A Napoli fino al prossimo 15 gennaio 2023 è visibile uno dei più affascinanti eventi dell’anno all’interno della Cappella Palatina: I Sacri spiriti. I Songye nella Cappella Palatina al Maschio Angioino. Si tratta della mostra, inaugurata il 29 ottobre scorso, sulla scultura tradizionale dei Songye, una popolazione bantu etnico africano della Repubblica Democratica del Congo.
All’interno della Cappella sono in esposizione 130 opere radunate da ConselliArt. La produzione è di Andrea Aragosa e Black Tarantella. Bernard de Grunne e Gigi Pezzoli sono i due esperti internazionali curatori della mostra, mentre l’Ambasciata della Repubblica Democratica del Congo a Roma, il Consolato della Repubblica Democratica Del Congo a Napoli, il Comune di Napoli, la Regione Campania, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il Centro Studi Archeologia Africana di Milano e l’Università degli Studi di Napoli L’orientale, hanno tutelato e supportato questo evento.
La città partenopea è orgogliosa e onorata di ospitare le meravigliose opere dei Songye, soprattutto perché Napoli è la prima città italiana a presentare la loro arte ma anche perché, in altri posti del mondo, le esposizioni che sono state fatte delle sculture dei Songye si possono contare sulle dita di una mano. Sebbene si tratti di opere originalissime e curate in ogni singolo dettaglio, degne della vera arte sofisticata, ogni scultura è stata realizzata accuratamente da fabbri, scultori, specialisti rituali che lavoravano con l’aiuto dei canti, preghiere per realizzare questi oggetti magico-protettivi. Si è sempre saputo che ogni opera è stata scolpita per essere utilizzata durante le funzioni rituali, ragion per cui, ogni singola scultura veniva realizzata secondo regole ben precise fatte di codici e modelli da rispettare. Per questo motivo, per tanti anni, si è ritenuto che l’arte africana fosse sempre stata prodotta solo per motivi religiosi, per riti spirituali o per migliorare la prosperità delle terre, per guarire da una malattia, per proteggersi dal malocchio e dalle forze negative, per invocare buona sorte, fecondità e benessere e, per molto anni si è stati certi che alcun oggetto sia mai stato creato esclusivamente per il fattore estetico, per dare spazio alla creatività di un’artista. E, quindi, queste opere non avevano valore di mercato nelle società tradizionali africane, oltretutto non potevano essere firmate in una società che non conosceva la scrittura. Ma l’intelligenza non è cultura e, nonostante ciò, ogni artista, sul proprio lavoro, incideva un personale segno che lo avrebbe riconosciuto. “L’etnologia dell’arte, sviluppandosi, scopre la creazione individuale e abbandona l’ideologia dell’anonimato”, sostiene l’etnologo Patrick Bouju. Tuttavia, la continua ricerca nell’etnologia sta pian piano eliminando la visione un po’ retrograda dell’arte africana. In questo modo, l’artista africano, viene stimato e ammirato e viene data a lui la possibilità di imparare il suo mestiere nelle botteghe (spesso di famiglia). Nasce così il vero mestiere dello scultore in Africa e ogni artista si distingue per le proprie società: alcuni dei più acclamati maestri sono gli Yoruba della Nigeria, mentre altri quaranta artisti sono di Fân du Woleu-Ntem. Questa mostra ha permesso non solo a noi di beneficiare della bellezza e della cultura, della storia delle sculture africane, ma di restituire a questo popolo la sua dignità anche nell’arte e dare una grande lezione al mondo intero: siamo tutti uguali, tutti abbiamo il diritto di realizzare ciò che desideriamo.
Alessandra Federico