Professore, Simone Weil è nota, oltre che per la vasta produzione saggistico-letteraria, anche per le drammatiche vicende esistenziali che attraversò, a cominciare dalla scelta di lasciare l’insegnamento per sperimentare la condizione operaia. Quale tratto della sua figura ritiene sia ancora celato?
Non credo ci siano aspetti della biografia weiliana che sono rimasti celati. La biografia scritta dalla sua amica Simone Pètrement, e i vari volumi che sono usciti sin dal dopoguerra, danno un quadro completo delle sue vicende, magari mettendo in luce un aspetto piuttosto che l’altro. Anche dal punto di vista dell’analisi del suo pensiero si è fatto moltissimo e direi che esso è stato scandagliato in maniera abbastanza approfondita. Lo sforzo che ancora va fatto è quello di “prendere sul serio” questo pensiero, considerandolo non solo un episodio della filosofia o della storia drammatica del Novecento, quanto piuttosto un pensiero che ci interroga e ci suggerisce strade precise da percorrere oggi.
Nel corso del tempo, Weil legò se stessa all’esperienza della “sequela” cristiana, pur nel volontario distacco dalle forme istituzionali della religione, per fedeltà alla propria vocazione morale di presenziare fra gli esclusi.
Questa risoluzione potrebbe essere indicata come l’elemento chiave per la sua sete di giustizia?
Certamente sì. La vicinanza di Weil al cristianesimo è tutta nel segno della sua sete di giustizia, che passa dal mettersi dalla parte della debolezza. Era questo, d’altra parte, secondo Simone il segno della divinità del Cristo: non la sua potenza, non la sua resurrezione, ma il suo morire da innocente come se fosse un criminale. C’è un brano particolarmente significativo nel quale dice che il punto più alto della vita di Cristo è stato la sua morte in croce, quando si è sentito totalmente abbandonato dal Padre. Insomma, l’innocente che muore, che si sacrifica totalmente è la più chiara manifestazione della divinità, una manifestazione che non appartiene al solo cristianesimo ma a tutte le grandi tradizioni religiose, come Weil si sforza di dimostrare negli appunti dei suoi Cahiers.
La posizione etica fondamentale di Weil è di mettersi costantemente dalla parte degli oppressi.
Oggi, gli sventurati sono un’enormità. Quale idea di giustizia suggerisce Weil per restituire piena dignità a chi è vittima di equilibri ingiusti?
Quella weiliana è stata una posizione etica costantemente accompagnata da una coerente azione personale e politica. Da quando scandalizzava i dirigenti delle scuole in cui insegnava, perché uscendo si univa ai disoccupati, a quando scelse di partire per la guerra di Spagna, a quando cercò in tutti i modi di condividere le sorti di coloro che combattevano, non però imbracciando le armi ma cercando di costituire un corpo di infermiere di prima linea. L’idea di giustizia alla quale lei si richiama, e che ha elaborato in maniera estremamente affascinante, è quella della giustizia-carità, una giustizia che non coincide con la legge perché rifiuta totalmente di accompagnarsi alla forza e alla violenza. È una giustizia che ha come sua prima caratteristica la capacità di vedere l’altro, e che perciò rifiuta il simbolo della benda; e vedere l’altro vuol dire proprio vedere le vittime di equilibri ingiusti, vuol dire vedere gli sventurati di cui nessuno si occupa. Oggi, Simone Weil direbbe che l’opposizione tra legge e giustizia è del tutto evidente nel modo in cui trattiamo i migranti, nel modo in cui facciamo di tutto per non vedere la loro sofferenza e non ascoltare il loro grido soffocato dalle onde del mare in cui affogano. Questa idea di giustizia è impegnativa e scomoda, perché non può aspettare di essere realizzata dentro un tribunale ma chiama ciascuno a realizzarla qui ed ora, momento per momento, situazione per situazione.
Simone Weil nel 1936 scrive tre inviti alla lettura di altrettante tragedie sofoclee: Antigone, Elettra e Filottete. Questi testi possono essere interpretati quali opere paradigmatiche della resistenza all’oppressione esercitata dal potere?
Si tratta di interventi che Simone aveva fatto in un corso serale riservato agli operai. Questo è importante per capire il modo in cui lei operava. Non si trattava di fare operazioni culturali fine a se stesse, o comunque finalizzate a un arricchimento meramente culturale. Si trattava di fare educazione e azione politica, nonché riflessione etico-giuridica al tempo stesso. E di farlo facendo vedere la straordinaria attualità dei grandi classici, che hanno la capacità di parlare a tutti, in ogni tempo. Quelle figure sono tutte rappresentative di un modo di pensare la politica e il diritto radicalmente lontano da quello che Weil vedeva realizzato nella storia e nel suo tempo. Di fronte al dominio e alla cecità della forza, che aveva caratterizzato ogni epoca e che dominava in maniera travolgente gli anni in cui ella scriveva — un dominio che non lasciava alcuna illusione circa la sopravvivenza delle testimonianze di verità e purezza (penso alla civiltà catara, alla quale Simone dedicherà due bellissimi saggi) —, di fronte a questo dominio rimane la necessità di testimoniare una logica differente. La logica dell’attenzione verso gli sventurati (Elettra e Filottete), e la logica dell’amore soprannaturale come unica possibilità di sottrarsi alla forza (Antigone). Antigone, in particolare, non è l’eroina della resistenza al potere, rappresentante di una forza ‘buona’ che si contrappone a quella ‘cattiva’, ma è l’eroina dell’amore soprannaturale che rifiuta totalmente il discorso e la logica del potere. Non un potere che si vuole sostituire ad un altro potere, una forza che vuole vincere su un’altra forza: ciò che Weil legge nelle opere di Sofocle è piuttosto la debolezza che si contrappone alla forza, l’infinitamente piccolo che non rifiuta di combattere, ma lo fa portando avanti un’idea di ‘grandezza’ completamente diversa, una grandezza che si realizza nella compassione e nella cura di ciò che è debole, piuttosto che nel dominio e nella sottomissione.
Professore, qual è il nostro dovere rispetto al presente ed alla materialità?
Se teniamo presente quanto detto finora, direi che è quello di prendere sul serio le suggestioni e le indicazioni che Simone Weil ci ha lasciato, non solo sul piano dell’etica e delle scelte personali, ma anche su quello politico e istituzionale, ad esempio ragionando sul nesso tra consenso e giustizia, sul rapporto tra governanti e governati, sulla funzione del giudice che deve amministrare la giustizia, sulla pace e sulla guerra. In ognuno di questi ambiti, il nostro dovere è di far sì che si sviluppi e realizzi quella facoltà di attenzione che è alla base della giustizia. Se le nostre istituzioni e i nostri comportamenti sono centrati sulla negazione dell’altro; se addirittura organizziamo la nostra convivenza su regole e leggi che scientificamente escludono o impediscono di vedere la sventura, il nostro compito è esattamente quello che fu di Antigone: cercare di mettere all’opera uno sguardo capace di vedere e poi agire di conseguenza, mettendo il nostro io al servizio di coloro che hanno bisogno.
Tommaso Greco è professore ordinario di Filosofia del diritto nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, dove è anche direttore del Centro Interdipartimentale di Bioetica. Dirige la collana “Bobbiana” dell’editore Giappichelli e la rivista di storia della filosofia del diritto “Diacronìa”. Ha pubblicato Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale tra filosofia e politica (Donzelli 2000), La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil (Giappichelli 2006) e Diritto e legame sociale (Giappichelli 2012). Per Laterza è autore di La legge della fiducia. Alle radici del diritto (2021, Premio Nazionale Letterario Pisa 2022 per la saggistica) e Curare il mondo con Simone Weil.
Giuseppina Capone