Annalisa Di Nuzzo: Etnografie Letterarie e Migrazioni: Scritture di Donne Migranti

Donne impegnate nel mondo accademico, nell’associazionismo, nelle professioni, nell’attività imprenditoriale. Donne affatto ignare di Dante, Shakespeare, Ionesco.

Perché, a suo avviso, lo stereotipo della badante rozza e priva di cultura stenta a morire? 

Mi occupo antropologia delle migrazioni in particolare di migrazioni femminili da circa vent’anni ho visto la trasformazione del fenomeno nel corso delle mie ricerche ma certo restano ancora alcune radicate resistenze e ostilità.

La risposta è nella nostra relazione con “l’altro” e con la diversità. Famosa ma efficace la definizione di  Claude Lèvi Strauss che sintetizzava paradigmaticamente l’ambivalenza di questo incontro/scontro  sostenendo che  con “l’altro o si fa la guerra o ci si sposa”. Dunque sull’altro noi proiettiamo quello che non accettiamo di noi stessi,  sopravvalutando noi stessi in un etnocentrismo che finisce con il disprezzare chi è diverso da noi rendendolo rozzo, incivile, ignorante nonostante forse l’altro ha una formazione e processi culturali interiorizzati complessi e significativi.  Del resto è necessario precisare che tutte le culture hanno bisogno del confronto con l’alterità, tutte le culture sono il frutto di continue contaminazioni nessuna cultura, per fortuna, è pura. Quando una cultura si chiude all’altro collassa su se stessa e implode. Il paradosso che io ho riscontrato nelle mie ricerche sul campo in Campania nell’incontro tra donne immigrate e donne campane è stato davvero singolare. Le datrici di lavoro delle cosiddette badanti erano e sono spesso meno “acculturate” delle donne a cui danno lavoro, sono spesso casalinghe o lavoratrici che hanno una cultura di appartenenza essenziale, semplice e  si confrontano con donne laureate, specializzate in settori lavorativi dirigenziali che magari parlano più lingue e tuttavia l’altro è sempre “meno” rispetto a noi che lo accogliamo e lo utilizziamo relegandolo in forme stereotipate che ci rassicurano e ci tranquillizzano circa il controllo che possiamo esercitare senza un’ autentica relazione di reciprocità. All’interno delle case di realizza una particolare dialettica tra donne che può diventare una comune crescita di consapevolezza delle rispettive identità quando si superano le reciproche diffidenze.

Pessimo umore, afflizione ostinata, anoressia, veglia continua, affaticamento e chimere suicidarie sono le avvisaglie della “Sindrome Italia”, definizione coniata nel 2005 da Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych ad indicare gli effetti dell’”affetto a pagamento”.

Un Paese può essere foriero di stress patologico?

Assolutamente sì quando non si instaura una disponibilità al confronto culturale ovvero un autentico transculturalismo in cui si mette in gioco sia chi accoglie sia chi arriva . Lo spaesamento che si insatura nel migrante procura uno shock culturale e un crash identitario che procura sintomi etnopsichiatrici come per esempio la “sindrome di Ulisse” (ossia il rifiuto di parlare e ripercorrere quanto è accaduto durante il viaggio con relativi sintomi di disagio psico-fisico). Nello specifico poi l’accudimento e la cura diventa l’orizzonte di senso della vita quotidiana di queste donne che si sostituiscono ad un welfare spesso inesistente e ad una famiglia in cui le donne non possono e non vogliono più svolgere come nella famiglia ottocentesca e più rigidamente patriarcale, il loro ruolo esclusivamente domestico. Per restare nel mondo del lavoro si affidano ad altre donne che le sostituiscono specialmente per l’accudimento degli anziani. In generale nella percezione sociale rimane radicata la concezione arcaica e velatamente dispregiativa del lavoro di cura, la connotazione ribadisce, qualora ce ne fosse ancora bisogno, con il perdurare di questa scarsa consapevolezza sociale e scientifica del fenomeno badanti e quanto esso connoti un ruolo sociale sottostimato. Ho conosciuto e ascoltato donne migranti che “accompagnano” questi anziani alla morte, e si relazionano continuamente alla sofferenza e sono quindi logorate e spesso reagiscono in modo ambivalente a questo vissuto sia in atteggiamenti depressivi o al contrario in reazioni vitalistiche e di più libera sessualità.  In buona sostanza mi preme sottolineare che dietro il successo lavorativo e la rilevanza sociale di una donna occidentale c’è spesso una donna immigrata che le consente di vivere questa dimensione pubblica.

L’integrazione è un processo multifattoriale esteso nel tempo, un cammino con molteplici tonalità e multiple sfaccettature, un iter gravoso multidimensionale.

Un medium potrebbe essere rappresentato dall’esatta cognizione dei fatti?

La sua domanda pone un problema nel problema. Se analizziamo la comunicazione mediatica, del web, giornalistica della carta stampata o no, insomma  relativa a tutti i mezzi e le forme di comunicazione su tema migrazione, non c’è mai l’esatta cognizione dei fatti quando si comunica sulla migrazione. Il linguaggio, le immagini e quant’altro sono sempre esasperati amplificati sull’aspetto emergenziale dell’invasione e sulla necessità di difendersi. Tanti sono gli studi in proposito fatti anche dai miei studenti dell’università che confermano questa modalità; ne ricordo uno su tutti:  rispetto ai numeri di migranti in Italia ogni italiano ha una percezione triplicata dei dati rispetto a quelli reali. Quindi è chiaro che una comunicazione più autentica a tutti i livelli e in tutte le forme potrebbe dare una mano alla rimozione degli stereotipi e dell’immagine dello straniero brutto, sporco, cattivo, ignorante e delinquente.

Sono passati più di trent’anni dall’inizio della migrazione albanese verso l’Italia: la collettività femminile d’origine albanese è ancora bisognosa di ascolto e riconoscimento?

Tutte le comunità migranti in Italia hanno ancora molto bisogno di ascolto e di riconoscimento. Siamo ancora molto carenti da questo punto di vista nonostante lo splendido lavoro che svolge gran parte del terzo settore in progetti proficui di accoglienza e di integrazione. In particolare le donne come si diceva sono vittime di un doppio stigma negativo ovvero: donne e migranti. Un connubio esplosivo di marginalizzazione.

Il suo lavoro di ricerca pare incedere su due binari paralleli: la silloge del materiale medico-scientifico e la raccolta di colloqui, testimonianze, storie.

Quali sono gli elementi ricorrenti e, pertanto, di congiunzione?

Le metodologie  di analisi e ricerca dei fenomeni da parte dell’antropologo culturale sono complessi e fortemente caratterizzati dall’utilizzo di diversi strumenti che possono essere sintetizzati attraverso un approccio sincretico che coniuga  statuti epistemologici delle diverse scienze umane e sociali senza perdere di vista la specificità dello sguardo antropologico quindi non parlerei di binari paralleli ma di reti interpretative del “campo sociale transnazionale” che caratterizza tutte le società occidentali che vivono il fenomeno migratorio e che investe tutti gli attori sociali. Per comprendere il fenomeno e i suoi continui mutamenti è necessario raccogliere dati quantitativi, aspetti psicologici, sociologici dello stato di salute o di malessere ma poi, soprattutto, qualitativi; insomma al centro dell’indagine c’è una “antropologia della persona” e delle diverse persone del campo sociale che emerge dall’analisi sul campo, dalle storie di vita e dalle interviste (antropologicamente strutturate e non giornalistiche) che non riguardano solo i migranti ma anche gli attori politici, gli operatori sociali, i componenti delle famiglie ecc. Solo così emergono gli elementi ricorrenti  sia negativi che positivi quali l’emarginazione a scuola, la ghettizzazione urbana, le difficoltà nell’uso della lingua, l’incomprensione delle diverse ritualità culturali  ma anche elementi di successo dell’integrazione e della ricchezza che la diversità culturale può portare alle società complesse  quando cioè  si realizza un vero “cosmopolitismo vernacolare” e si cambia reciprocamente quando ciascuno acquista e perde qualcosa come spesso succede in  Campania

In Italia sono presenti pressoché 1.700.000 le donne migranti: filippine, sudamericane, ucraine, polacche, moldave, rumene.

Quale ruolo assumono gli Acli Colf rispetto alla loro tutela?

Nel corso degli anni c’è stata una profonda trasformazione del terzo settore e delle associazioni che si occupano del lavoro dei migranti. Siamo ormai di fronte a seconde, terze generazioni di immigrate che hanno dato una svolta ai sistemi migratori, nuove italiane e dunque in queste organizzazioni ci sono molte donne immigrate che si sono integrate con successo e con la loro intermediazione tutelano al meglio il lavoro di queste donne che rischiano sempre di essere invisibili, chiuse nella loro domesticità tendono a subire in silenzio o anche talvolta a reagire con insospettata aggressività.

Professoressa, le sue analisi sono rivolte altresì alla trasformazione che, progressivamente, ha portato le donne migranti ad affrancarsi dalla domesticità e ad approdare ad attività di tipo imprenditoriale.

Quali le motivazioni sottese ad una radicale ridefinizione del proprio ruolo?

Le mie ricerche attuali sono focalizzate sulle  trasformazioni del fenomeno migratorio e sulle seconde generazioni. In questa ultima fase l’analisi è soprattutto rivolta alla trasformazione che progressivamente ha portato queste donne ad affrancarsi dalla domesticità e ad approdare ad attività di tipo imprenditoriale. Ci sono state nel tempo diverse ondate migratorie di donne  che se in un primo tempo hanno scelto lo spazio del mercato delle cura perché offriva loro l’opportunità di inserirsi senza clamore nel paese di accoglienza, ora le figlie  di queste donne di prima generazione e le donne più giovani hanno acquisito un’assertività maggiore e una consapevolezza delle loro competenze dei loro desideri e della necessaria resilienza che le ha portate ad avere lavori in proprio,  spesso piccole aziende di servizi che ora, ancora una volta paradossalmente, in Campania danno lavoro anche a ragazze e ragazzi italiani. Giovani donne e nuove italiane che hanno vissuto a volte sofferto del lavoro della madri come badanti e sono state in grado anche attraverso non semplici percorsi di integrazione, di cambiare la loro posizione economica e il loro ruolo sociale.

Entrando più nello specifico dell’immigrazione femminile in Campania, area presa in considerazione nel corso delle sue ricerche, è possibile notare come la presenza straniera in Campania si sia modificata.

Quali sono le caratteristiche dei modelli migratori emergenti?

Come appena detto sono cambiati i flussi migratori e anche, in parte, le nazioni di provenienza ma per esempio l’Ucraina resta ancora  uno dei  paese di provenienza anche purtroppo per le recenti drammatiche vicende, che hanno portato in Italia e in Europa una nuova forte presenza di migrazione femminile. La continua analisi della qualità della composizione dei flussi attuali mostra come stiano ancora una volta cambiando anche le caratteristiche del profilo delle donne coinvolte. Ve ne sono molte  dotate di istruzione medio-alta, che migrano da sole. Il collettivo che presenta la più alta percentuale di presenza femminile è quello ucraino (77,3%), seguito dal polacco (74,1%), moldavo (66,1%) e bulgaro (62,6%).

L’analisi si orienta verso due distinte direzioni: da un lato si concentra sul ruolo giocato dalle relazioni di genere, ossia dalle nuove solidarietà tra donne, le reti d’informazione e di sostegno transnazionali nei processi migratori; dall’altro si cerca di comprendere le specifiche modalità di incorporazione delle donne migranti nei mercati del lavoro delle società di destinazione. Un dato emerge sull’evoluzione delle migrazioni  femminili che la donna migrante è dotata, rispetto agli uomini migranti, di una maggiore capacità di innovare, di trovare risorse e soluzioni, e di fare “rete”. Dalla ricerca sul campo emerge un profilo di donna immigrata in cui c’è un intreccio di assertività e determinazione, il voler essere artefice di una autonomia economica che non sia legata ad un lavoro dipendente, dunque la scelta di una migrazione che nasce già come desiderio di affermazione e non da un bisogno devastante scaturito dalla povertà, non una fuga scomposta e disperata ma una partenza verso una opportunità.

Non si tratta più della donna migrante di qualche decennio fa, chiusa tra le mura domestiche e invisibile. Si definiscono in questo modo nuove forme di identità femminili postmoderne e globali; un femminismo nuovo senza frontiere né ideologismi che attraversa vecchi confini e ne annulla le barriere spaziali, nazionali, post coloniali, etniche e psicologiche, rifondando nuove solidarietà nonostante i limiti della loro collocazione sociale e lavorativa.

 

Annalisa Di Nuzzo  (annalisadinuzzo.com) è antropologa culturale, professore abilitato II fascia in antropologia culturale, professore a contratto per l’insegnamento di Geografia delle lingue e delle migrazioni Corso di laurea in Lingue moderne per la comunicazione e la cooperazione internazionale, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa; coordinatore responsabile Fondo Durante Studi e scritture delle migrazioni  Biblioteca Suor Orsola Benincasa;  già professore a contratto di Antropologia culturale presso dipartimento DISUFF Università di Salerno, ha conseguito il PhD in Antropologia culturale, processi migratori e diritti umani.

Direttore  Scientifico e socio fondatore dell’Associazione Festival della filosofia in  Magna Grecia in qualità di esperta di antropologia culturale, antropologia del turismo, patrimoni immateriali e heritage tourism.

Socio del Centro di Ricerca Interuniversitario I_LAND (Identity, Language and Diversity) dal 2016.

Socia e membro del Comitato scientifico dell’associazione ALTERITAS Interazione culturale tra i popoli dal 2016 con sede a Verona, Alteritas http://www.alteritas.it/comitato-scientifico/

Tra i suoi maggiori campi d’indagine ricordiamo l’antropologia delle migrazioni, l’antropologia del turismo, antropologia e genere, antropologia e letteratura.

È autrice di numerosi saggi e  monografie tra cui:

Monografie:

Napule è… Piccola antropologia partenopea, il melangolo ed., Milano 2024.

La città e le sue culture. Adolescenza, violenza, gruppi di strada, la Valle del Tempo ed., Napoli, 2023

Conversioni all’Islam all’ombra del Vesuvio, CISU, Roma 2020.

Minori Migranti. Nuove identità transculturali, Carocci, Roma, 2020

Fuori da casa. Migrazioni di minori non accompagnati, Carocci, Roma, 2013

Il mare, la torre, le alici: il caso Cetara. Una comunità mediterranea tra ricostruzione della memoria, percorsi migratori e turismo sostenibile, Roma Studium 2014;

La morte, la cura, l’amore. Donne ucraine e rumene in area campana,  CISU, Roma, 2009.

Saggi tra gli altri:

Dall’invisibilità alla soggettività. Imprenditorialità femminile di donne immigrate in Campania, in “Dialoghi mediterranei”, n. 56 luglio 2022, ISSN 2384-9010 rivista on line

Giuseppina Capone

seers cmp badge