Una cosa bella: può esemplificare se e quanto il titolo dell’opera teatrale aderiscono all’elegante edizione realizzata con copertina bianca in Fedrigoni Old Mill 300, cartoncino naturale di pura cellulosa ecologica, certificato FSC e marcato a feltro, le cui pagine interne sono in carta Arena Ivory Bulk extralusso a grammatura 140?
Non sono mai stata brava a giudicare da sola il valore di quello che scrivo. Per riuscire a capire se quello che scrive è valido mi affido ai miei amici, a cui sottopongo ogni stesura di quello che scrivo, col serio rischio di annoiarli a morte: dedico molto tempo alla ricerca stilistica, quindi spesso i cambiamenti tra una stesura e l’altra sono minimi, e raramente rivolti alla trama. Il fatto che Divergenze abbia creduto in me mi ha lusingato e mi ha dato un po’ di sicurezza circa la qualità di Una cosa bella: i loro libri sono sempre di grande qualità, audaci, capaci di scuotere l’anima, di portarla a riflettere su temi universali. Inoltre hanno grande cura per il lato materiale delle loro pubblicazioni, come giustamente hai notato: tali materiali di pregio non solo rendono i loro testi gradevoli nell’estetica, ma anche resistenti al tempo. Io spero che la mia opera meriti tutto questo, che ne sia all’altezza, ma non sono io a doverlo stabilire… I lettori sono i migliori giudici di un’opera: mi rimetto al loro giudizio!
John Keats e la fidanzata Fanny Brawne: quali sono gli spunti a cui ha attinto per redigere il suo Atto unico?
Gran parte della mia ispirazione deriva dall’opera di Keats, in particolare dalla poesia La belle dame sans merci. Ballata costruita sul modello delle ballate medievali (come ad esempio Lord Randall), descrive l’incontro tra un giovane cavaliere e una bellissima dama, figlia di una fata, che lo seduce e lo annienta. L’immagine del cavaliere che, pallido e malinconico, guarda nel vuoto, incapace di smuoversi e di agire, mi ha molto colpito, e mi ha aiutato a modellare la figura di Keats. L’immagine della giovane seducente, invece, ha contribuito solo in parte alla creazione del personaggio di Fanny: sarebbe del tutto errato, infatti, farla coincidere con la belle dame. Fanny era sì giovane, graziosa, affascinante, a tratti un po’ civetta, ma era anche dolce e capace di una grande profondità di sentimento.
Le lettere, poi, sono state una grande fonte di ispirazione. Esse coprono quasi tutta la relazione: i primi, timidi, approcci di Keats, che le scrive una lettera, la butta perché troppo ricca di pathos e allora ne scrive un’altra, nella quale comunque scrive parole dolcissime, come “Vorrei solo che fossimo farfalle, e vivessimo tre soli giorni d’estate; tre simili giorni con voi li colmerei di tali delizie che cinquant’anni comuni non potrebbero mai contenere”; i brevi bigliettini scritti quando vivevano nella stessa casa; le ultime lettere – quelle scritte col peggiorarsi della malattia e poco prima del viaggio verso Roma – cariche di angoscia, di gelosia, di disperazione, ma dentro alle quali continua a vibrare il suo amore per lei.
Da un punto di vista teatrale, invece, una probabile influenza è derivata dalla lettura di L’odore assordante del bianco di Stefano Massini, testo che ho letto intorno al periodo in cui ho iniziato a lavorare a Una cosa bella. Lì, Van Gogh dialoga con il fratello, solo per poi scoprire che non è realmente… Ma non facciamo troppi spoiler!
L’opera è un lampo per la sua brevità: quali sono i concetti su cui ha inteso veicolare la focalizzazione dei lettori?
Bisogna distinguere due piani: quello particolare e quello universale.
Per quanto riguarda il piano individuale, cioè la biografia di Keats, ho voluto porre l’attenzione su quelli che ritengo i punti fondamentali nella sua vita: la relazione con la sua musa, Fanny Brawne; il difficile rapporto con la critica, che aveva a più riprese massacrato le sue opere, accusate di essere acerbe; la morte prematura per tubercolosi.
Sul piano universale, mediato ovviamente da quello particolare, ho cercato di invitare il lettore/spettatore a riflettere su diversi temi: l’amore e il suo persistere nonostante le avversità, la lontananza e addirittura la morte della persona amata; il rapporto con l’arte pura, svincolata dal successo critico ed editoriale; l’incessante scorrere del tempo e l’angoscia dell’oblio. Ecco, soprattutto su quest’ultimo punto mi sono concentrata parecchio. Al momento della sua morte, John Keats aveva solo 25 anni, e si era dedicato totalmente alla scrittura solo tre anni: la sua produzione – abbastanza estesa, considerato il breve periodo di attività – non era stata particolarmente apprezzata, e rischiava quindi di cadere ben presto nel dimenticatoio. Keats riconosceva i limiti delle sue opere, come l’Endimione, e al contempo sapeva di poter fare di più, di poter scrivere qualcosa degno di essere ricordato. Ma non ne aveva il tempo. Aveva 25, e già si stava spegnendo, tormentato dalla tosse, coi polmoni distrutti dalla tubercolose e il fisico provato dalla dieta restrittiva che il medico gli aveva imposto. E non aveva nemmeno la consolazione di poter passare i suoi ultimi giorni con la sua amata: non potendosi sposare, Fanny era dovuta rimanere a casa, in Inghilterra. La scelta di insistere sulla paura dell’oblio, però, è stata particolarmente influenzata dall’epigrafe che Keats chiese di incidere sulla sua lapide: “Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua.”.
Nel testo sono presenti numerose citazioni. Perché ha reputato necessario dare voce a Keats?
Ogni personaggio, in un testo, ha una propria voce, un proprio peculiare modo di parlare e di porsi. Prima di iniziare a scrivere, cerco di conoscere i personaggi come se fossero degli amici di vecchia data, di quelli che si conoscono come le proprie tasche o quasi. Per questo, prima di scrivere di Keats ho letto (o meglio, riletto) le sue poesie e le sue lettere a Fanny; nel farlo, ho sottolineato le frasi che più mi piacevano, e mi son detta “perché non usarle?”. Sarebbe stato assurdo non usare le parole di Keats per descrivere i suoi sentimenti: da poeta, aveva una grande comprensione del peso di ogni parola, di ogni figura e di ogni riferimento letterario. Non sarebbe stato possibile rappresentarlo in modo completo, o anche solo soddisfacente, senza fare riferimento alla sua produzione.
Ci sarà una messa in scena de “Una cosa bella”?
Sì, e ci stiamo lavorando proprio ora! Nel 2019, il mio amico Alberto Camanni mi aveva contattato chiedendomi di scrivere un testo per lui e per due suoi colleghi attori, Giorgia Fasce e Matteo Dagnino. Il testo, quindi, è nato per la scena, e la pubblicazione è stata un evento tanto bello quanto inaspettato: già pubblicare è difficile, pubblicare teatro lo è anche di più… Ovviamente l’epidemia ci ha rallentati un po’, soprattutto perché ha fatto slittare di qualche mese la fine degli studi degli attori. Ma già da dicembre 2020 abbiamo iniziato, tra una videochiamata e l’altra, a lavorare alla messa in scena, e al nostro gruppo si è aggiunto Davide De Togni, che si occupa della regia. Da un paio di settimane siamo chiusi in teatro: analizziamo il testo, i personaggi, proviamo le scene… Trovo affascinante e stimolante vedere sensibilità diverse dalla mia rielaborare il mio testo, portarlo in direzioni che io non avevo nemmeno pensato: trasforma un processo solitario, come lo è la scrittura, in un processo collettivo, un’occasione di crescita artistica ma anche personale. Sono certa che il risultato finale sarà meraviglioso (anche se passerà di certo un po’ di tempo prima di poter andare in scena), ma questa esperienza mi sta lasciando molto di più di un singolo spettacolo.
Benedetta Carrara frequenta Lettere all’Università di Pavia. Autrice di articoli e racconti, ed editor per la rivista Efemera, ha esordito con il testo teatrale “Una cosa bella” (Divergenze, 2020).
Giuseppina Capone