Tra le pagine del libro emerge che la memoria ha un doppio fondo: è il ricordo di ciò che è accaduto e, contemporaneamente, il ricordo di quel che non è avvenuto in quel che è accaduto.
Cos’intende per “memoria” in relazione ai sentimenti?
In questo romanzo ho cercato di trasmettere il concetto di memoria come scheletro dei sentimenti, testimonianza attiva ed inafferrabile di ciò che si prova e si trasmette agli altri.
Le mie protagoniste incarnano a pieno questa descrizione: una di loro, Adela, vive tutta la sua vita per tener viva la memoria di ciò che sua figlia è stata, al punto che la sua intera esistenza è finalizzata a proteggere quei ricordi e a tenerli vivi in un mondo che sembra non averli mai ospitati.
Diametralmente opposto è invece l’atteggiamento di Alma, un’altra delle protagoniste, per la quale è il ricordo di quel che non è avvenuto a muovere le fila della sua storia. L’amore mancato di sua madre infatti, il sentimento che più di tutti contribuisce a renderci ciò che siamo, la condiziona a tal punto da compiere un viaggio oltreoceano pur di comprenderne le ragioni e di scongelare i suoi sentimenti dal gelo in cui la mancanza di quell’affetto li ha confinati.
La storia che narra delinea un percorso che pare indurre ad evadere dalla “comfort zone”, sfidando i propri spettri per smettere di sopravvivere e iniziare realmente a vivere.
Questo delicatissimo libro nasce con uno scopo salvifico? La scrittura stessa può assurgere ad una funzione soterica?
Trovo che la scrittura possa avere qualsiasi potere uno le attribuisca: dal semplice intrattenimento all’esorcizzazione di una paura, dal racchiudere delle memorie al creare qualcosa di nuovo e dargli vita. Il mio romanzo in particolare nasce con lo scopo di approfondire un contesto storico – quello della dittatura militare Argentina di fine anni ’70 – forse non troppo conosciuto in Italia, soprattutto dalla mia generazione che non ha vissuto quegli anni.
Al contempo però, lo scopo di questa storia – anzi, di queste quattro storie intrecciate – è quello di raccontare tutte le diverse strade che possono portare ad uno stesso risultato: il conseguimento della pace interiore e il compimento del proprio destino.
Le mie protagoniste sono infatti molto diverse tra loro e partono da presupposti altrettanto diversi eppure, ognuna di loro a suo modo, desidera soltanto liberarsi dalle proprie paure e dalle proprie catene, andare oltre il limite dello status quo, il confine tra il vivere e il semplice sopravvivere.
Lei lascia intravedere l’abisso di una voragine interiore, dovuta a sentimenti spezzati, che lascia annichiliti.
La perdita, il lutto, è anche perdita di parte di sé?
A mio parere, ogni cosa a cui ci dedichiamo nella vita, ogni persona che amiamo, ogni dettaglio a cui prestiamo attenzione, racchiude e conserverà per sempre una parte di noi e di ciò che siamo stati.
In tal senso dunque, la perdita rappresenta inevitabilmente il distacco di uno di quei piccoli tasselli che compongono ogni vita.
Il mio romanzo esplora molto questa tematica, partendo dal lutto letterale che è sicuramente il più palese, fino ad arrivare alla mancanza che si prova verso una parte di se stessi che si lascia andare.
A questo proposito, piuttosto che citare gli esempi più lampanti come la morte di una figlia o di una madre, mi sento di parlare del personaggio di Maria, colei che non subisce alcun lutto ma che soffre invece un dolore molto diverso: la perdita di se stessa.
Il suo sembra un monito ad essere attenti al dolore altrui, a farci forieri d’empatia. Trova che la contemporaneità vada scossa in tal senso?
Assolutamente sì.
Ho provato ad incarnare quest’empatia in particolare nel personaggio di Thiago, il quale avrà a che fare con Alma, una delle protagoniste. A differenza di tutte le altre persone che la circondano infatti, lui riesce in qualche modo ad accogliere la sua freddezza e i suoi silenzi senza forzarla, accetta il suo dolore pur non conoscendone le ragioni e riesce ad essere per lei un conforto ed un porto sicuro. Ed empatia significa proprio questo: calarsi nei panni dell’altro, accogliere i suoi sentimenti senza necessariamente condividerli, ma rispettandoli e tutelandoli come se fossero propri.
Allo stesso tempo però, se sembra semplice far caso al dolore altrui quando si sta bene con se stessi, trovo che la vera empatia stia nel farlo anche quando non è così. In questo senso è il personaggio di Adela a descrivere bene il mio pensiero, dimostrando che la vera empatia è vivere il dolore in maniera inclusiva e non egoista, aprirsi all’altro anziché chiudersi nella propria individualità.
Lei esplora la provvisorietà dell’Occidente contemporaneo come Annie Ernaux o Yasmina Reza: sagacia solo a prima vista distratta e breve intuizione. Qual è la cifra caratteristica della sua narrazione?
Trovo che la cifra caratteristica della mia scrittura sia la sincerità e la schiettezza con cui le emozioni e le situazioni vengono raccontate. Non amo i fronzoli e le narrazioni barocche, ho sempre preferito uno stile più scarno ma a mio parere più diretto e funzionale. I miei personaggi sono persone a trecentosessanta gradi e come tali vengono raccontati, senza filtrarne i difetti e le contraddizioni, e allo stesso modo la scrittura si adatta ad essi, cambiando toni ed intensità quando si approccia ad uno o all’altro. Questo è il motivo per cui ho scelto di utilizzare punti di vista differenti per i quattro filoni, per permettere alla narrazione di adattarsi alle varie protagoniste e non viceversa.
Anna Chiara Cuozzo ha pubblicato il suo primo romanzo, Il pianto della matrioska, a sedici anni. Dopo molteplici esperienze nella scrittura online – specialmente su Wattpad – si è cimentata nella stesura di questo romanzo, la cui idea è nata da un viaggio in Argentina.
Giuseppina Capone