I media brulicano di cuochi e pullulano di ricette. Le restrizioni dovute alla pandemia da COVID-19, poi, hanno tramutato tutti in abilissimi pasticcieri e provetti panificatori a favore d’obiettivo. E’ possibile, tuttavia, concepire una cucina priva della morbida scioglievolezza del cioccolato, del profumato aromatico del cacao, della freschezza dei pomodori o della croccantezza delle patate, della dolcezza delle banane o della gradevolezza dell’ananas, del potere ubriacante dei superacolici e della delizia dei dessert?
Cosa mangiavano ed in qual modo realizzavano le pietanze duemila anni or sono i nostri maiores Romani?
Tuffiamoci nella cucina repubblicana ed imperiale, magari leggendo sontuose raccolte di passi letterario seguendo le autentiche ricette desunte dalle opere di Catone, Columella, e, particolarmente, di Apicio, sotto il cui nome è pervenuto il più celebre corpus gastronomico.
Sicuramente, il gusto era differente: salse e condimenti erano parecchio sofisticati, ricchi di spezie, dal sapore deciso; inoltre, dalle ricette si può congetturare che l’agrodolce fosse tanto apprezzato.
Pavoni e lingue di fenicotteri non erano alla portata di tutti, ça va sans dire.
Talune ricette erano riservate ad occasioni esclusive per avventori d’élite ma è necessario, altresì, riflettere sul fatto che, soventemente, la stravaganza, la leziosaggine, la gola, l’eccentricità, le spese smodate e folli per l’allestimento dei banchetti sono elementi fruttuosi per la storiografia.
Si rievochi alla memoria la volontà evidente di Svetonio di contrassegnare sfavorevolmente Vitellio oppure, anche, la Historia Augusta nel definire la personalità di Eliogabalo. Laddove, al contrario, il “buon imperatore” è per definizione parco, misurato e non servo del vizio della gola: Marco Aurelio o Settimio Severo ne sono una dimostrazione palese.
Alcune ricette, viceversa, quelle più essenziali, sono ancora oggi non fattibili eppur praticate: il laganum di cui cui discorre Orazio in sat. 1, 6, davvero simile ad una portata salentina di pasta e legumi; alcuni dolci rustici riferiti da Catone, diretti progenitori degli struffoli napoletani; il garum, che non era il mefitico intruglio di cui ci riferisce una certa vulgata ma che doveva essere simile, nella sua forma migliorata ed elaborata (il flos gari, “fiore di garum”,) alla gustosa colatura di alici; il moretum dell’Appendix Vergiliana e di cui Columella nel I sec. d C. ci fornisce alcune varianti nella preparazione era una specie di pesto rustico con cui condire una focaccia; la patina, di cui ci rende edotti Apicio ovverossia una omelette.
Del resto, alcuni ingredienti sono, di fatto, estinti: il silfio, componente basilare e condimento di innumerevoli preparazioni, coltivato soltanto in una ristretta fascia territoriale attorno alla città di Cirene.
Nel mondo antico, in fondo, anche nei conviti più pomposi, l’idea di base era che il banchetto, per venire ben accolto, dovesse porsi sotto l’egida non solo della ricercatezza e della pregevolezza dei cibi ma anche della loro abbondanza: l’abbondanza costituiva, ergo, segno di agiatezza in un mondo ancora denotato, per la stragrande maggioranza della popolazione, dalla penuria alimentare: i cibi raffinati, squisitamente presentati ma dalle porzioni minuscole della nouvelle cuisine o di alcuni chef pluristellati contemporani, non avrebbero ottenuto particolare successo.
Certo, va non fortuitamente ricordato che un’ingente discordanza tra la nostra maniera di decodificare il cibo rispetto a quello che accadeva nel mondo antico è il potere dei “fuori pasto”, degli snack, degli spezzafame, dei caffé al distributore con supercaloricissimo dolce, che vengono, soventemente, gustati con disinvoltura sul luogo di lavoro: usanze, abitudini e costumi, evidentemente, sconosciuti ai Romani.
E la dieta? Nota dolentissima! Plinio il Giovane lo accosterebbe al nostro concetto di “medicina olistica”, “in quanto la dieta, etimologicamente indica il “regime di vita” corretto ed equilibrato, che tenga conto, quindi, non solo della quantità, qualità e varietà dei cibi ma anche del ritmo di vita, dell’alternanza, fra gli impegni (gli officia) e il tempo libero (otium, che può essere inteso come otium litteratum), da trascorrere in luoghi tranquilli e dal clima favorevole nonchè inframmezzato dalla cura del corpo e da una leggera attività fisica.”
Il cibo è vettore per rivelare altro: Orazio e la polisemia del termine ius, “diritto” ma anche “sugo”, “condimento”, o la presentazione della cena dell’arricchito Nasidieno, confrontata con il racconto del semplice pasto dell’autore stesso.
Quando Cicerone descrive i suoi rinnovati gusti e vezzi per l’alimentazione ricercata, nelle lettere successive a Farsalo, sta comunicando ben altro, sta discorrendo di politica e del suo accomodamento, arduo, ma non inattuabile, ai tempi nuovi.
E sarebbe molto ingenuo e non coglierebbe il senso del testo chi reputasse che la “Cena di Trimalchione” di Petronio sia la rappresentazione di un banchetto reale e quindi ripetibile, al di là di qualche divertente esperimento en travesti.
Giuseppina Capone