Stefania Prandi: Le madri lontane

In che modo il suo libro restituisce la complessità emotiva del distacco tra le madri migranti e i figli lasciati nei paesi d’origine? Quali strumenti narrativi ed espressivi usa per rendere tangibile questa frattura affettiva?

Le Madri Lontane è un reportage che porta alla luce una realtà spesso ignorata: la maternità delle donne considerate subalterne dalla nostra società. Si tratta di donne impiegate come braccianti o badanti, soggette non solo a sfruttamento lavorativo e discriminazione di genere, ma anche a un peso emotivo lacerante. Lasciano i propri paesi d’origine — principalmente Romania e Bulgaria — per lavorare in Italia, separandosi dai figli, che vengono affidati alle nonne. Questo distacco, che può durare mesi o anni, si traduce in una sofferenza silenziosa, che grava profondamente sulle loro vite.

Come Le madri lontane contribuisce a ridefinire il concetto di maternità in un contesto globalizzato, in cui l’accudimento diventa spesso delegato a distanza?

Il libro adotta un metodo consolidato dall’autrice: creare uno spazio in cui le persone intervistate possano prendere la parola con libertà. Dopo aver incontrato braccianti e badanti in Romania e Bulgaria — paesi chiave per la manodopera femminile in Italia — l’autrice ha costruito un contesto narrativo in cui le protagoniste potessero esprimersi secondo le proprie modalità e sensibilità.

Il testo mostra con grande precisione le contraddizioni del lavoro domestico e di cura svolto dalle madri migranti nei paesi occidentali. In che modo la narrazione evidenzia la tensione tra la cura prestata alle famiglie ospitanti e il sacrificio della cura dei propri figli?

La maternità, nell’immaginario collettivo occidentale, è spesso associata alle donne bianche, native dei paesi europei più sviluppati. Tuttavia, non esiste un unico modo di essere madre. Il modello stereotipato impone un’idea di “madre ideale”, da cui ogni deviazione appare come una mancanza. Le Madri Lontane sfida questo schema, mostrando che anche la maternità a distanza — scelta dolorosa dettata da necessità economiche — sia un atto di amore e sacrificio. Queste donne antepongono il futuro dei propri figli alla propria sofferenza, subendo conseguenze psicologiche e fisiche profonde.

Pur focalizzandosi sulle madri, il libro lascia emergere anche il punto di vista dei figli rimasti indietro. In che modo l’autrice rende visibile la loro esperienza e il loro senso di abbandono?

Il reportage dà voce non solo alle madri, ma anche ai figli e alle figlie, che affrontano le sfide imposte da questa separazione. Tutti siamo figli di qualcuno: questa consapevolezza invita i lettori e le lettrici a immedesimarsi nella fatica e nella capacità di reazione e autoaffermazione (agency, per usare un termine specifico) di chi vive lontano dalla madre. La narrazione con molti discorsi diretti di nonne, insegnanti e presidi permette di comprendere il vuoto emotivo che si genera e le difficoltà quotidiane che questi giovani affrontano.

Le madri lontane è un’opera giornalistica che assume toni di denuncia sociale. In che modo è riuscita a mantenere un equilibrio tra narrazione empatica e rigore documentario?

I dati sono cruciali per comprendere la portata del fenomeno. Secondo Save the Children, ogni anno circa mezzo milione di minori romeni vive senza uno o entrambi i genitori. Non si tratta, quindi, di eccezioni isolate, ma di una realtà strutturale.

Come il libro inserisce la condizione delle madri migranti all’interno di un discorso più ampio sulla stratificazione sociale e sulle diseguaglianze di genere?

L’approccio giornalistico e fotogiornalistico dell’autrice bilancia narrazione empatica e rigore documentario. Il reportage si fonda su fatti concreti, arricchiti da dati di associazioni, istituzioni e ricerche accademiche, senza mai perdere di vista la dimensione umana delle testimonianze raccolte.

In che modo il testo lavora sul paradosso della presenza-assenza, ovvero il fatto che queste madri, pur essendo lontane, continuano a esercitare un ruolo centrale nella vita dei figli?

Le istituzioni hanno definito questi ragazzi “orfani bianchi”, una terminologia che però viene rifiutata dalle madri intervistate. Essere madri a distanza non significa cessare di essere madri: queste donne mantengono un contatto costante con i figli, cercano di tornare appena possibile e progettano ricongiungimenti. Alcune riescono a far studiare i figli e ad acquistare una casa prima di rientrare nei paesi d’origine; altre li portano con sé nel paese in cui lavorano, una volta raggiunta una stabilità.

Quali conseguenze a lungo termine evidenzia l’opera rispetto alle relazioni familiari e allo sviluppo emotivo di chi vive questa separazione?

Le conseguenze emotive e psicologiche di questa separazione sono gravi. Le madri spesso soffrono di disturbi mentali e fisici, come dimostrano testimonianze raccolte in luoghi emblematici, come l’ospedale psichiatrico di Iași. Anche i figli risentono della lontananza: alcuni riescono a resistere grazie al supporto di nonne, insegnanti e comunità locali; altri, invece, crollano sotto il peso della solitudine, manifestando abbandono scolastico, dipendenze e disagio emotivo.

In un panorama letterario e giornalistico spesso incentrato sulle migrazioni dal punto di vista economico o politico, quale spazio apre Le madri lontane per una riflessione più intima e umana sulla diaspora femminile?

Il progetto non si esaurisce nel libro pubblicato con People: si estende ad una mostra fotografica itinerante, che è appena stata esposta nella biblioteca comunale di Como e prossimamente sarà a Verbania, all’Istituto superiore Cobianchi. Esposta in luoghi chiave per stimolare la riflessione collettiva, la mostra — così come il reportage — vuole essere uno strumento per scuole e giovani generazioni. L’obiettivo è offrire uno sguardo alternativo sulla migrazione, andando oltre le narrazioni geopolitiche e mostrando l’impatto reale, umano, quotidiano di queste scelte forzate, spesso invisibili nei media mainstream.

Giuseppina Capone

Il tempo è un altro. Dialoghi con Anna Maria Ortese

Il titolo Il tempo è un altro suggerisce un diverso paradigma temporale rispetto a quello lineare e cronologico. In che modo questa concezione del tempo emerge nel dialogo con l’opera di Anna Maria Ortese?

Ivana Margarese Dove il tempo è un altro è il titolo di uno dei saggi raccolti in Corpo celeste. Mi è subito parso che potesse rendere assai bene le intenzioni del nostro progetto che  avvia un colloquio “a più voci e a più corpi” con gli scritti di Annamaria Ortese e la sua predittiva visione di pensiero, visione in cui il tempo, come noti giustamente tu, non ha una dimensione lineare, non tende a un ideale progresso, ma è una condizione del vivere in cui ciò che è passato non passa ma abita il presente e l’avvenire in una tessitura al contempo malinconica e gioiosa. Per Ortese la scrittura è anche compianto, colloquio con gli assenti, nostalgia di presenze perdute ma vive nel ricordo. “Scrivere –  dichiara in un’intervista a Dario Bellezza del 1983 – se non è pura vanità o lusso – è proprio cercare un altro mondo. Cercarlo disperatamente”.

Questa attenzione a ciò che non è visibile, al doppio sguardo di leopardiana memoria, per cui la scrittrice dichiara di credere in tutto ciò che non vede e di credere poco in ciò che vede, offre una lente sul reale che può trasformarsi in grimaldello per sovvertire le nostre oziose categorie e aprirci a una dimensione profonda del sentire e del vivere comuni, in cui vicini alla visione di un’altra pensatrice radicale, Simone Weil, si debba vivendo tutto perdere per tutto possedere.

La struttura del libro è corale, un tessuto di voci che si intrecciano. Come questa modalità dialogica rispecchia la poetica ortesiana?

Ivana Margarese Come accennavo prima, il testo è a più voci in quanto attinge allo sguardo di Ortese per osservare la realtà attraverso la composizione di differenti prospettive in modo da lasciare spazio a una serie di interrogativi su come sia possibile e auspicabile la costruzione di modelli di vita alternativi più complessi e inclusivi, dove intelligenza e sensibilità collaborino al punto da non potersi definire l’una senza l’altra. Ciò che ci siamo proposte di mostrare attraverso i nostri diversi posizionamenti e i molteplici punti di vista che si scollegano e ricollegano in nuove configurazioni è lo sguardo caleidoscopico e profondo di Ortese, che come è noto descriveva figure ambigue e anfibie, a metà fra l’umano, il divino e l’animale. La forza del lavoro di Ortese poggia su una letteratura in grado di eludere i dualismi su cui si configura il pensiero occidentale (natura/cultura, uomo/donna, umani/animali, visibile/invisibile, ragione/sentimento); questo approccio ci ha sollecitate più che ad un’analisi univoca ad un discorso fatto da assemblaggi e inclinazioni, per usare un termine a me caro tratto dal vocabolario filosofico di Adriana Cavarero.

Volevamo far risuonare il suo appello verso una società libera ed etica, partecipi di una scommessa comune in cui riconosciamo, come scrive Ortese, «che la propria vittoria è nulla, in un certo senso, senza la vittoria dell’altro, che la lotta è comune, che la meta è la propria verità, ma non senza la verità dell’altro, degli altri».

L’idea di un pensiero liminale attraversa molte riflessioni su Ortese. In che modo il libro esplora il confine tra visibile e invisibile, umano e non umano, reale e immaginario?

Rebecca Rovoletto Ricollegandomi alla domanda precedente, sottrarsi a dicotomie oppositive e privilegiare le pratiche di assemblaggio – che significa far coesistere tutte le manifestazioni del vivere, anche quelle sottili, pre-cognitive, perturbanti e paradossali – è di per sé un incedere lungo i crinali, o nelle crepe, come direbbe il filosofo nigeriano Bayo Akomolafe. Questi bordi non funzionano tanto come linee di demarcazione – regime di separatezza che induce all’esilio metafisico di cui è testimone la stessa Ortese – quanto come ecotoni porosi, zone abitabili d’interscambio in cui mondi diversi stanno insieme, intra-agendo fra loro e generando ridondanza. Visibile e invisibile, umano e nonumano, reale e immaginario, sacro e profano si fondono in Ortese, come si fondono nella sociomaterialità della Terra, con le sue «foreste e la luce, le acque e i monti. Tutti gli esseri elastici e splendidi, spirituali e regali che la popolano». Nei differenti contributi queste “zone critiche”, per usare un’espressione di Bruno Latour, vengono percorse in molti modi, interrogando uno o più aspetti di questa attitudine all’attraversamento, alla mescolanza, di cui Ortese è maestra. Ciascuna di noi ha accordato la consistenza del proprio vissuto al diapason ortesiano, osservandolo dalla prospettiva di s-confinamento dalle ortodossie di un pensiero secolare, antropocentrico, semplificato ai limiti della sterilità, che non rispecchia più le condizioni umana e planetaria, ma che stimola la ricerca di nuovi percorsi e intrecci. Su un’altra scala, è l’intero testo, a realizzare a modo suo quella “diffrazione” teorizzata da Haraway, che fa salva l’interferenza e l’ibridazione, in cui le categorie e i soggetti sfumano a favore delle connessioni.

In che senso il volume si propone non come una “trattazione sistematica o scientifica”, ma come una raccolta di domande e conversazioni? Quale valore assume la domanda come metodo conoscitivo?                                

Lea Barletti Ma non è forse che abbiamo un’idea del metodo scientifico troppo legata all’ossessione per la specializzazione, per la sistematicità e soprattutto per l’ordine lineare “scientifico” in cui procedere rispetto a qualsiasi cosa intendiamo indagare? Ordiniamo le cose da destra a sinistra, secondo la direzione che, in occidente, ha la scrittura e, di conseguenza la nostra immagine del tempo. Eppure esistono diverse altre possibilità di interrogare, leggere, narrare e immaginare le cose, la natura, il mondo, noi stessi. E questa possibilità multipla, asincrona e generativa, avventurosa, dove le cose vanno più interrogate che studiate e sistematizzate, non è forse quella che ci indica Ortese, quella dove il tempo è un altro? Forse è proprio in questo tempo altro che tutte le nostre diverse voci hanno cercato di entrare, ognuna a partire dal proprio punto di vista, dal proprio vissuto e dal proprio corpo, in dialogo con il corpo celeste Ortese. La domanda, e sua sorella l’intuizione, sono inoltre i metodi conoscitivi che, personalmente, sento più vicini. Ad una domanda rispondo quasi sempre, intuitivamente, con altre domande. Una domanda è movimento verso l’altro, è espressione di un desiderio di conoscenza e vicinanza, è vita, ma non è forse che troppo spesso ci attendiamo poi una risposta “definitiva”, un punto fermo che sciolga tutti i nostri dubbi? E non potrebbe essere che, come ha scritto Carla Lonzi, “dobbiamo essere all’altezza di un mondo senza risposte”?

L’idea della scrittura come “scuola dello sguardo” è un elemento cardine dell’opera ortesiana. Come il libro indaga questo rapporto tra visione e parola?

Annachiara Biancardino La scrittura di Anna Maria Ortese è un esercizio continuo di affinamento dello sguardo, un invito a cogliere la verità oltre l’apparenza della realtà, a cercare le connessioni profonde tra esseri e mondi. Mi pare che la questione dell’allenamento dello sguardo sia trasversale, che attraversi tutti o quasi i contributi del volume, che tentano, attraverso strade differenti, di valorizzare il carattere etico della visione ortesiana: la sua scrittura è un atto di conoscenza e di responsabilità.

Ortese ha dedicato buona parte del suo impegno narrativo nella ricerca di uno sguardo altro, capace di rivelare ciò che la consuetudine sociale (e, a suo avviso, anche quella letteraria dei suoi anni) tendeva a ignorare. Questo impegno si è tradotto in una scrittura che si fa soglia tra dimensioni diverse – tra umano e non umano, presente e passato, immaginazione e realtà – restituendo una percezione più profonda e complessa del mondo.

In sintesi, mi pare che il volume dimostri che l’atto dello scrivere per Ortese sia sempre un atto di rivelazione, di apertura su ciò che non si vede immediatamente, ma che la letteratura ha il potere di portare alla luce.

Lilia Bellucci La ‘costellazione’ di scrittrici in dialogo su Anna Maria Ortese si offre come una pluralità di prospettive, che nell’atto stesso di porsi in relazione è una risposta alla lezione della “scuola dello sguardo”, lasciata in eredità da una delle più grandi scrittrici italiane del Novecento.

La visione di Ortese è generata da un occhio interno, che cerca di osservare quello che gli altri non vedono. Uno sguardo abitudinario e acritico sulla realtà si riduce alla ripetizione e alla validazione di un discorso su di essa, che la rende un oggetto banalizzato e gerarchizzato; invece, lo straniamento, l’occhio obliquo, l’alterazione o il rovesciamento delle posture, l’ingrandimento del dettaglio difforme sono strategie con cui Ortese distoglie dalla fissità e dalla parzialità di un’inquadratura unica e immutata. La ‘scuola dello sguardo’ sollecita, attraverso la parola, l’apertura ad una vista differente per accedere alla visione. Nello stesso tempo, presuppone un ‘occhio interno’, che sappia vedere e riconoscere ‘le parole di luce’; si rivolge a chi ha accettato di esporsi al dubbio e alla ricerca di un oltre.

Siamo sempre più esposti alla sollecitazione delle immagini, utilizzate proprio per la loro potenza comunicativa; tale uso non ha una garanzia di veridicità, perché le sottopone a processi di alterazione e a volte di falsificazione, e il loro stesso fluire indiscriminato e continuo, le priva di senso. È sempre più urgente educarsi ad un’arte del ‘saper vedere’. Siamo ancora in tempo per scegliere se aggirarci come avatar duplicabili, sovrapponibili e alterabili in un flusso virtuale senza memoria e senza emozione, oppure apprendere da questa scrittura dello sguardo una disposizione della mente e del corpo. Guardare è stare in mezzo al mondo, abitarne lo spazio, sentirlo con le sensazioni e le emozioni, accoglierne le immagini e scegliere le proprie. Per questo, il contributo maggiore di un libro su Anna Maria Ortese è proprio il dialogo su cosa significhi nell’esperienza del vivere seguire la sua ‘scuola dello sguardo’.Ogni scrittrice in questo libro collettivo ha scelto una postura e un focus diverso con cui raccontare la sua Ortese, ed ogni saggio rappresenta la veridicità di una parola che non è ‘fabbricata’ per vendersi, come direbbe Ortese, ma nasce e rinasce da scelte di visione e di vita. Il risultato è una tessitura di visioni e di memorie, che si muove tra la lettura di Ortese e il suo sentirla umanamente viva nel nostro presente, con la ricchezza del suo pensiero.

In che modo il saggio di Lilia Bellucci sul rapporto tra Ortese e Leopardi illumina una poetica dell’oltre-visibile?

Lilia Bellucci Nella mia ricerca pluriennale sulla sua scrittura, ho ricostruito momenti, fasi e lessico della sua ‘scuola dello sguardo”. Il mio contributo per la lettura di Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi è un esempio di studio delle sue “lezioni”, ragionando su uno sguardo che riesce a cogliere l’essenziale tornando indietro. Lo definisco ‘lo sguardo del ritorno’, come se la protagonista si proponesse come una novella Euridice, che non delega ad Orfeo il compito di voltarsi, ma lei stessa procede a ritroso, per dialogare con la memoria, la vita, la morte. Ortese ci insegna la virtù di questo volgersi indietro, tornare con lentezza e con attenzione, per sentire il fondo del reale e interrogarsi su cosa ci sia ‘oltre’ l’immediato. Ci offre un antidoto ad una modernità frettolosa e superficiale, che circoscrive e definisce l’esistenza, la programma secondo procedure, e cade nel terrore quando non riesce a dominare e controllare. I visionari sono diversi. Nascono dalla consapevolezza di uno stato di perdita, guardano alla morte di qualcosa, ma non cedono all’angoscia dell’immediatezza e si rendono permeabili nell’attesa. Sanno aspettare, voltarsi indietro, tornare a guardare. È un’arte che richiede consapevolezza della fragilità di chi guarda, ma anche di ciò verso cui si volge. Richiede ‘venerazione’, ovvero delicatezza e rispetto. Leopardi e Ortese tornano ad offrirci la loro capacità di sguardo su un’umanità sofferente e disorientata, proprio mentre esalta le conquiste della modernità. C’è un mondo non visto che chiede di essere visto: l’ambiente degradato, i popoli devastasti, le disparità socio-economiche crescenti. In questo giardino della souffrance occorre saper vedere parole di luce, tornare ad incontrare ciò che abbiamo oltrepassato troppo in fretta e intrecciare reti di umane visioni.

La scrittura ortesiana è spesso definita “celeste”, e il termine “celeste” ricorre nei suoi testi. In che modo questa dimensione viene interpretata all’interno del volume?

Gianna Cannì “Celeste” è una parola numinosa, una parola-rivelazione. Coincide, per Ortese, con la scoperta e meraviglia di abitare un mondo che è un corpo celeste, “un oggetto azzurro collocato nello spazio”, e dunque un sovramondo. Le cose nel mondo e fuori, proprio in quanto fatte di materia celeste, sono insondabili. La scrittura registra questo mistero, si accosta a questo incanto accedendo a un aspetto del reale che è invisibile ai nostri occhi terrestri, ma che si riflette e rifrange nell’espressività della parola.

Nel nostro volume, la parola “celeste” ricorre spesso. “Celeste” è richiamo al cielo che ci contiene ma, come ha scritto Ivana Margarese nell’introduzione, lo abbiamo inteso “non come immaginaria fuga dalla terra, ma piuttosto come poetico monito a osservare, testimoniare e ascoltare ciò che rende celesti i luoghi che abitiamo”. L’orizzonte celeste di meraviglia – che è una dimensione religiosa naturale e antichissima – tocca ambiti molto concreti della nostra vita. Gisella Modica si chiede nel suo saggio: “la politica ama il corpo celeste? Intendendo con corpo celeste tutto ciò da cui la modernità rifugge: il sacro, la spiritualità, il perturbante, l’incanto, la meraviglia”. Io, nel mio contributo mi chiedo se sia ancora possibile una “scuola azzurra e mediterranea”, che tenga conto delle diverse gradazioni di celeste del cielo italiano, che richiami le “strutture di luce”  gettate – come scrive Ortese – “come reti aeree sulla terra, perché essa non sia più quel luogo buio e perduto che a molti appare”.

Il volume sottolinea la consonanza tra il pensiero di Ortese e quello di autrici contemporanee come Vandana Shiva e Donna Haraway. Quali connessioni emergono tra la sua visione e l’ecofemminismo?

Rebecca Rovoletto Se c’è una postura che accomuna le molteplici espressioni dell’ecofemminismo, occidentale e non occidentale, è la preoccupazione e la mobilitazione per una buona vita (biologica, sociale, spirituale), nella consapevolezza che il ben-stare di una specie, o comunità di specie, non può prescindere da quello di tutte le altre, dal «diritto dell’albero, della bestia, di vivere serenamente, rispettati, tutto il loro tempo». Ovunque nel mondo – e ben prima che Françoise d’Eaubonne coniasse il termine nel 1974 – quello che oggi (noi, qui) chiamiamo ecofemminismo ha intercettato la confluenza dei rapporti di dominio e sfruttamento, che colpiscono al contempo precisi gruppi umani (donne, bambini, indigeni, anziani…) e la “natura”; rapporti che minano i presupposti di preservazione e continuità generazionale della rete del vivente in un pianeta animato e agentivo. Tradizionalmente, sono epistemologie che emergono dalle pratiche quotidiane di cura e ri-produzione delle condizioni socio-ecologiche favorevoli alla vita, che la parte femminile dell’umanità ha sempre e ovunque sostenuto. Nella contemporaneità, le posizioni ecofemministe si intrecciano ad altri movimenti e a rinnovati studi ecocritici, decoloniali, neomaterialisti, antispecisti e postumanisti che stanno dando impulso a quello che è un nodo centrale anche in Ortese: mettere in discussione lo statuto ontologico di eccezionalità di un umano in balia di «un Edonismo senza riscatto». Altrettanto centrale è il recupero di modalità neglette e osmotiche di relazione col mondo come la compartecipazione, l’empatia, l’affettività, la meraviglia. Modalità e intenzionalità che in Ortese trovano una voce intensa, sensibile e chiara, quando sostiene la necessaria rianimazione del mondo, quando ci esorta a reincorporare l’Antenato-Terra «nel nostro sistema di valori», a ristabilire reverenza e intimità fraterna con il Bambino-Bestia, a farci carico della vulnerabilità e della sacralità dei «piccoli», amando e difendendo «il libero respiro (…) di ogni vita vivente».

Il saggio Il silenzio delle donne di Ortese invoca una presa di coscienza femminile che vada oltre le rivendicazioni individuali per comprendere la sacralità della natura. Come viene tematizzata questa posizione nel libro?

Gisella Modica  Rispondo con le parole della stessa Ortese: “C’è un mondo vecchio, fondato sullo sfruttamento della natura madre, sul disordine della natura umana, sulla certezza che di sacro non vi sia nulla. Io rispondo che tutto è divino e intoccabile: e più sacri di ogni cosa sono le sorgenti, le nubi, i boschi e i loro piccoli abitanti. E l’uomo non può trasformare questo splendore in scatolame e merce, ma deve vivere e essere felice con altri sistemi, d’intelligenza e di pace, accanto a queste forze celesti. Che queste sono le guerre perdute per pura cupidigia: i paesi senza più boschi e torrenti, e le città senza più bambini amati e vecchi sereni, e donne al disopra dell’utile. Io auspico un mondo innocente”. E più avanti: Tutto è corpo, e ogni corpo deve assolvere un dovere, se non vuole essere nullificato; deve avere una finalità, che si manifesta nell’obbedienza alle grandi leggi del respiro personale, e del respiro di tutti gli altri viventi. E queste leggi, che sono la solidarietà con tutta la vita vivente, non possono essere trascurate. Noi, oggi, temiamo la guerra e l’atomica. Ma chi perde ogni giorno il suo respiro e la sua felicità, per consentire alle grandi maggioranze umane un estremo abuso di respiro e di felicità fondati sulla distruzione planetaria dei muti e dei deboli – che sono tutte le altre specie -, può forse temere la fine di tutto?”

E ancora:Io sono dalla parte di quanti credono nell’assoluta santità di un albero e di una bestia, nel diritto dell’albero, della bestia, di vivere serenamente, rispettati, tutto il loro tempo. Sono dalla parte della voce increata che si libera in ogni essere, e della dignità di ogni essere – al di là di tutte le barriere – e sono per il rispetto e l’amore che si deve loro”

Il volume suggerisce un rapporto tra la scrittura ortesiana e il pensiero della vulnerabilità. In che modo la fragilità diventa un principio attivo di conoscenza? 

Rossella Caleca Penso che il pensiero  di Ortese possa guidarci verso nuove visioni e nuove pratiche, mostrandoci la possibilità di sviluppare uno sguardo che accolga le diversità e le fragilità e le riconosca in sè. Ortese, nello spazio della sua scrittura, sale a un altro punto di vista, da cui si può conoscere attraverso ciò che è disconosciuto: gli invisibili che abitano la terra, i corpi e le intelligenze diverse, animali, vegetali, umane; le sue opere sono intessute di un’idea della letteratura come svelamento dell’inespresso attraverso una visione alternativa del mondo, che è un “corpo celeste” in cui tutti i viventi, portatori di affetti e di espressività, riacquistano voce, compresi coloro che portano ferite. Questa visione è perturbante e sovversiva, perché mette in luce la vulnerabilità dei cosiddetti normali, degli “inclusi”, degli “omologati”, perché lascia intuire l’impossibilità di una netta separazione e perché mette di fronte ai limiti di ogni essere vivente: e la più profonda conoscenza si può attingere proprio attraverso la consapevolezza della vulnerabilità di ciascuno. Gli elementi ibridi, gli esseri mostruosi svelati dalla “doppia vista” (cfr. M. Farnetti, “Introduzione” a Anna Maria Ortese, Romanzi I, Adelphi, Milano 2002) sono la via per mostrare una realtà di violenza e sopraffazione altrimenti irrappresentabile; così i soggetti rimossi bucano la facciata ipocrita di una società che afferma la volontà di accogliere ma in realtà continua a nascondere ed esecrare. In questo senso la scrittura di Ortese è  animata da una tensione etica che si fa anche politica, dialogando con il pensiero di Kristeva, Barad, Haraway e col pensiero della vulnerabilità, in particolare con la “politica della vulnerabilità” sviluppata dal suo riconoscimento, e non dall’occultamento, proposta da Judith Butler partendo dall’esperienza della maggiore consapevolezza da parte delle donne delle proprie e altrui fragilità; una vulnerabilità che “acquisisce un senso solo alla luce di un insieme di relazioni sociali incarnate, fra cui anche le pratiche di resistenza” (J. Butler, The force of Nonviolence. An Ethico-political Bind, tr.it. La forza  dellanonviolenza.Un vincolo etico-politico, Nottetempo, Milano 2020, p.256).

Ortese parla di una scrittura che deve farsi “antichissima” per raggiungere un accento di verità. Come questa idea viene sviluppata e problematizzata nel volume?

Annachiara Biancardino L’idea della scrittura come qualcosa di “antichissimo” è centrale nella poetica ortesiana e il libro la esplora in diverse direzioni. La scrittura ortesiana, anche nei suoi risultati più vicini al realismo,non è mai una riproduzione a-problematica del presente, ma è un movimento che scava nelle profondità del tempo, nella memoria collettiva e nella coscienza umana. Il che comporta un’estenuante ricerca dell’origine più autentica della parola, di un linguaggio capace di parlare a ciò che è essenziale e immutabile nell’essere umano.

La scrittura diventa allora, come emerge nel libro, una forma di resistenza all’appiattimento temporale e culturale, un modo per sottrarsi all’effimero e riscoprire il legame tra l’umano e le forze ancestrali della storia e della natura.

In questa prospettiva, la scrittura ortesiana si avvicina a una dimensione (anche linguistica) archetipica, capace di parlare a ogni epoca. Abbiamo tentato di riflettere anche sulle tensioni di questa ricerca: in che modo una scrittura che vuole divenire antichissima può sottrarsi alla nostalgia per farsi strumento di cambiamento? Mi pare che in questo moto incessante di avvicinamento e allontanamento dalla realtà storica, Ortese sia riuscita a trovare una voce universale in grado di rivolgersi al futuro in modo ancora più nitido che al proprio presente.

Se dovessimo individuare un lascito di Il tempo è un altro, quale sarebbe il suo contributo più significativo alla lettura di Anna Maria Ortese nel XXI secolo?

Ivana Margarese Rispondere a questa domanda non è semplice, ma posso dirti che ciò che abbiamo avuto intenzione di fare è stato rimettere innanzitutto Anna Maria Ortese al centro di una scena che la leggesse soprattutto per il suo contributo di pensiero. La vera filosofia consiste nel reimparare a vedere il mondo e d’altronde c’é filosofia ovunque ci sia pensiero e di pensiero originale e elaborazione teorica dà prova molta scrittura letteraria. La visione di Ortese è una visione profetica anche nella temerarietà con cui interpella coloro che non potranno accettarla.

Inoltre il muovere dalla nostra testimonianza personale, dall’esperienza personale, ovvero da una conoscenza radicata nell’esperienza, è un metodo che ci è parso assai fertile per promuovere un dialogo che sproni a ripensare criticamente. In particolare in ambito etico e politico lo sguardo di Ortese sulla condizione umana, la denuncia del dominio su altri esseri e l’indifferenza – o il mutismo – davanti al dolore, invita a mettere al centro la relazione ovvero ad arrivare alla soggettività individuale partendo dalla relazione. Se partiamo dalla relazione, dobbiamo partire dal corpo e dall’esperienza incarnata, quindi da un concetto performativo e agentivo dell’essere umano, che si individua e diviene sé stesso grazie alla relazione.

Come scrive i Donna Haraway ne Il Manifesto delle specie compagne ci stava a cuore attraverso la letteratura “un atto politico di speranza in un mondo sull’orlo di una guerra globale”.

 

Curatrice Ivana Margarese, fondatrice e direttrice editoriale della rivista “Morel, voci dall’isola”, insegna filosofia presso il liceo delle scienze umane Ugo Mursia di Capaci. Ha conseguito un dottorato e un postdoc in Studi culturali ed è stata docente a contratto di Teoria della letteratura all’Università degli Studi di Palermo. Ha curato Ti racconto una cosa di me (2012) e ha pubblicato racconti nelle antologie Non ti resisto (2017), Anatomè (2018) e L’ultimo sesso al tempo della peste, a cura di Filippo Tuena (2020).

Giuseppina Capone

FIAF: Incontro con fotografi e mostre

Ricco di informazioni e presentazione di autori anche il secondo numero del 2025 di FOTOIT la rivista ufficiale della FIAF (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche).

Mostre personali e collettive, iniziative, presentazioni di libri e autori, concorsi, trovano ampio spazio informativo.

Dedicato alla fotografia come testimonianza la presentazione dell’attività di Pierpaolo Mittica. La storia di una fotografia è dedicata a Euguenio Montale e l’upupa realizzata da Ugo Mulas.

Gianni Fiorito, uno dei principali fotografi di scena in Italia, in un’intervista parla della  sua esperienza e attività e del suo abbandono del fotogiornalismo.

Per “Visti per voi” protagonisti “Mitch Epstein – American Nature” in mostra dal 17 ottobre 2024 al 2 marzo 2025 alle Gallerie d’Italia a Torino e la mostra “Mutual Aid – Arte in collaborazione con la natura” al Castello di Rivoli Museo d’Arte contemporanea ino al 23 marzo. E ancora la mostra “Roma Chilometro Zero” che vede protagonisti 15 fotografi al Museo di Roma in Trastevere fino al 9 marzo.

Portfolio Italia presenta “SmartVision” di Luigi Cipriano, opera prima classificata al 24° Spazio Portfolio 76° Congresso Nazionale FIAF di Alba. Seconda opera classificata “Moderno Prometeo” di Stefano Corsini.

“Diamoci del noi” presenta Daniela Marzi, collaboratrice di FOTOIT dell’annuario fotografico FIAF.

Nel programma della prima retrospettiva della 55ma edizione dei Rencontres d’Arles sono state presentate circa 200 immagini dell’autrice americana Mary Ellen Mark.

Le fotografie di Adriano Cascio, tra i vincitori del Progetto Talent Scout Senior 2024, sono visibili al pubblico di FOTOIT.

Spazio anche alla tecnica con alcuni suggerimenti per l’utilizzo del flash.

Antonio Desideri

All’Istituto Colosimo in scena “Omaggio a Viviani”

Grande successo per lo spettacolo “Omaggio a Viviani”, presentato il 28 febbraio al Teatro dell’Istituto Regionale per non vedenti di Napoli “Paolo Colosimo”, con due repliche sabato 1 e domenica 2 marzo.

La scelta del Teatro, vero gioiello barocco incastonato tra le labirintiche e possenti mura del settecentesco monumentale edificio che dal primo dopoguerra accoglie e forma persone non vedenti e ipo-vedenti, ha un valore particolarmente simbolico.

Dopo i tredici attori della Compagnia “Prove d”Amore” dell’autore e regista Angelo Rojo Mirisciotti, che hanno rappresentato la nota opera di Viviani “La musica dei ciechi”, sono saliti infatti sul palco dieci convittori dell’Istituto con il loro educatore Maestro Salvatore Torregrossa, che hanno eseguito musiche e canzoni dell’immortale repertorio del grande autore ed attore stabiese.

L’evento, concretizzazione di un Protocollo d’intesa recentemente siglato tra il Distretto 108 Ya Lions International e il Gruppo RTI Colosimo, rappresenta un reale Progetto di integrazione tra artisti normotipici e non vedenti, che rende protagonisti anche questi ultimi, che  stupiranno il pubblico  con la loro maestria.

L’evento è stato promosso ed organizzato dal Lions Club Napoli Cittadinanza Umanitaria in collaborazione con il Gruppo RTI Colosimo e con il Lions Club Napoli Partenope-Palazzo Reale, con il coordinamento della dott.ssa Valeria Mirisciotti, Delegata del Governatore del Distretto Lions 108 Ya, dott. Tommaso Di Napoli, che ha presenziato con numerose Autorità lionistiche e civili alla serata inaugurale. Si è avvalso del patrocinio del Garante dei Diritti delle Persone disabili della Regione Campania, avv. Paolo Colombo, delle Associazione Cittadinanzattiva e Mondoscuola e del Corpo Consolare di Napoli,  in piena sinergia di intenti con il Progetto Lions “New Voices” e con il Service Lions che celebra il centenario della morte di Puccini, la cui responsabile per la Campania ha donato cinque biglietti per assistere alla Tosca al Teatro di San Carlo a tre giovani musicisti con limitazioni fisiche o neurodivergenze ed ai loro accompagnatori. Premiando il loro spiccato talento musicale si vuole al contempo attestare che, con il prezioso sostegno delle famiglie e quello compensativo e doveroso della società, non esistono barriere alla realizzazione dei sogni di chi si confronta con il peso di una fragilità.

L’esibizione a titolo gratuito della Compagnia “Prove d’amore” e la scenografia generosamente realizzata da Sergio Mazziotti, il supporto finanziario di numerosi Lions Club napoletani, del pubblico e di alcuni sponsor hanno reso lo spettacolo “Omaggio a Viviani” anche un evento benefico, espressione di una sentita coralità solidale.

Una solidarietà  che vede in prima linea anche la Nuova Orchestra Scarlatti, il cui Direttore, il Maestro Gaetano Russo, presente in sala alla prima del 28 febbraio, ha deciso di prestare per la rappresentazione teatrale proprio uno dei due contrabbassi che quattro anni fa il Distretto Lions 108 Ya donò all’Orchestra Scarlatti Junior.

Al Gruppo Sportivo Colosimo, sarà donato un tavolo da showdown, e ad alcuni minori con spettro autistico, sono state assegnate delle borse di studio per attività formative e riabilitative.

Palomonte e il suo dialetto da preservare

Preservare dialetto e tradizione e nello stesso tempo far conoscere un territorio ricco di storia e testimonianze architettoniche è ciò che hanno fatto con un lavoro attento di ricerca Aurora Cupo, Pina Cupo, Antonio Giordano, Sergio Grossi, Maria Grazia Pecoraro, Sabrina Perrotta che hanno dato vita ad un volume dal titolo “Palomonte. Citt’! …Parl’ ammì!” per i tipi di Giuseppe De Nicola Editore e curato da Sergio Grossi.

Una preziosa testimonianza da trasmettere alle giovani generazioni perché possano conoscere le loro origini e meglio comprendere vita e sviluppo socio-economico della realtà in cui vivono.

Siamo parlando di Palomonte in provincia di Salerno, cittadina accogliente arroccata su un monte.

Il volume è frutto di un preciso e attento lavoro di ricerca nato dapprima raccogliendo vecchi termini palomontesi e poi via via arricchitosi fino a dare vita alla pubblicazione integrata anche da documentazione fotografica e storica.

Sergio Grossi, curatore della pubblicazione, evidenzia che “questo libro non è una semplice raccolta di memorie e di termini del passato, ma è uno strumento utile per alimentare quel senso identitario, indispensabile per favorire la crescita culturale del nostro paese e guardare con fiducia al futuro”.

Antonio Desideri

Alla FoCS la mostra fotografico-documentaria “La Napoli dei Sedili” edizione 2025

Chiesa del Gesù Nuovo – Foto di Alessandra Desideri

Nell’ambito dell’edizione 2025 della manifestazione “Rivive la Napoli dei Sedili. Il palio dei Sedili” organizzata dall’Associazione Culturale “Napoli è” che ha compiuto i suoi 30 anni di vita nel maggio dello scorso anno, è visitabile, presso il Museo dei Sedili di Napoli, la mostra fotografico-documentaria “La Napoli dei Sedili”.

La mostra allestita presso la Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus in piazzetta San Gennaro a Materdei n. 3, Napoli, dall’Associazione Culturale “Napoli è” e dal Museo dei Sedili di Napoli rappresenta solo un aspetto del più ampio e complesso progetto che vede, sin dal 1997, l’Associazione “Napoli è” protagonista della riscoperta della storia, delle tradizioni e dei luoghi dei Sedili di Napoli con mostre, cortei e rievocazioni storiche, collaborazioni con istituzioni scolastiche ed Enti, studi, pubblicazioni.

La mostra sui Sedili è curata da Laura Bourellis, Antonio Desideri, da Bianca e Giuseppe Desideri, questi ultimi ideatori nel 1997 de “Il Palio dei Sedili di Napoli” e della manifestazione “Rivive la Napoli dei Sedili” e vede esposte tavole cartografiche relative ai Sedili elaborate dall’arch. Laura Bourellis e fotografie dei luoghi con scatti realizzati fra gli altri dai giornalisti e fotografi Alessandra Desideri, Rossella Marchese e Nicola Massaro e lavori delle scuole, tra cui l’I.S. Guglielmo Marconi di Giugliano in Campania. In mostra anche opere del pittore Claudio Scarano.

Il materiale fotografico-documentale è visitabile in esposizione permanente presso il Museo dei Sedili di Napoli (Associazione Culturale “Napoli è”) ospitato nella Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus.

La mostra permanente è visitabile dal lunedì al venerdì dalle ore 10.30 alle ore 13.00 previa prenotazione allo 081/564419 o a mezzo email casadelloscugnizzo@libero.it.

 

Napoli è: “Storie di pietra” incontro con la fotografia

Si terrà martedì 11 febbraio alle ore 10.00 l’incontro con la fotografia negli scatti realizzati tra Castelli di Napoli e Castelli pavesi e La Napoli dei Sedili”, un invito anche a visitare la mostra fotografica permanente con riconoscimento FIAF (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche) dal titolo “Storie di Pietra. Una passeggiata fotografica alla scoperta di gioielli d’arte e cultura: I Castelli, le vie, le strade, i monumenti  di Napoli – La Napoli dei Sedili  – I Castelli pavesi”, organizzata dall’Associazione Culturale “Napoli è” in collaborazione con il Museo dei Sedili di Napoli, l’Associazione Fotografica Frascarolo, l’Istituto Italiano dei Castelli Sezione Campania e la Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus.

La mostra sarà visitabile  presso la Sala espositiva del Centro Studi e Ricerche “Mario Borrelli” della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus in piazzetta San Gennaro a Materdei n. 3, Napoli dal lunedì al venerdì dalle ore 10.30 alle ore 13.00 previa prenotazione telefonica allo 081/5644149 o a mezzo e-mail casadelloscugnizzo@libero.it.

(Foto: Nicola Massaro)

Simonetta Tassinari: S.O.S. Filosofia. Le risposte dei filosofi ai ragazzi per affrontare le emergenze della vita

“S.O.S. Filosofia. Le risposte dei filosofi ai ragazzi per affrontare le emergenze della vita” ne parliamo con l’Autrice Simonetta Tassinari.

In che modo utilizza il pensiero di Platone ed Erich Fromm per offrire consigli su relazioni amorose complesse agli adolescenti?

Platone ed Erich Fromm, tra gli altri, offrono spunti preziosi per riflettere sulle relazioni amorose, soprattutto nel caso degli adolescenti che stanno attraversando il delicato processo di scoperta di sé e degli altri. Platone, nel Simposio, ci presenta un’idea dell’amore come un itinerario di scoperta e conoscenza che evolve dall’amore per il corpo fino alla contemplazione delle idee più elevate e pure. Il suo mito della biga alata illustra perfettamente come l’amore possa unire anima e corpo e rappresenti  una forza che conduce l’individuo verso la perfezione; insieme, l’amore è presentato come un cammino che, per essere compiuto, richiede crescita, comprensione e un equilibrio tra le diverse dimensioni dell’essere umano. Erich Fromm, da parte sua, ci ricorda  che l’amore è un’arte che dev’essere coltivata con impegno e saggezza. Non basta la passione iniziale, occorre imparare ad amare nel tempo, affrontando le difficoltà, costruendo un legame che vada oltre l’apparenza superficiale, imparando a conoscere l’altro e soprattutto a conoscere se stessi, perché solo chi si conosce sa amare davvero.  Entrambi i filosofi, dunque, suggeriscono che un amore sano non sia affatto un’utopia, bensì un obiettivo che si costruisce, passo dopo passo, con intelligenza,  passione… e pazienza.

Quali insegnamenti degli Stoici e di Thomas Hobbes vengono proposti per affrontare situazioni di bullismo scolastico, e come si integrano queste prospettive filosofiche nel contesto moderno?

Hobbes, coerentemente  con la sua visione della natura umana e di quanto espresso  nel Leviatano, suggerirebbe di affidarsi all’autorità per risolvere il problema del bullismo, in quanto solo un potere superiore può garantire ordine e sicurezza. Gli Stoici, invece, come Seneca ed Epitteto, insegnano a non lasciarsi toccare interiormente dagli insulti e dalle ingiustizie, perché ciò che conta non è l’evento in sé, bensì il giudizio che noi diamo su di esso. Nel contesto moderno, questi due approcci si integrano: da un lato è fondamentale che le istituzioni scolastiche e gli adulti intervengano per proteggere i ragazzi, dall’altro è utile fornire agli adolescenti strumenti filosofici e psicologici per rafforzare la loro resilienza interiore.

In che modo Kierkegaard viene utilizzato per persuadere i giovani a valorizzare l’interiorità rispetto all’esteriorità, e quali argomentazioni filosofiche supportano questa posizione?

Kierkegaard, con la distinzione tra vita estetica ed etica, sospinge a riflettere su come la ricerca dell’apparenza e della popolarità possa condurre a una vita superficiale e insoddisfacente. La sua idea dell’“autenticità” come impegno esistenziale mostra agli adolescenti che concentrarsi sull’interiorità, invece di inseguire l’approvazione altrui, porta a una vita più esaminata, profonda, e anche più felice. Inoltre, il concetto dell’“ora della mezzanotte”, quella in cui la maschera cade e ci si trova ad affrontare il vuoto, dovrebbe farci comprendere che la corsa verso la perfezione non ha scopo né fine, e che piuttosto quella che va curata in ogni modo è la personalità. L’identità non si costruisce con l’omologazione, ma con scelte consapevoli.

Come viene presentata la riflessione kantiana sul “diritto di mentire” nel contesto delle decisioni adolescenziali riguardanti la verità e la menzogna?

Kant sostiene che mentire sia sempre moralmente sbagliato, anche in situazioni estreme, perché mina la fiducia alla base della società. Nel contesto adolescenziale, questa posizione viene analizzata attraverso dilemmi quotidiani: è giusto mentire per proteggere un amico? O per evitare una punizione? Le “mezze verità” sono in realtà delle “mezze bugie” , e questo dovrebbe essere il metro di giudizio basilare. Tuttavia Benjamin Constant, sul quale mi soffermo nel libro anche per stemperare il rigorismo kantiano, ci ricorda che, se dicessimo sempre e solo la pura verità, le relazioni umane sarebbero impossibili! Dunque sì al rigorismo come meta e modello, tenendo pur presente che  la realtà è ben più complicata e ricca di sfumature  di una regola assoluta.

In che modo il libro affronta il tema dell’ossessione per l’immagine personale, e quali filosofi vengono citati per discutere l’importanza dell’autenticità rispetto all’apparenza?

L’ossessione per l’immagine viene analizzata attraverso pensatori come David Hume, il quale è piuttosto bonario su questo “vezzo” umano, e poi Kierkegaard, che  con la sua nozione di autenticità, offre una prospettiva utile per aiutare i ragazzi a liberarsi dall’ansia di essere accettati dagli altri e a concentrarsi su ciò che sono veramente, passando per l’immancabile Kant, con la sua definizione di bellezza. Anche Nietzsche è chiamato in causa con i suoi suggerimenti sul “conferire” stile al proprio carattere.

Quali emergenze della vita quotidiana degli adolescenti vengono analizzate nel libro, e come la filosofia offre strumenti per affrontarle?

Il libro affronta problematiche come la felicità, il successo, il bullismo, l’ansia per il futuro, la solitudine, la paura del giudizio, i cambiamenti in famiglia, il rapporto con la natura, i troppi impegni e il non riuscire a gestirli, e così via: per la scelta dei temi  mi sono basata sia sull’osservazione dei miei alunni, che sul dialogo intessuto con loro, ma anche con i bisogni che emergono da incontri come i “Caffè filosofici”, in genere molto partecipati.  In primo luogo, la filosofia, alle persone di ogni età, giovanissimi compresi, insegna a riflettere criticamente sulle proprie emozioni, azioni e decisioni, sviluppando una consapevolezza che consente di prendere distanza dai conflitti interiori e dalle pressioni esterne. Con la filosofia, gli adolescenti imparano a porsi domande fondamentali sulla propria identità, sul significato delle relazioni, sulla libertà individuale e sul proprio ruolo nella società. La filosofia, infine, promuove il valore del dialogo e della ricerca del senso, invitando gli adolescenti a indagare le proprie convinzioni e a metterle in discussione e, nel contempo, a riconoscere che la ricerca di risposte non finirà mai.

In che modo la filosofia viene presentata come una “miniera di spunti” per ridisegnare i problemi quotidiani, e quali metodologie filosofiche vengono suggerite per applicare il ragionamento alle emergenze della vita?

Il libro mostra che la filosofia, più che fornire risposte pronte, insegna a porre le domande giuste. La filosofia è una “miniera di spunti” perché fornisce strumenti di pensiero che permettono di vedere i problemi quotidiani sotto nuove prospettive. Piuttosto che fornire soluzioni immediate e preconfezionate, la filosofia insegna a porre domande, ad analizzare le situazioni con spirito critico e a sviluppare un atteggiamento riflessivo che aiuta a riorganizzare il modo in cui percepiamo le difficoltà. Le metodologie filosofiche suggerite per affrontare le emergenze della vita comprendono ad esempio:  il dubbio e il pensiero critico, che aiutano a non accettare le situazioni in modo passivo, ma a esaminarle in profondità per capirle meglio; il dialogo e l’argomentazione; la ricerca di principi generali, che aiutano a individuare le connessioni tra eventi apparentemente caotici, offrendo una visione più chiara delle situazioni; l’autoconsapevolezza e la riflessione etica, che permettono di comprendere i propri valori e di prendere decisioni meditate anche in momenti di crisi.

Come viene interpretata la citazione di Cicerone “La filosofia ci aiuta nei casi più gravi e sa intervenire nelle più lievi difficoltà” nel contesto del libro?

La citazione viene utilizzata  per mostrare che la filosofia non è solo un sapere astratto, ma uno strumento concreto che aiuta a gestire sia grandi crisi esistenziali sia piccoli problemi quotidiani. In questo senso, la filosofia è una “cassetta degli attrezzi” sempre utile.

In che modo il libro incoraggia i lettori a diventare “amici dei filosofi” per sentirsi più attrezzati interiormente ad affrontare cambiamenti improvvisi, come quelli sperimentati durante la pandemia?

Il libro incoraggia i lettori a diventare “amici dei filosofi” nel senso di avvicinarsi alle loro idee con curiosità, scoprendo che molte delle loro domande e risposte sono ancora attuali e possono aiutare a interpretare la complessità della vita moderna. Durante la pandemia, molti hanno sperimentato ansia, isolamento e un senso di precarietà. La filosofia aiuta a dare significato a questi momenti, insegnando che il cambiamento è una costante dell’esistenza e che affrontarlo coscientemente può renderci più forti. Attraverso il dialogo con il pensiero filosofico, i lettori imparano a sviluppare un atteggiamento più riflessivo e critico, evitando di farsi travolgere dalle paure o dall’ansia del futuro, che, come scrive Epicuro, “non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non nostro”, sicché è possibile governarne quantomeno il pensiero.  In sintesi, il libro suggerisce che essere “amici dei filosofi” non significa solo studiarli, ma lasciarsi ispirare da loro per affrontare i momenti di crisi con maggiore lucidità e determinazione.

Quali sono le principali emergenze adolescenziali trattate nel libro, e quali filosofi vengono chiamati in causa per offrire soluzioni puntuali e concrete?

Le emergenze analizzate includono l’ansia da prestazione, il senso di inadeguatezza, il bullismo, la difficoltà nelle relazioni,  la paura di non riuscire a essere felici, il fatto di non piacersi, di credersi dei “falliti”, di non riuscire ad accettare i cambiamenti, in famiglia e nella vita. Per ognuna di queste, il libro propone un dialogo con i filosofi. Un esempio tra i tanti: nel capitolo relativo ai segreti sono chiamati in causa Bentham e John Stuart Mill, in quello sui cambiamenti Lao- tzu. Il  ventaglio da me utilizzato è molto variegato: in realtà ho “chiamato a raccolta” i  filosofi di tutti i tempi!

Giuseppina Capone

La casa delle donne, il nuovo romanzo di Cinzia Costato

Parliamo con Cinzia Costato del suo secondo romanzo dal significativo titolo “La casa delle donne”.

Nel suo libro protagonista è la figura femminile di Francesca, una giovane psicologa, e la sua storia come crescita, perché questa scelta?

Francesca rappresenta tutte le ragazze che all’improvviso si trovano di fronte alla prima grande transizione sociale, il passaggio dall’infanzia alla vita adulta. Lascia il mondo sereno e ovattato della fanciullezza  per affrontare quello burrascoso dell’adolescenza. Dinanzi lei, a loro, un nuovo mondo, nuove esperienze e nuove conoscenze che delineeranno nel corso del tempo la loro personalità. E poi i contrasti, il bisogno dei propri spazi, della libertà. Da qui la lotta contro l’autorità per affermare la propria identità: la famiglia, come per tutti, sarà la prima a farne le spese.

Francesca, la nostra protagonista, si allontana da casa per fare del bene, per aiutare e capire il prossimo attraverso se stessa.

Ho scelto l’altruismo come messaggio, e Francesca con me, perché credo sia uno dei valori più importanti ma anche quello che in questo momento storico viva un profondo scoramento. Cosa saremmo noi senza “gli altri”? Non è proprio dal confronto con “gli altri” che scopriamo chi siamo? Io ci credo.

La narrazione al femminile, a suo avviso, è stata per lungo tempo appannaggio maschile…

La narrazione femminile è stata a lungo appannaggio degli uomini e questo ha ovviamente creato delle distorsioni; noi donne per prime incappiamo nella difficoltà di raccontarci senza sfociare nella trappola del pregiudizio patriarcale.

Quanto ritiene importante l’ascolto nella società odierna?

Ascoltare significa donare sé stesso, il proprio interesse, il proprio tempo e soprattutto la propria empatia.

Ma quanto è difficile ascoltare!

Per fare ciò bisogna avere una grande riserva di amore e una grande forza di volontà per mettere a tacere il nostro ego.

Purtroppo oggi si crede che nel parlare si dia impressione di autorevolezza ed ecco che propendiamo più a salire in cattedra che a fermarci ad ascoltare cosa ha da dire il nostro interlocutore.

Siamo sempre più concentrati su noi stessi che a manifestare interesse per gli altri

Nel suo romanzo parla dello spirito Ubuntu, quali i collegamenti con la nostra società?

Nella filosofia Ubuntu l’esistenza umana raggiunge il massimo grado quando fa parte di un tutto, “una umanità condivisa” senza la quale la nostra paura ancestrale ci porta a costruire muri.

Un proverbio Swahili dice: se la casa del mio vicino è in fiamme io non posso dormire tranquillo. Ecco la fraternità universale che supera le barriere di status e di genere creando così una famiglia di Nazioni.

Nella visione morale di alcuni di noi la cartina di tornasole della fraternità è accogliere e proteggere i migranti i quali arrivano a noi come un peso e un fastidio anziché un’opportunità di dialogo e di crescita.

Luoghi e paesaggi come entrano nella narrazione della storia di Francesca?

I luoghi geografici sono il Sudafrica, in particolare la capitale Cape Town, primo stato a sancire sulla costituzione i diritti di uguaglianza di genere fra gli uomini e ad approvare il matrimonio gay. Dunque uno stato avanti mille anni luce. La realtà purtroppo è ben diversa questi diritti sono solo inchiostro che imbratta. L’Omofobia dilaga tra la popolazione.

Cape Town appare divisa in due mondi quello dei ricchi, bianchi europei che si riversa sulla lussuosa long street e di contro quello dei nei di diversa etnia che affollano le lunghissime Town ship. Barracopoli senza acqua potabile in cui vivono famiglie con tantissimi figli riversati per le strade a delinquere per sbarcare il lunario. Proprio in questi polverosi tugurio si animano i personaggi del libro, tutte donne povere e omosessuali costrette a combattere con una società che le vuole invisibili.

Bianca Desideri

L’aquilone del gelido vento

Il vento gelido impetuoso

soffia nel cassetto curioso.

Saltano, danzano i ricordi

del tempo oramai passato.

 

L’aquilone è volato con stupore

ha spezzato il filo conduttore.

Ora è libero nel cielo turchino

visto con occhi di un bambino.

 

Viaggia nell’inesplorato infinito,

dove il TUTTO si chiama amore

dall’innocente innamorato cuore.

 

Armando Fusaro

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