a una ricerca approfondita che si è avvalsa del confronto di molte discipline, dalla psicanalisi alla medicina, dalla bioetica alle neuroscienze, dalla narrativa alla storia, come un tema così complesso quale la maternità non poteva che implicare. In particolare, sul versante scientifico ho trovato molto utile il contributo di lavori che hanno sondato lo sviluppo congiunto di corpo e mente, nei molteplici sensi di questo termine, nelle diverse epoche gestazionali (per esempio lo splendido testo di Ammaniti e Ferrari, Il corpo non dimentica, edito da Raffaello Cortina lo scorso anno), nonché gli effetti dell’esperienza materna sul corpo della madre, sia come gestante sia come genitore.

Il tema della “maternità surrogata” è fortemente divisivo. Reputa che possa essere considerata quale un paradigma decisivo per declinare una nuova grammatica filosofica?

Per trattare una questione così delicata penso che sia anzitutto importante scegliere le parole con cui si vuole definirla: ciò che è comunemente noto come “maternità surrogata” sarebbe più corretto chiamarlo “gestazione per altri”, espressione che predilige una certa neutralità terminologica per lasciare spazio a un confronto meno determinato. Si tratta sicuramente di un’esperienza che fa resistenza alla riflessione perché prevede un’esplicita messa in gioco di tutti gli assunti culturali da cui sempre muoviamo, ma che troppo spesso tendiamo a cristallizzare in un’ideologia irriflessa e immutabile. La realtà, come si diceva, è ben più complessa e prenderne atto sarebbe importante proprio per una disciplina come la filosofia che ha il compito di riflettere sul reale per fornire una forma di orientamento. Personalmente, per non eludere una possibile domanda in sottotesto, ho maturato nei confronti della “gestazione per altri” come di altre modalità non tradizionali di genitorialità la profonda consapevolezza della mia ignoranza. La posizione di privilegio di cui ha goduto la mia esperienza di maternità e di cui in generale per la maggior parte dei suoi aspetti gode la mia esistenza, esige anzitutto un confronto con chi ha un diverso vissuto, con chi può esprimersi su questi temi a partire dalla concretezza incarnata della pratica. La teoria, necessaria per la riflessione, può essere accolta solo dopo un confronto con la realtà. Anche in questo rovesciamento di prospettiva penso che i temi “divisivi” siano un’ottima occasione per la filosofia di rinnovarsi e proporre così ancora il proprio lavoro come un prezioso contributo all’esistenza.

Giuseppina Capone

Ivonne Mussoni: Sirene

Ivonne Mussoni è una studiosa dell’Università di Bologna. Nel 2013 ha pubblicato con Heket la plaquette A un quarto d’ora d’universo. Sue poesie sono presenti nell’antologia Post ’900 lirici e narrativi (Giuliano Ladolfi Editore, 2015) e in Centrale di Transito, ceci n’est pas une anthologie (Giulio Perrone Editore, 2016). Nel 2017 pubblica, sempre con Giulio Perrone, la raccolta La corrente delle cose ultime.

 

Dalle prime sirene rapaci all’episodio di Ulisse e le Sirene nell’Odissea, al Cratilo di Platone alla fiaba “La Sirenetta” di Hans Christian Andersen. “Eravamo quasi donne / nel poco che mancava / lucertole, uccelli, meduse, / tempeste, / orsi e serpenti”. Chi è la Sirena?
Rispondere a questa domanda è stato il lavoro di questo libro, ma ciò che realmente è credo si possa afferrare solo per intuizione. La sirena è tante cose, questa è la prima evidenza poiché nella propria immagine tiene in sé le contraddizioni del doppio: è una donna ma è anche una bestia. È un uccello con la voce e le labbra, è un pesce, è un serpente. In ogni caso, in qualsiasi forma si presenti, è un’immagine del profondo e, come tale, sarà complessa e mai univoca. Se guardata dal punto di vista del maschile è una creatura misteriosa e seducente che esce dalle acque, simbolicamente dall’inconscio, per portare una verità all’interno dell’uomo segretamente taciuta. La sirena è quindi l’Anima dell’uomo. Il femminile invece si riconosce nella sirena stessa e nelle sue ambiguità, sa di avere una parte inaccessibile, connessa con i sentimenti più bassi e profondi e sa che presto o tardi dovrà farci i conti.
Al centro della sua raccolta poetica si trovano i versi di Marguerite Yourcenar “Attraverso me poteva spiare l’invisibile / ricordare cosa c’era / prima che ci fosse giorno e notte / prima del firmamento / che separa le acque dalle acque”
La Sirena, pertanto, intesa quale ambasciatrice dell’incorporeo, di un tempo passato e futuro?

Assolutamente, alle sirene-uccelli mandate alla ricerca di Persefone (la figlia di Demetra rapita dal dio dell’oltretomba) viene donato (o sarebbe meglio dire inflitto) lo sguardo degli uccelli rapaci, in grado di vedere molto lontano, uno sguardo dunque, tradotto metaforicamente, in grado di guardare nel profondo: nelle profondità del cuore e del tempo; in più, se pensiamo al canto delle sirene come canto poetico, si intuisce come possa essere in stretto rapporto con il tempo. La poesia è sotto l’egida di Mnemosyne, la dea della memoria che dona ai poeti la capacità di vedere al passato e ai profeti quella di vedere il futuro. Alla sirena, sibilla e poeta, appartengono entrambe le direzioni.
I cerchi sull’acqua, Quasi mezzogiorno, I cerchi sott’acqua fino a Sulla terra, la sezione conclusiva. Ebbene, come si evolve la Sirena sino al suo confronto con le regole terrestri?
L’evoluzione della sirena è culturalmente e letterariamente misteriosa, non ci sono leggende che ne cambiano i connotati, semplicemente succede, è un simbolo che si adatta all’epoca, che ne accoglie i dolori e le ansie. Quello che mi sorprende è come sia potuta cambiare così tanto, fino a rovesciarsi completamente e da carnefice diventare vittima. La fiaba de La Sirenetta di Andersen ne ha determinato in parte il destino, ma lo scrittore danese non è stato il primo a confrontare la sirena con le regole terrestri. Penso a Ondine di De La Motte Foqué e penso che la donna/sirena che cambia la propria natura per amore di un uomo non sia un fatto nuovo. Nel libro ho cercato di seguire la sua storia, la mia sirena diventa sempre più innocua, cede all’amore e si fa vulnerabile, fino a perdere la voce. Rendersi conto della portata di questa perdita è estremamente doloroso, vuol dire sentire minacciata la propria identità e non avere voce per dire chi si è realmente. Nonostante questo nelle nuove sirene terrestri c’è ancora il nocciòlo delle antiche compagne, questo è stato quello che ho cercato di fare nella raccolta: tracciare i confini del mutamento ma lasciando intravedere le origini. Andare all’inizio della storia per scoprire il canto di verità. La storia della Sirenetta diventa allora un monito: non lasciarsi rubare la voce. Non scambiarla per niente al mondo. La sirena che esce dall’acqua crede, uscendo, di farsi intera, ma in realtà perde solamente una parte di sé. L’integrazione avviene al contrario; accettando pienamente la propria parte mostruosa.
Il testo finale reca: “È pericoloso fare luce/ su una natura di bestia… Eravate voi, non io/ a fare più paura” Qual è l’urgenza, qual è la necessità qui evocata?
Questa è l’ultima poesia della raccolta e, contemporaneamente, l’ultima parola della sirena. Qui la sirena percepisce il rifiuto, ne soffre e, per la prima volta, non incolpa la sua oscurità, ma la paura di chi non riesce ad accettarla. Mi sono domandata a lungo se concludere la raccolta con questi versi, il mio primo libro si conclude con la parola Volo e mi è sempre sembrato un sintomo di grande apertura e possibilità verso il futuro, questa termina invece con la parola paura, ero restia a lasciare questa conclusione, ma se c’è una cosa che la sirena mi ha insegnato è non avere timore della propria zona d’ombra.
“Sott’acqua non ci sono le tempeste” Può commentare questo suggestivo verso per noi?

La pace del sott’acqua è simile al sonno, simile alla morte o al chiudersi nel proprio luogo sacro, questo è raccontato magnificamente nella leggenda di Melusina. Melusina è una fata dei boschi, di lei si innamora perdutamente un cavaliere Raymond che la chiede in sposa, lei accetta ma a alla condizione che l’uomo rispetti un patto inviolabile: ogni sabato le concederà il permesso di ritirarsi in solitudine. In quel momento solitario fa il bagno in una tinozza e non appena si immerge in acqua le gambe si trasformano in una grandissima coda di serpente. Tutto procede per il meglio fino a quando il cavaliere, fremente di gelosia, rompe la promessa e, aprendo la porta del bagno, scopre la parte mostruosa della moglie. Scoprendola la perde, Melusina se ne va. Ciò che la storia ci suggerisce è la necessità di fare quel bagno di sabato, in solitudine nel luogo dove non c’è altro rumore, dove appunto, non ci sono le tempeste, solo così è possibile recuperare le proprie energie psichiche ed essere chi si è realmente.

Giuseppina Capone

L’immagine della donna nella pubblicità e nell’arte: stereotipi di genere e sessismo

Giovedì 25 novembre 2021 alle ore 10.30, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, presso la Sala “Mario Borrelli” della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus (FoCS), in piazzetta San Gennaro a Materdei n. 3 – Napoli, si terrà l’incontro di informazione e formazione  dal titolo “L’immagine della donna nella pubblicità e nell’arte: stereotipi di genere e sessismo”.

L’iniziativa è promossa dallo Sportello “FocsAscolto” operativo dal 2019 e attivo online durante la pandemia e dallo “Spazio Donne a confronto” della FoCS.

“L’incontro – evidenzia Antonio Lanzaro, presidente della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus – raccoglie e rilancia le istanze emerse dal lavoro che lo Sportello ‘FocsAscolto’ e lo ‘Spazio Donne a confronto’ hanno portato avanti nel corso delle loro attività sulle varie forme in cui si concretizza la violenza sulle donne”.

Un momento di riflessione, dunque, su come la rappresentazione del femminile veicoli messaggi discriminatori e spesso mercificatori lesivi della dignità della donna.

Dopo i saluti del presidente della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus prof. Antonio Lanzaro e dell’arch. Giovanna Farina, già presidente della Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni di Volontariato, Municipalità 2 – Comune di Napoli, interverranno la dott.ssa Bianca Desideri, giornalista, giurista, direttore del “Centro Studi Mario Borrelli” della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; l’arch. Laura Bourellis, esperta di Beni Culturali, consigliera della FoCS; la dott.ssa Assunta Landri, psicologa-psicoterapeuta, consulente della Procura presso il Tribunale di Napoli, Sportello d’ascolto psicologico ”FocsAscolto”; la dott.ssa Barbara Guercia, esperta in scienze e tecniche psicologiche alla persona e alle comunità. Modera l’incontro A.S. Matilde Colombrino.

 

Daniela Musini: Le indomabili. 33 donne che hanno stupito il mondo

Da Agrippina a Sarah Bernhardt, da Trotula de Ruggiero a Jackie Kennedy, da Caterina la Grande a Rita Levi-Montalcini, da Isabella d’Este Gonzaga a Emmeline Pankhurst, da Elisabetta I Tudor ad Anna Magnani trentatré ritratti di altrettante donne, un caleidoscopio di universi femminili, dissimili quanto ad età, condizione, ruolo sociale, esperienza esistenziale.

Qual tratto le accomuna?

Sono state tutte donne rivoluzionarie, ribelli, audaci, che hanno infranto tabù, scardinato regole, sovvertito consuetudini. Hanno avuto il coraggio di vivere controvento e agire controcorrente per realizzare sogni, perseguire ideali, affermare la propria identità, anche a costo di immolarsi per la propria causa: penso a Ipazia, Giovanna d’Arco, Eleonora Pimentel de Fonseca, Amelia Earhart.

I suoi ritratti muliebri navigano nel tempo. Quale criterio di scelta ha adottato per navigare attraverso i secoli?

La caratteristica più evidente è che sono tutte fra le donne più connotative della propria epoca, sia per talento, che per fama, che per rilevanza storica, che per audacia del loro modus vivendi.

Ho voluto che fossero rappresentate più o meno tutte le epoche della Storia: dall’antica Roma (con Agrippina) fino al Novecento (con Jackie Kennedy Onassis) e, mentre il mio precedente libro Le Magnifiche 33 donne che hanno fatto la Storia d’Italia (Piemme) era riservato a straordinarie figure femminili che avessero avuto grande rilevanza nel nostro Paese, Le Indomabili hanno un respiro più internazionale. Inoltre ho scelto quelle donne che più di altre hanno impresso una traccia indelebile e innovativa non solo nella storia politica della propria nazione d’appartenenza (penso a Caterina Sforza, Isabella d’Este, Elisabetta Tudor, Caterina la Grande, Elisabetta d’Austria, Evita Perón), ma anche nella scienza (come Marie Curie, Hedy Lamarr, attrice e inventrice, e Rita Levi Montalcini), nella moda (Coco Chanel e la sua grande rivale italiana Elsa Schiaparelli), nelle arti (basti considerare la grande innovazione nel linguaggio pittorico di Frida Kahlo e nella danza di Isadora Duncan), e in altri aspetti del costume e della società, senza tralasciare il teatro, il cinema, le conquiste sociali.

Quelle descritte sono di certo donne emblematiche: le loro passioni ardimentose, le scelte intrepide, la debolezza e l’impeto del loro essere, ma anche l’inarrendevolezza, il genio e la forza di volontà che le hanno connotate. Quale messaggio ci offrono?

Il grande coraggio da loro dimostrato credo sia la loro più grande lezione. Il coraggio di vivere la propria vita secondo le proprie scelte, senza farsi condizionare più di tanto, reagendo con forza a chi voleva impedire il loro processo di maturazione e di consapevolezza, l’audacia di sfidare le convenzioni e i limiti imposti dalla società, e persino l’ardimento nell’abbandonarsi a passioni amorose anche scandalose e proibite. Perché anche in questo libro, così come nel precedente, racconto di fiammeggianti e rapinose storie d’amore.

Le sue pagine quanto si distaccano dal femminismo nelle sue plurime e molteplici flessioni?

Quando mi sono accinta a questi due affascinanti e coinvolgenti progetti letterari, l’ho fatto non soltanto per amore nei confronti della Storia declinata al femminile, ma anche per ripristinare alcune verità sottaciute, per ricollocare sotto la giusta e veritiera luce molte delle figure raccontate che sui libri di scuola, ad esempio, non vengono menzionate o presentate non nella loro interezza.

Entrambe le mie opere sono state un atto d’amore nei confronti di queste straordinarie creature di cui ho voluto narrare sì i successi, ma anche gli eccessi, sì le sfide vinte, ma anche le sconfitte, sì la loro eccezionalità, ma anche, e soprattutto, i loro aspetti più nascosti, segreti, controversi, financo ambigui. Non perseguo l’intento “agiografico” di santificarle o di ammantarle di gloria solo perché sono donne; perseguo l’obiettivo di onestà intellettuale nel ritrarle, senza giudicarle, anche quando hanno comportamenti per me disdicevoli o non condivisibili, e ho cercato di consegnarle alle lettrici e ai lettori (soprattutto a quelli più giovani) per farle conoscere e far conoscere ciò che hanno fatto per il progresso e per l’umanità.

Inoltre, essendo io anche pianista e autrice/attrice teatrale, ho utilizzato sia la grammatica musicale che quella teatrale per ricreare le singole figure in modo, come dire, tridimensionale, ponendole ciascuna su un palcoscenico ideale e illuminandole idealmente con luci radenti, taglienti o immergendole nella penombra, e, nel contempo, affidandomi ai crescendo e diminuendo, ai rallentando e agli accelerando, insomma a quella che si chiama la dinamica musicale per meglio connotarle.

C’è una rigorosa ricerca storica dietro, uno studio molto meticoloso da parte mia, ma anche una sorta di “drammatizzazione” per quanto riguarda alcuni personaggi fittizi, moltissimi dei dialoghi presenti, la ricostruzione di atmosfere e panorami.

Ho amato moltissimo queste donne proprio per ciò che sono state: inarrendevoli e Indomabili. Appunto.

Artista versatile, Daniela Musini, nata a Roseto degli Abruzzi (TE) e residente a Città Sant’Angelo (PE), è scrittrice, pianista, attrice e autrice teatrale ed è conosciuta come una delle più acclamate interpreti dell’opera di Gabriele d’Annunzio. Ha allestito i suoi recital/concert dannunziani e i suoi monologhi dedicati ad Eleonora Duse e Maria Callas, in Italia, Russia, Giappone, Francia, Bielorussia, Germania, Polonia, Turchia, Stati Uniti e Cuba. Oltre alla stesura di quindici testi teatrali, ha al suo attivo saggi e biografie e con Piemme nel 2020 ha pubblicato Le Magnifiche-33 vite di donne che hanno fatto la storia d’Italia che ha riscosso un lusinghiero successoPer la sua poliedrica attività artistica e per i prestigiosi traguardi raggiunti le sono stati conferiti 37 premi letterari nazionali ed internazionali e 18 premi alla carriera.

Giuseppina Capone

Dante Alighieri

Paola Cantatore è nata a san Giovanni Rotondo nel 1979. Appena ha potuto, dopo il liceo classico, ha trovato una scusa ufficiale per viaggiare ed esplorare il mondo studiando Lingue e Civiltà Orientali a Napoli, per poi involarsi per Tokyo. Nel 2006 torna in Italia e si trasferisce a Ferrara, votandosi al pendolarismo. Ama tradurre, collezionare fumetti e libri che forse non riuscirà mai a leggere e coltivare pomodori pugliesi nel suo minuscolo giardino. Insieme ad Alessandro Vicenzi, ha realizzato Losche Storie, una serie di racconti biografici sui grandi personaggi della storia. Dal 2008 è traduttrice ed editor presso la Franco Cosimo Panini Editore. Con lei parliamo di Dante Alighieri.

Il 2021 celebra il settecentesimo anniversario della morte di Dante in maniera notevolmente articolata e corale, escludendo barriere tra le discipline artistiche e non. Cosa ha rappresentato ed ancora oggi rappresenta Dante?
Dante non solo può essere considerato legittimamente il padre della lingua italiana e un vero e proprio simbolo del nostro Paese, ma ha rappresentato per lunghi secoli un’ispirazione. Da Ariosto a Goethe fino ai grandi scrittori del Novecento come Valéry, Proust, Borges, Camus e Pasolini… Tutti sono stati ispirati da Dante! Ma per quanto “inseguito”, nessuno è mai riuscito a eguagliare la sua fama. Prima di lui c’erano scrittori di rime per musica, qualche religioso che scriveva testi teologici o filosofici e poco altro. Dopo di lui c’è la letteratura. La cultura dell’Italia (e forse l’Europa) non sarebbe quel che è, se non ci fosse stato Dante.

Il Dante di cui illustra la biografia adopera un “linguaggio” di verità: bello, brutto, maestà e squallore, operosità e rassegnazione, meraviglia e mistero coabitano, s’annodano e si arruffano.
La modernità di Dante sta nel concedere al lettore di scoprire la propria fragilità?

Nella sua poesia, Dante è riuscito a portare praticamente alla perfezione ciò che Omero e che Aristotele, Orazio e Plutarco ritenevano indispensabile per l’arte poetica: l’immediatezza visuale e la vivacità pittorica del linguaggio poetico. Dante è moderno perché il suo linguaggio, attraverso i secoli, continua a catturare il lettore, ad ammaliarlo e a renderlo partecipe di quanto legge. E perché la Divina Commedia racconta di noi. È un’opera universale, che parla dell’essere umano in quanto tale, e dal tempo di Dante a oggi gli uomini sono cambiati poco. Dante, a ben guardare, non viveva in un mondo troppo diverso dal nostro. Certo, oggi godiamo di condizioni di vita decisamente migliori rispetto ai tempi in cui lui visse, possediamo tecnologie infinitamente più efficienti, ma proviamo le stesse viscerali emozioni di settecento anni fa. È cambiato il nostro rapporto col divino, la concezione che abbiamo di noi stessi si è ridotta su scala ben più piccola. Al suo tempo ci pensavamo come il centro della Creazione, oggi siamo animali evoluti che abitano un puntolino di terra in un universo assai meno ordinato e miliardi di volte più ampio di quanto non fossimo capaci di immaginare allora. Ma restiamo parte di una società, che funziona con gli stessi meccanismi di quella in cui ha vissuto Dante, e in campo morale l’uomo non è cambiato granché.

Si può affermare che l’Italia sia venuta alla luce anche grazie ad una sorta di “Dantemania” che ha appassionato l’intelletto e l’animo di innumerevoli giovani tra Settecento ed Ottocento.
Dante può essere considerato il nostro autentico Padre della Patria in senso politico?

No e… sì. Dante non ha un’idea dell’Italia come di un’entità politica a sé. Per Dante l’Italia non è una Nazione autonoma, ma è parte della monarchia universale, con una posizione preminente nel Sacro Romano Impero. È, infatti, “‘l giardin dello ‘mperio” e Roma, nella sua visione, ne è la capitale naturale. L’Italia è dunque per Dante più un sogno, un’idea. Da questo punto di vista Dante è “il profeta” dell’Italia che verrà. Ma ne è anche l’ispiratore. Dopo di lui verranno Petrarca e Machiavelli, Ariosto e poi Vico e Alfieri, Foscolo e Leopardi, e col tempo i grandi sognatori d’Italia, fino agli scrittori, i poeti e i pensatori risorgimentali… in questo senso Dante è il vero fondatore d’Italia.

Morale, religione, politica, amore, odio, passioni, vizi, virtù: come far coesistere il messaggio e la visione dantesche con l’umanità divisa e fragile del Terzo Millennio?
Nel leggere Dante si riscoprono i peccati mortali come la superbia, l’invidia, l’ira, l’accidia, l’avarizia, la gola, la lussuria, peccati considerati oggi meno gravi. Eppure, l’etica dell’Inferno viene apprezzata anche oggi, in particolar modo dai giovani, ed è un punto di riferimento in un mondo caratterizzato dall’appiattimento dei valori e dalle incertezze. Direi che Dante rappresenta un sostegno, un “centro di gravità permanente” nella condizione di debolezza che caratterizza il mondo occidentale. E i ragazzi lo ammirano anche perché ha il coraggio di denunciare e riesce a punire la corruzione della politica, del mondo della finanza e della Chiesa. Se vogliamo, ai loro occhi è una specie di “giustiziere”.

L’illustratore e fumettista Marino Neri dà vita ad un Dante intenso mediante illustrazioni fortemente espressive, dai poderosi contrasti.
Chi è il destinatario privilegiato di un testo tanto insolito, giacché non si disquisisce né della Divina Commedia né del Poeta?

Il destinatario ideale del libro è principalmente il giovane lettore, o un adulto interessato e incuriosito (che però non lo è tanto da imbarcarsi nella lettura di biografie ben più poderose). Il libro non ha la pretesa di disquisire, ma semplicemente di raccontare la vita di Dante, in maniera accessibile e un po’ diversa dal solito, e di rendere più contemporanea la vicenda umana di quello che prima di diventare il Somma Poeta che tutti conosciamo, fu a sua volta un ragazzo, e poi un adulto tormentato, con le sue passioni, i suoi sogni, ma anche i suoi dubbi e le sue fragilità. Questo è possibile perché prima di me e Alessandro Vicenzi – coautore del libro – altri (e ben più illustri) nomi, hanno raccontato storie sulla vita di Dante, a partire dal Boccaccio. E anche perché, leggendo i testi danteschi, affiorano elementi biografici, che permettono di trarre delle conclusioni sui suoi antenati, sul maestro Brunetto Latini, su Beatrice, sull’esilio e sulla sua condizione di migrante. Questi elementi sono, però, solo piccole tracce che aprono lo spazio all’immaginazione. La frammentaria biografia dantesca e la difficoltà degli studiosi a trovare documentazioni attendibili che completino il puzzle, invita a cercare, a colmare le lacune e a sviluppare alcune teorie. Nel libro ci siamo attenuti a quelle storiograficamente più attendibili, ma abbiamo tratto a piene mani anche dal già citato Boccaccio, vero fan boy di Dante: fu lui il primo a trasformarlo in un vero e proprio personaggio da romanzo.

Giuseppina Capone

Loredana Bertè e i tabù della sua vita privata

In un’intervista Loredana Bertè ha parlato di sé, della sua carriera da cantante,  del motivo per cui non ha mai avuto figli facendo rivelazioni sul comportamento dei genitori ed esprimendo  le sue perplessità sulla morte della sorella Mimì.

Loredana Carmela Rosaria Bertè ha rivelato il motivo per il quale non ha mai avuto figli e quanto la questione le porti ancora oggi tanto strazio, angoscia e  rimpianto; dopo la fine del primo matrimonio con il miliardario Roberto Berger, Loredana, avrebbe tanto desiderato avere una famiglia con l’ex tennista svedese Björn Borg con il quale è stata sposata dal 1989 al 1993. Borg avrebbe voluto dei bambini ma il suo più grande sogno era quello di mettere al mondo un figlio dal sangue svedese al 100%. Tutto questo ha condotto la coppia alla rottura definitiva recando, inevitabilmente, un profondo dispiacere a Loredana oramai non più, da quel momento in poi, intenzionata né speranzosa di poter concretizzare uno dei suoi più grandi sogni come quello di diventare mamma.

Intraprendente, forte e temeraria, Loredana non si è mai persa d’animo, non si è lasciata sconfiggere  dalle avversità della vita e dalle meschinità subite, ma ha sempre combattuto per ottenere ciò che desiderava: “Non so se non avessi avuto la fortuna che ho avuto, cosa avrei fatto. Chi può saperlo? Mi sarebbe piaciuto, per esempio, fare l’archeologa o l’architetto” – afferma la star durante l’intervista.

Amata in Italia come in tutto il mondo, ad oggi settantunenne, la raggiante Bertè ha una lunga carriera musicale alle spalle: ha pubblicato diciassette album in studio, cinque dal vivo, 2EP e 4 raccolte ufficiali con un totale di 7 milioni di dischi venduti in tutto il mondo. La Bertè è, inoltre, nota come showgirl, cantautrice e attrice. E ancora, ha collaborato con alcuni migliori artisti e produttori italiani come Mario Lavezzi, Pino Daniele, Corrado Rustici, Fiorella Mannoia, Luca Chiaravalli, Alberto Radius e Ivano Fossati; mentre alcuni dei più stimati cantautori italiani come Renato Zero, Edoardo Bennato, Biagio Antonacci, Gaetano Curreri, Luciano Ligabue, Mango, Ron, Enrico Ruggeri,  Ivan Graziani, Gianni Bell, Bruno Lauzi, Mariella Nava, hanno scritto per lei brani meravigliosi. Ma non finisce qui perché la stella della musica italiana ha vinto perfino numerosi premi: uno assegnato da Lunezia Rock e due RTL Power Hits Awards, cinque da Vota la voce, uno da Un disco per l’estate, tre Wind Music Awards e uno dal Festivalbar.

L’infanzia di Loredana

Loredana è Nata a Bagnara in Calabria il 20 settembre del 1950. Figlia di madre e padre insegnanti (la madre Maria Salvina era maestra elementare e il padre Giuseppe Radames Bertè era professore di latino e greco e preside di liceo), Loredana era la terza di quattro bambine: Mia (20 settembre 1947); Leda (1 gennaio 1946); Olivia (28 gennaio 1958) nate tutte nel paese natale dei genitori ma trasferitesi, poi, assieme all’intero nucleo familiare a Porto Recanati e in fine ad Ancona. Apparentemente amorevole la famiglia Bertè, secondo il suo racconto, celava tanta sofferenza: poco tempo dopo la morte di sua sorella Mia (12 maggio 1995), Loredana, per la prima volta e attraverso le pagine del settimanale Oggi, ha raccontato la verità sulla situazione reale all’interno del nucleo familiare: padre violento e madre assente, genitori manchevoli d’amore, che non manifestavano alcun segno d’affetto alle proprie figlie ma erano solo intenti nell’insegnare loro una severa educazione. In un’intervista nel 2009, Loredana aveva sostenuto che la fonte dei problemi psicologici di Mimì era la sua famiglia: il comportamento violento dei genitori le avevano causato forti traumi che col tempo l’avrebbero condotta alla morte.

Non possiamo non dedicare anche poche parole alla mitica Mia Martini, una delle voci più penetranti, profonde, intense e allo stesso tempo commoventi della musica italiana,  venuta  a mancare, purtroppo, a soli quarantotto anni. Mia sarà ricordata per sempre per la sua appassionante voce capace di far emozionare il mondo intero.

Alessandra Federico

Vuoto a buon rendere: il giusto metodo per il riciclo

Come funziona, la differenza tra vuoto a perdere e vuoto a buon rendere, quali sono i vantaggi e quali imprese hanno aderito al progetto.

Il progetto vuoto a rendere nasce con l’intento di migliorare l’ambiente eliminando l’inquinamento di una percentuale la più alta possibile: la somma dei rifiuti si è ridotta del 96% mentre per vetro e plastica dell’80%.  Ma in che consiste il vuoto a buon rendere?

Il vuoto a buon rendere consiste nel restituire, dopo aver pagato una cauzione nel momento dell’acquisto che viene resa dopo la restituzione del contenitore,  una volta vuoto,  il contenitore al fornitore in modo da poter essere riutilizzato. Il progetto include sia bottiglie di vetro (40 riutilizzi) che in plastica (20 utilizzi),  tale riutilizzo comporta anche un risparmio energetico del 76,91% (le bottiglie per il vuoto a rendere sono più doppie per poterle riutilizzare più volte).

Al contrario del progetto vuoto a perdere, invece, che consiste nel gettare il contenitore anziché restituirli (usa e getta) contenitori non riutilizzabili eccetto quello contenente la nutella che solitamente viene usufruito come bicchiere o per tante altre funzioni. Inoltre, il vuoto a perdere, comporta un maggior consumo di energia e inquinamento: l’Ufficio federale dell’ambiente della Germania, dopo diversi studi, afferma che i vuoti  a rendere sono meno inquinanti. Soprattutto  per questioni politiche, ecologiche ed economiche il vuoto a buon rendere è considerato migliore del vuoto a perdere. Difatti, un’ordinanza tedesca del 1991 prevede che il 72% dei contenitori siano vuoti a rendere. Secondo quanto previsto dal DM 3 luglio 2017, nell’ottobre dello stesso anno, i venditori possono procedere all’iniziativa del vuoto a rendere. In Italia dal 2005 il vuoto a rendere copriva meno del 50%. Ogni italiano consuma 224 litri  all’anno, l’equivalente di undici miliardi di bottiglie (369,9 mila tonnellate di plastica all’anno ovvero 5,87 milioni di barili di petrolio in un anno) di cui solo il 15% va riciclato ma l’84% è in plastica e finisce  disperso nell’ambiente (la maggior parte in mare trasformandosi in microplastiche, mangiate poi dai pesci). Grazie al vuoto a rendere i camion che trasportano le bottiglie percorreranno migliaia di km in meno e non solo, i passaggi per il riutilizzo della bottiglia saranno la metà:  passa da casa nostra al deposito e poi al produttore che la sterilizza e riusa.  Con il vuoto a perdere, invece, i passaggi sono ben quattro: una volta gettata la bottiglia nella campana riciclo viene ritirata dal camion che la porta al centro racconta dove un altro camion si occupa di farla giungere all’impianto di frantumazione. Ancora, un altro camion parte verso la vetreria per la fusione in un forno a 1.400 gradi. La bottiglia nuova, trasportata ancora da un altro camion, torna al produttore per l’imbottigliamento. Basterebbe costruire un impianto di lavaggio vicino alla fonte anziché pagare la bottiglia nuova ogni volta; con il vuoto a buon rendere si riducono anche i costi di produzione: meno consumo di petrolio e meno emissioni di CO2.

Inoltre, è importante acquistare l’acqua in vetro non solo per il vuoto a rendere  (perché questo tipo di vetro viene sempre completamente riciclato e il 10 su 16% di bottiglie d’acqua sono in vetro) ma anche perché la plastica delle bottiglie esposta al sole rischia di danneggiare l’acqua e quindi è dannosa per il nostro organismo.

Anche la birra Ichnusa rilancia il vuoto a rendere

“Ogni bottiglia restituita, è una bottiglia che non viene abbandonata. Riuso, impegno e rispetto. Tre parole chiave che rappresentano il circolo virtuoso del vuoto a rendere.  Questa pratica che altrove è andata persa, in Sardegna resiste ancora ed è una tradizione consolidata e virtuosa. Le bottiglie così sono riutilizzate anche per vent’anni. Hanno una storia e danno un messaggio importante: il rispetto verso l’ambiente” – afferma il proprietario dell’azienda della birra sarda.

Il vuoto a buon rendere della birra Ichnusa lancia la nuova linea green di bottiglie. “Rispetto, riuso e impegno” è questo il motto che utilizza l’Ichnusa per il vuoto a rendere e sarà questa la scritta che troveremo sull’etichetta della nuova bottiglia della birra, oltre alla particolare novità del tappo verde. Grazie al progetto “vuoto a buon rendere” si potrà riutilizzare la stessa bottiglia per circa vent’anni:  il nuovo impianto di produzione permetterà allo storico birrificio sardo di ridurre il numero di vetro utilizzato.

La birra Peroni adotta il metodo vuoto a rendere

Anche la birra Peroni si tinge di verde per aderire all’idea del vuoto a rendere. La sua originalità, però, è  l’icona del riciclo che troviamo sulla grafica dell’etichetta accompagnato dalla scritta “Buona per noi e per l’ambiente, vuoto a rendere” come simboli universali di solidarietà.

In verità, la birra Peroni, si occupa di realizzare bottiglie per il vuoto a rendere sin dal 1846. “Birra Peroni è da sempre impegnata per la salvaguardia dell’ambiente. L’impegno che vogliamo trasmettere ai nostri consumatori con questo particolare formato. Pensare che quella bottiglia avrà ancora una lunga vita e non verrà smaltita in quel momento è una cosa incoraggiante, un segno di rispetto per l’ambiente e il territorio in cui viviamo, un progetto che abbiamo deciso di portare avanti con orgoglio e che siamo sicuri possa essere un piccolo ma concreto aiuto alla sostenibilità ambientale. Si tratta solo di acquisire una nuova abitudine, utile prima di tutto a noi stessi”,  dichiara Marina Manfredi, Marketing Manager Peroni Line.

Anche la birra Forst Kronen parteciperà al vuoto a rendere

Come la Peroni e l’Ichnusa, anche la Forst Kronen adotterà il metodo di vuoto a buon rendere. Dal tappo verde, la bottiglia Forst, sarà più spessa e resistenze per poterla riutilizzare.

Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologia, per evitare distorsioni di mercato, entro la fine dell’anno dovrà incontrare i direttori delle imprese che vogliono partecipare al vuoto a buon rendere e dovrà dare il regolamento applicativo, obiettivi da raggiungere, gli incentivi economici per le aziende, entità della cauzione, quale sarà la prassi per il venditore e per il consumatore.

Dal 3 luglio è entrata in vigore “la direttiva antiplastica” (una direttiva europea antiplastica vuole limitare l’usa e getta di piatti, posate e tutti i prodotti di plastica.).

Alessandra Federico

Protagonisti l’amore e le stelle per il romanzo di esordio di Cosimo Clemente

“La stanza delle stelle” edito da Bookabook è il romanzo di esordio di Cosimo Clemente. Ne parliamo con l’Autore.

Bancario, creativo, scrittore, sindacalista, come si conciliano nella sua vita queste quattro realtà? 

La creatività, caratteristica che mi ha sempre contraddistinto sin da bambino e che per anni è sembrata fonte di “distrazione” da cose apparentemente più importanti, è diventata oggi la mia dote migliore e attraversa trasversalmente tutto ciò di cui mi occupo per lavoro e passione; è la chiave per trovare nuove soluzioni e migliorare.

Com’è nata l’idea di questo suo primo romanzo?

L’idea è nata anni fa, durante il periodo di riadattamento alla vita di sempre in Italia, dopo un intenso periodo di vita all’estero denso di emozioni e nuove esperienze. Per superare il cambiamento ho iniziato a scrivere e in qualche modo raccontare a me stesso ciò che avevo vissuto. Poi un giorno mi sono accorto che la storia poteva diventare un romanzo da condividere.

“La stanza delle stelle”, perché ha scelto questo titolo?

Il titolo “La stanza delle stelle” è stato l’ultimo passo del romanzo, cercavo un simbolo che rappresentasse tutta la storia e l’ho trovato in un luogo emblematico per la storia (di cui non posso dirvi di più), teatro dei risvolti narrativi cruciali.

Nel suo romanzo c’è qualcosa della sua vita, si può definire autobiografico?

La storia è decisamente autobiografica, alcuni personaggi e passaggi sono stati romanzati e modificati per ragioni narrative ma tutte le emozioni di cui si parla mi appartengono.

Progetti per il futuro? Sta già lavorando ad un nuovo romanzo?

Per il futuro continuerò a lavorare per la diffusione di questa opera, vorrei avere tanti lettori a cui proporre un secondo Romanzo nel quale racconterò il destino dei personaggi che hanno già conosciuto leggendo “La stanza delle stelle”.

Alessandra Federico

“Napoli è” alla Race for the Cure

“Anche quest’anno abbiamo deciso, come Associazione Culturale ‘Napoli è’ di partecipare all’iniziativa di Komen Italia per la lotta al cancro al seno – evidenzia Alessandra Desideri, giornalista e direttore del Museo dei Sedili di Napoli”.

“La prevenzione – prosegue la giornalista – è essenziale e in questi due anni caratterizzati dalla pandemia da Covid 19, purtroppo, proprio prevenzione e cura dei tumori hanno subito un fortissimo rallentamento se non un vero e proprio blocco. E’ stato stimato che le diagnosi di tumore mancate in Europa sono pari a 1 milione e la previsione dell’incremento di nuovi casi potrebbe aumentare del 21% entro il 2040. E’ chiaro da questi dati quanto sia importante cercare di ritornare al più presto ai livelli pre-Covid e recuperare quanto non è stato possibile fare in questi due tragici anni”.

Iniziative come quella di Komen Italia sono quindi fondamentali per la ricerca e per tenere alta l’attenzione sull’importanza della promozione della cultura della prevenzione.

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