Chiara Ricci: Anna Magnani. Racconto d’attrice

Anna Magnani è difficilmente etichettabile o incasellabile.

In quali luoghi della sua anima vanno ricercate le ragioni di un’identità tanto complessa e multiforme?

Anna Magnani è stata molto spesso accusata di avere un brutto carattere. È anche vero, però, che chiunque tenti di farsi rispettare e di far valere le proprie ragioni ottiene questo “risultato”. Anna Magnani ha avuto un’infanzia difficile, è stata lontana da sua mamma e solo da adulta ha scoperto il nome di suo padre (Pietro Del Duce, e a lei non piaceva essere chiamata “la figlia Del Duce” e così, pare, fermò le sue ricerche). È cresciuta con la nonna, le sue zie e lo zio Romano. Sin da piccola ha vissuto l’abbandono e la paura di poter essere lasciata da un momento all’altro ha segnato profondamente il suo carattere e il suo rapporto con gli uomini. Ha sempre cercato di avere il controllo della situazione uscendone molto spesso sconfitta. Ha sempre cercato di poter essere amata. Aveva una vorace fame d’affetto. È stata una donna che ha dovuto lottare per far valere il suo talento, per imporre il suo aspetto fisico, la sua bellezza non canonica. Anna Magnani è stata imprenditrice di se stessa, capofamiglia, donna e uomo di casa occupandosi anche di suo figlio Luca che, ancora bambino, si ammala di poliomielite. Non ha avuto produttori né registi potenti alle spalle pronti, in qualche modo, a tutelarla o difenderla. La vita le ha insegnato forzatamente a cavarsela da sola, ad essere diffidente, a colpire per prima perché, fedele a un proverbio, “chi mena prima mena due volte”. Anna Magnani ha nascosto tutte le sue fragilità dietro la corazza di una donna dal carattere forte, indomabile, impossibile, scostante. In parte è vero, perché sapeva essere anche tutto questo. Per difendersi. Per mettersi di traverso alla mancata professionalità o al solo sentore di ipocrisia. E ancora, per “vendicarsi” e “riscattarsi”, se così si può dire, di quei terribili abbandoni di una bambina con la testa colma di domande senza risposta.

Lei non ricostruisce semplicemente la biografia di Nannarella, pur interessantissima bensì ne traccia la valenza simbolica, estetica e politica.

Quali sono le ragioni che l’hanno indotta a concentrarsi proprio su questo nome?

Io ho “incontrato” per la prima volta Anna Magnani quando avevo circa sei anni. In realtà, ho conosciuto prima il suo nome e poi il suo volto che ho scoperto tempo dopo, quando ho visto per la prima Roma città aperta. Da allora non l’ho più dimenticata. Da ragazzina, dopo aver letto la bellissima biografia di Patrizia Carrano, ho iniziato a scrivere lettere e a telefonare a casa di persone che avevano lavorato con lei, che la conoscevano. Con alcune di queste persone sono nate delle bellissime amicizie: ad esempio, con la stessa Patrizia Carrano, Marcello Gatti, Rinaldo Ricci ovvero lo storico aiuto regista di Luchino Visconti. Il mio unico desiderio era fare qualcosa per “la” Magnani, dedicarle qualcosa di mio. I miei studi e poi la mia tesi di Laurea, tanti progetti, una prima pubblicazione. Ma non era ancora abbastanza. Ho creato un mio archivio personale (che curo da quando avevo tredici anni) contenente fotografie, locandine, riviste.. Ho allestito mostre e poi questo nuovo libro. Un omaggio e un dono a una donna e a un’artista che ammiro, che non si è mai arresa e non si è mai lasciata condizionare. In un certo senso, sono cresciuta con lei e le ho dedicato gran parte della mia vita. Ho voluto raccontare il suo “essere donna” e il suo “essere attrice” con rispetto, onestà e tanta passione. Ho desiderato “incontrare” e “conoscere” questa donna più da vicino, ho scelto di partire dal suo indissolubile amore per il teatro, di avvicinarmi alla sua vita privata, alle sue tante vicissitudini ma restando sempre in punta di piedi.

Dopo le riprese del film “Mamma Roma”, Pasolini commentò così la loro collaborazione: “Anna è romantica, vede la figura nel paesaggio, è come Pierre-Auguste Renoir, io invece sono sulla strada del Masaccio.”

Può interpretare questa sottile asserzione pasoliniana?

La pittura è una costante nel cinema di Pier Paolo Pasolini. La pittura del Masaccio è costruita sui chiaroscuri, sulla staticità, sulla precisa razionalità prospettica, sull’organizzazione geometrica dello spazio. Renoir, invece, è un’esplosione di colori intensi, luminosi, vivi, ma anche di movimento, le sue opere hanno un assetto geometrico che avvolge lo spettatore trascinandolo all’interno della tela. Ecco: questi due piani rappresentano i caratteri e le essenze profonde di Pier Paolo Pasolini e Anna Magnani. Ragione e istinto. Razionalità e impulsività. Proprio da questi opposti sono nate delle incomprensioni durante la lavorazione di Mamma Roma tali da portare Anna Magnani a dichiarare di sentirsi tradita dal suo regista, pur ammirandolo infinitamente. Nonostante questo la meraviglia e la potenza di questo film sono ancora tutte lì, intatte.

Il legame fra Anna Magnani ed il teatro: la “migliore scuola” che le fece “spuntare le ali”

Reputa che l’esperienza teatrale sia stata più intensa e viscerale rispetto alle indimenticabili prove cinematografiche?

Credo che Anna Magnani, come più volte ha dichiarato lei stessa, abbia avuto un amore profondo e assoluto per il teatro. Purtroppo, per sue scelte professionali e personali, lo ha “frequentato” poco preferendogli il cinema. Eppure sono convinta che i primi spettacoli, la rivista durante la Seconda guerra mondiale e poi le lunghe tournée de La lupa e Medea tra il 1965 e il 1966 abbiano lasciato dei segni indelebili nell’attrice. Sì, penso che il contatto diretto con il pubblico, lo studio della voce, la misura del gesto e dei movimenti sul palcoscenico, i riti prima di andare in scena e quelli del “dopo teatro” abbiano regalato ad Anna Magnani delle emozioni intense, uniche e immediate che il cinema, nonostante la sua “riproducibilità”  e la capacità di arrivare a tanta gente nello stesso momento, non è riuscito a darle.

Anna Magnani, forse, era un’intellettuale mancata, non già un’attrice popolaresca bensì un’attrice che tendeva ad essere enormemente funzionale ed intellettuale.

Qual è il suo lascito alle donne del nostro tempo?

Se posso, desidero sottolineare questo: Anna Magnani nonostante i suoi tanti personaggi di popolane, canzonettiste, fruttivendole e il suo carattere, il linguaggio spesso “colorito” era una donna molto colta. Parlava correttamente il francese, aveva acquisito un buon inglese, suonava il pianoforte, era amante della letteratura e dell’arte, sapeva a memoria le ballate del Seicento francese. Per lei hanno scritto Tennessee Williams, Eduardo De Filippo, Pier Paolo Pasolini. È stata ritratta di Renzo Vespignani, Tabet, Anna Salvatore, Carlo Levi… Poteva essere la più snob e la più spontanea delle donne, pronta ad abbandonarsi a quella che lei chiamava la “ruzza”, ovvero il buonumore, la voglia di ridere e di lasciarsi andare all’allegria più sfrenata. Proprio per questo alle donne del nostro tempo ha lasciato in eredità la capacità di essere ciò che si desidera senza mai tradirsi. Ha lasciato la determinazione di poter essere ciò che si vuole senza dover scendere a compromessi. Ha lasciato in eredità la possibilità di poter e dover rompere gli schemi, di non arrendersi all’ipocrisia e a qualsiasi sua manifestazione. E ancora, ci ha lasciato una grande umanità e un immenso talento magistralmente raccontati dalla vasta galleria di donne che ha portato sul grande schermo e in teatro.

 

Chiara Ricci

Nasce a Roma nel 1984. Nel 2008 si laurea in Dams (Discipline delle Arti, Musica e Spettacolo) con una tesi dal titolo Il Teatro davanti alla Macchina da presa – Elementi di teatro nel cinema di Anna Magnani. Nel 2010 consegue la Laurea Magistrale con lode in “Cinema, Televisione and Produzione Multimediale” con una tesi dedicata alla prima regista donna del cinema italiano Elvira Notari la cui riduzione è stata pubblicata negli Stati Uniti. Ha curato e scritto i saggi monografici: Anna Magnani. Vissi d’Arte Vissi d’Amore, Edizioni Sabinae 2009 (con il quale vince il Premio Internazionale Giuseppe Sciacca nella sezione “Saggistica”), Signore & Signori… Alberto Lionello (Ag Book Publishing, 2014), Valeria Moriconi. Femmina e donna del Teatro italiano (Ag Book Publishing, 2015), Il cinema in penombra di Elvira Notari (Lfa Publishing, 2016), Lilla Brignone. Una vita a teatro (Edizioni Sabinae, 2018), Ugo Tognazzi. Ridere è una cosa seria e Monica Vitti (Edizioni Sabinae, 2022). Nel novembre 2022, inoltre, viene pubblicato il saggio d’inchiesta Wilma Montesi. Una storia sbagliata (Golem Edizioni) dedicato alla ricostruzione della tragica e misteriosa morte della giovane ragazza romana trovata senza vita sulla spiaggia di Torvaianica l’11 aprile 1953. Nell’aprile 2017 l’Università degli Studi Roma Tre le conferisce la nomina di “Cultore della materia di Storia del Cinema e di Filmologia”. È Presidente dell’Associazione Culturale “Piazza Navona”, creatrice e ideatrice della Rubrica online “Piazza Navona” (www.riccichiara.com) e del Premio Letterario Nazionale “EquiLibri”. È curatrice di mostre dedicate al cinema con materiale proveniente dal proprio archivio personale e tiene lezioni e conferenze in Italia e all’estero dedicate alla Storia del Cinema e del Teatro.

 

Giuseppina Capone

 

La collina di Posillipo ed il Parco Virgiliano, necessario riqualificarli

 L’ingresso del Parco Virgiliano, situato alla fine del viale Virgilio, presenta un’entrata monumentale,  composta da quattro  pilastri, attraverso  la quale si accede ai viali  che conducono alle  numerose terrazze  dalle quali si  gode la visione del  golfo e  delle sue isole e si accede  all’impianto sportivo realizzato negli anni settanta dello sorso secolo.

L’impianto comprende un campo di calcio, una pista e varie  strutture  per l’Atletica leggera.

Nel 1975 venne realizzato un anfiteatro che si affaccia sul golfo dove furono organizzati concerti e spettacoli estivi.

Per un lungo  periodo il Parco fu abbandonato a se stesso, lasciando che precipitasse in uno stato di estremo degrado.

Nel 1997  l’Amministrazione comunale  decise di riqualificarlo  riaprendolo al pubblico nel luglio del 2002 consentendo esclusivamente l’accesso  pedonale.

La vegetazione, ispirata a quella in uso nelle antiche strade romane, schiera ai lati dei viali dei pini  marini ed altre specie di arbusti quali lecci, olivi, roveri, oltre al denso sottobosco di piante di rosmarino, fillirea e mirto, da  diversi anni soffre della mancanza di una corretta e costante cura e manutenzione.

Nel 2018, dopo una tragedia sfiorata in via Tito Lucrezio Caro, ed anche a  causa della fuoriuscita di radici che danneggiavano il manto stradale, il Comune di Napoli ordinò  il taglio di  numerosi  fusti di pino marino.

Attualmente, dopo la caduta di un pino su un furgone, l’amministrazione comunale  ha  fatto  sapere che non ci sarà, per il  momento, una nuova  piantumazione  di pini, decretando  così la  scomparsa dal panorama di Napoli del simbolo che la rappresentava in tutte le cartoline in giro per il mondo.  Se a tutto questo si aggiunge il crollo di una struttura di legno  realizzata  nei pressi  di un chioschetto, la chiusura  dei servizi igienici, l’interruzione   della  fornitura idrica e la mancanza di attenzione al parco  sottomarino  della Gaiola, non si può che essere rammaricati nel vedere il nostro patrimonio naturale ed archeologico unico  al mondo in uno stato di  tale abbandono.

Alessandra Federico

La collina di Posillipo ed il  Parco  virgiliano

Etimologicamente il nome Posillipo deriva dal greco Pausilypon che significa “tregua dal pericolo”  o “che fa cessare il dolore”, ovvero la bellezza quale antidoto  al dolore.

I primi ad abitare questa collina furono i greci, rapiti dalla sua incantevole bellezza.

Dopo i greci anche i romani furono conquistati dalla sua bellezza e vi costruirono le loro ville dove trascorrevano  le loro vacanze.

La spiaggia è disseminata  di rovine di antiche costruzioni ed in tutta l’area si possono notare tutt’oggi le tracce dei templi della Dea Fortuna, di Mercurio, Venere Leucothea e Mitra, segni  della prosperità degli abitanti del luogo.

Il parco Virgiliano fu realizzato su disposizione dell’alto commissario per la Provincia di  Napoli, durante gli anni  20 ed aperto al  pubblico nel 1931 come parco  Vittoria o della Bellezza.

Il parco è costituito da una serie di terrazze prospicienti il Golfo di Napoli da ove si possono  scorgere le isole di Capri, Procida ed Ischia  e l’isolotto di Nisida.

Si possono scorgere ancora le antiche aperture che ventilavano il tunnel che conduceva alla  residenza di Pubblio Vedio Pollione, a poca distanza dalla Villa Imperiale di Pausilypon  e  ai resti     del teatro del I secolo a. c.

Il parco archeologico scende dalla collina fino a raggiungere il vallone della Gaiola, a cui si accede attraverso la Grotta di Seiano, fatta costruire da Augusto e che mette in comunicazione Coroglio  con la Gaiola.

La cosa più strabiliante è il parco  sommerso, istituito nel 2022 dai Ministeri dell’Ambiente e dei Beni Culturali.

Nelle acque che circondano l’isolotto della Gaiola si estende fino alla baia di Trentaremi, il Parco sommerso che tra l’altro ha una  enorme importanza biologica, poiché, per la complessità dei  fondali e il continuo ricambio di acqua determinato dalle correnti marine, si è permesso l’insediamento  e lo sviluppo di una enorme e variegata  quantità di specie  marine.

Purtroppo  negli ultimi anni   questo prezioso  gioiello non è stato rispettato ed è stato  oggetto di speculazione edilizia e di abbandono da parte delle istituzioni.

Alessandra  Federico

 

 

 

 

La natura e l’uomo

Quando parliamo di natura indichiamo l’ambiente e quindi  tutto il mondo  materiale  che è intorno a noi: un luogo esterno a noi.

In tal modo l’uomo quasi non si considera parte integrale della natura ma la considera solo come qualcosa da utilizzare  per i propri scopi.

Al contrario è proprio per tutelare  noi stessi, che dovremo  considerare la natura  come  l’universo  stesso, ovvero:

sistema totale dei fenomeni fisici e degli esseri viventi, animali vegetali e  minerali, che presentano un ordine, realizzano dei tipi e si formano secondo leggi”.

La parola natura quindi racchiude in sé il concetto stesso di esistenza.

Ma in effetti il concetto di natura è strettamente connesso a quello di ambiente.

Sono ambienti  naturali  i boschi e le foreste, il deserto, le spiagge ed il  mare e gli oceani e tutti gli ambienti che  non sono stati  artefatti dagli uomini.

Quando da nomade e cacciatore-raccoglitore, la specie umana  è divenuta  stanziale, ha iniziato ad apportare modifiche nell’ambiente naturale, per renderlo più idoneo alle proprie necessità, ma ha continuato a rispettare le leggi dell’universo, rapportandosi costantemente a loro, valutando ogni possibile impatto che ogni  innovazioni avrebbe potuto apportare non solo  nel  tempo immediato ma per le  future generazioni.

Questo è il modello di vita che ha consentito all’umanità di progredire nel corso dei millenni in  armonia con la natura.

Durante il medioevo esisteva una concezione  dell’armonia e dell’equilibrio tra l’uomo, la natura e l’universo, che rendeva l’uomo qualcosa di speciale, un tassello unico all’interno di uno straordinario e celestiale mosaico. Questa visione dell’armonia e dell’equilibrio cosmico  proveniente soprattutto dalle filosofie del mondo greco e romano, ha influenzato per secoli  la  mente umana rendendola capace  delle  più alte realizzazioni.

Sull’armonia tra uomo e cosmo.

Giuseppe  Veneziano

Quando  successivamente, ed in particolare  negli ultimi due secoli, le espressioni dell’uomo si sono  distaccate da queste concezioni, e abbandonando il dubbio  metodologico della ricerca  scientifica,  si è accostato alla scienza con lo stesso spirito di fede che aveva verso le divinità, il suo comportamento nei confronti della natura è radicalmente  cambiato.

“nei secoli il fare scienza ha cambiato radicalmente senso. Da una concezione che collocava  le  verità scientifiche in subordine a quelle  religiose si è passato alle più radicali  posizioni libertarie. La società condiziona, quindi, le scelte degli scienziati. Il progresso scientifico, a sua volta ha spesso innescato processi di  cambiamento della società”.

Umberto  Galimberti

L’antropizzazione ha quindi  fatto si che:

In alcune aree dell’ambiente  naturale si  è intervenuti trasformando e  modificando, sfruttando  le risorse  naturali mettendo a repentaglio  la sua  stessa sopravvivenza e quelle delle altre specie viventi”.

Stefania Belmonte. Il giornale dell’ambiente

L’ambiente antropizzato è  il luogo dove viviamo ed è l’insieme  delle condizioni sociali, morali  culturali, storiche ed economiche in cui un individuo vive e che lo definiscono

Alessandra Federico

Intervista a Katya Maugeri autrice del libro “Tutte le cose che ho perso”

Le donne detenute rappresentano appena il 4% dell’intera popolazione carceraria, percentuale esigua.

Emarginate fra gli emarginati: è possibile intravedere nella scarsità numerica la ragione per la quale se ne discute raramente?

La realtà carceraria è sommersa dal pregiudizio, dall’indifferenza collettiva che vede il carcere come una istituzione punitiva pertanto i detenuti e le detenute sono considerati scarti della società.                                                               
Le sette donne intervistate, recluse nel carcere femminile di Rebibbia, protagoniste di storie autobiografiche, non hanno nomi bensì numeri. Perché?

I capitoli sono divisi in “celle” con dei numeri che le rappresentano.

Loro, durante le nostre chiacchierate, mi hanno raccontato di sentirsi identificate in numeri e private della loro identità.

“Lo dovrebbero raccontare tutti che tra quelle mura il tempo smette di esistere”.

Un tempo senza frequenza, senza scansione.

Da quali azioni e pensieri è scandita la quotidianità dietro le sbarre?

È un non-tempo in un non-luogo, in cui si resta sospesi e intrappolati.

Ci sono varie attività che stimolano la creatività delle detenute, ma solo chi realmente ha la forza emotiva di rimettersi in gioco trova in quelle azioni il punto dal quale rinascere. Altre, invece, si abbandonano in pensieri negativi e scelgono azioni estreme.

“Il carcere è un universo parallelo, una realtà intrisa di pensieri disordinati, confusi, dove la stessa identità personale rischia di perdersi.”

Qual è il rapporto delle detenute con la peculiare condizione della genitorialità?

La genitorialità è molto complessa all’interno di un istituto penitenziario.

A soffrirne sono certamente i bambini che, da innocenti, scontano una pena ingiusta.

I bambini non dovrebbero assolutamente vivere dietro le sbarre, dovrebbero vivere da bambini liberi di poter sognare il proprio futuro.

Il 2022 è ricordato come l’anno record dei suicidi in carcere; nei primi sei mesi del 2023 già 25 persone si sono tolte la vita in cella. Qualche giorno fa 3 persone hanno scelto di morire.

Lo Stato non dovrebbe salvaguardare la salute e la libertà personale?

La salute mentale non si cura all’interno di un carcere ma in strutture specializzate, servono percorsi individuali per cercare di recuperare chi vive la detenzione.

I suicidi mostrano una chiara fotografia dei disagi all’interno degli istituti carcerari, sono dati allarmanti, è un’emergenza che non può più essere ignorata.

Il libro-inchiesta è arricchito dalla prefazione del magistrato Francesco Maisto, Garante dei detenuti, dalla postfazione della sociologa Eleonora de Nardis e dal contributo di Sandro Libianchi, Presidente del Coordinamento nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane.

Che senso ha, oggi, l’uso del termine “rieducazione”?

La rieducazione è indispensabile se davvero vogliamo definirci una società civile, umana.

È la finalità della pena e consiste nel creare da parte dello Stato durante l’esecuzione della stessa, le condizioni necessarie affinché il detenuto possa successivamente reinserirsi nella società in modo dignitoso mettendolo poi in condizioni, una volta in libertà, di non commettere nuovi reati

“Il carrellino della felicità”.

Qual è il ruolo e la funzione degli psicofarmaci dietro le sbarre?

Il “carello della felicità” rappresenta il modo che hanno le detenute di sospendere i loro pensieri, le loro ansie.

Sono psicofarmaci prescritti per le loro patologie, non vengono forniti a caso chiaramente. È un modo per anestetizzarsi e allontanare angosce e preoccupazioni.

Dottoressa Maugeri, la narrazione della propria esperienza può assumere una finalità terapeutica?

La scrittura autobiografica è terapeutica, assolutamente. Me ne occupo da diversi anni all’interno di una comunità terapeutica per tossicodipendenti.

Raccontare di sé porta inevitabilmente a conoscere le proprie ombre, gli errori e le origini di questi sbagli. Raccontarsi è un pò come ritrovarsi. E da quel punto iniziare a migliorare, uscire fuori dal tunnel e camminare verso un futuro migliore.

Giuseppina Capone

Nola, alla luce nuovi reperti archeologici

La città di Nola è sempre stata un punto strategico nella Penisola, crocevia di diversi popoli, che hanno lasciato traccia nel centro campano.

Capita sempre più spesso, infatti, che vengano annunciate nuove scoperte, come il caso di qualche giorno fa, quando, in una zona periferica della città, è stato portato alla luce un reperto risalente all’età medioevale, nello specifico i molteplici impianti di calcare per la trasformazione in calce ci possono ricondurre ad un quartiere dell’artigianato.

La datazione è ancora incerta, ma si potrebbero collocare i ritrovamenti nel periodo VI-VII secolo, inoltre, la presenza di statue rappresentanti toghe romane ci fa comprendere come Nola fosse non solo abitata dai Germani, protagonisti dei famosi regni Romano-Barbarici, ma anche da mercanti e artigiani provenienti dall’Impero Romano d’Oriente e quindi di grande spessore.

Non ci dobbiamo meravigliare dinanzi a questa fusione tra due popoli così diversi, infatti Nola era stata un fiore all’occhiello della civiltà romana, insieme a Cuma e Capua, di conseguenza edifici e cultura romana erano ben collocati nella cittadina di Nola, spunto e occasione di erudizione per i “cugini” di Costantinopoli, che nonostante si dovessero confrontare con i rozzi barbari, non perdevano occasione di frequentare Nola e il vicino regno di Napoli per spunto ed erudizione “classica”, mantenendo culturalmente e socialmente viva la città.

Rocco Angri

 

(Foto di Rocco Angri)

Anfiteatro di Nola nuovamente visibile

Nola è un centro ricco di storia, addirittura più antico di Roma, grazie ai resti risalenti all’età del bronzo, al nome di origine etrusca “Hyria” e a quello sannitico “Nuvla” e diventato un vero e proprio punto di riferimento nella penisola durante l’epoca romana.

Parlare della “Festa dei gigli” (classificata come bene immateriale del patrimonio UNESCO) sarebbe limitativo, visto ciò che il territorio nolano ha da offrire, come il famoso “Anfiteatro Laterizio”, risalente al I sec a.C., che misura all’incirca 138×108 m, di cui purtroppo al giorno d’oggi è stato portato alla luce circa un terzo, anche se in questi ultimi mesi il vento sembra star cambiando.

La Soprintendenza dell’Area metropolitana di Napoli, rappresentata dall’arch. Mariano Nuzzo, ha programmato la riqualificazione dell’area dell’anfiteatro, cercando di riportare alla luce l’intera struttura, che magari darà spazio a nuove scoperte, e di aprire al pubblico lo spazio che riguarda anche le mura della città.

L’anfiteatro fu realizzato intorno al 80 a.C. sotto commissione di Silla, che dopo aver conquistato la città di Nola, ordinò una sorta di sviluppo civile e urbanistico, che racchiudeva nel progetto la realizzazione della struttura vicino alle mura della città, di cui ancora oggi possiamo vedere i resti.

Nel corso dei secoli l’anfiteatro subì diverse ristrutturazioni, tra cui una in cui si sostituirono le mura precedenti con delle nuove in tufo, più resistenti, che intorno al XV sec furono usate per la realizzazione della facciata di Palazzo Orsini.

Disponiamo anche di alcune testimonianze scritte, prima tra tutte quella di Ambrogio Leone nel suo “De Nola”, nel 1514 e altre fonti minori aragonesi che ci parlano della maestosità dell’anfiteatro, ed infine lo storico polacco Karl Beloch, amante di Napoli e dintorni, parla dell’anfiteatro come opera che sta andando a deteriorarsi, infatti era visibile ben poco, visto l’innalzamento del terreno e la poca attenzione che veniva data all’area.

Nel 1993 finalmente gli scavi hanno portato alla luce una piccola parte dell’anfiteatro, ma ci auguriamo che i lavori avviati dalla Soprintendenza, che dovrebbero terminare il 25/12/2023 diano ottimi risultati, conferendo a Nola un ulteriore motivo di vanto e sperando che nuovi elementi possano far tornare un flusso turistico per ammirare i resti dell’antica civiltà romana.

Rocco Angri

Claudio Scarano, un artista che ama definirsi “modestamente pittore”

Modestamente pittore, così si definisce Claudio Scarano , versatile e pluripremiato artista, considerato dalla critica come “l’ultimo pittore della Scuola di Posillipo”, l’ultimo pittore dell’800 napoletano.

Guardare le opere di Scarano porta a scoprire luoghi noti e meno noti che attraverso le sue pennellate diventano vera e propria emozione che si trasferisce nel soggetto della sua opera pittorica. E così, pennellata dopo pennellata, le immagini prendono corpo e i colori attraverso le loro combinazioni e ombreggiature costruiscono visioni e prospettive mettendo in risalto la sua abilità tecnica e la sua capacità di combinare insieme, in un mix vincente, colore ed emozione dando alla pittura quella “voce” propria che ne fa l’opera identificativa dell’autore.

Claudio Scarano nella sua lunga carriera artistica ha al suo attivo mostre personali e collettive in Italia e all’estero (New York, Londra, Francia), numerosi premi e riconoscimenti nazionali ed internazionali, riconoscimenti da critici e stampa. Tra i riconoscimenti internazionali che Scarano ritiene particolarmente significativi vi è l’Oscar Mondiale della pittura a Montecarlo.

Alcune sue opere sono esposte in via permanente nel Museo dei Sedili di Napoli presso la Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus.

La sua abilità artistica si rivela sia nelle opere realizzate in studio sia in quelle in “estemporanea” dove le pennellate conservano tutta la loro forza e valore. I suoi quadri e la sua carriera travalicano il suo definirsi semplicemente come “modestamente pittore”.

Antonio Desideri

Un Fotoit ricco di storie

La rivista FOTOIT della FIAF Federazione Italiana delle Associazioni Fotografiche nel numero di luglio-agosto 2023 propone una interessante carrellata di articoli di approfondimento sul 75mo Congresso Nazionale della Federazione tenutosi a Caorle e su alcuni protagonisti della fotografia contemporanea. Fra questi Ugo Mulas, Gea Casolaro,  Helmut Newton, Fabio Magara,  Riccardo Varini, Toti Clemente, Christian Velcich.

Un saggio di Filippo Venturi è dedicato all’Intelligenza Artificiale che “ha travolto le nostre vite come uno tsunami all’inizio di questo2023”. La rubrica Periscopio propone alcune mostre  i giro per l’Italia e spazio è anche dedicato alle iniziative dei Club affiliati alla FIAF.

Una rivista fotografica ricca di interessanti spunti di approfondimento per gli appassionati di fotografia e per coloro che sono agli inizi di questa forma d’arte.

Antonio Desideri

Discorsi sulla bellezza

La bellezza è soggettiva. La bellezza è oggettiva.

È possibile discutere obiettivamente circa la Bellezza senza essere influenzati dal proprio senso e gusto?

Nella raccolta di saggi “Discorsi sulla Bellezza” edito da Pensa, io e i coautori, esperti in discipline molto diverse tra loro dall’arte alla letteratura, dalla filologia classica alla filosofia, dalla musicologia alla sociologia, dalla teologia alla psicologia, abbiamo indagato approfonditamente il tema della bellezza nel tentativo di afferrare l’inafferrabile. Bellezza oggettiva o soggettiva? Il libro porta alla luce alcuni criteri eterni di bellezza – riferibili ad esempio alla sezione aurea, rapporto armonico presente in natura, nelle arti figurative e in matematica – ma indaga, al tempo stesso, il ruolo assunto dalle emozioni nell’attribuzione soggettiva di valore estetico ad un’opera d’arte, ad uno stimolo, dando origine, in alcuni casi, a sintomi psicosomatici transitori, la nota “Sindrome di Stendhal” con estasi e paralisi contemplativa.

Il bello per Aristotele e Platone è il “Vero”. Nell’età moderna, Vico afferma un altro criterio, secondo cui il “vero” è il “fatto” (verum – factum).

Unificando questi due criteri si ricava la forma occidentale della bellezza?

Imbrigliare il segreto della bellezza in dogmi occidentali, orientali, in regole, criteri… è operazione, secondo me, destinata a perdere. Il mio tentativo è stato ed è, viceversa, di aprire e non di chiudere a punti di vista differenti che possano far luce sulle implicazioni eterne del contagio positivo della bellezza.

Oggi, l’opera d’arte è intellettualizzata: l’opera d’arte è “operazione” sul corpo

dell’arte; si fa meta-arte ed in molteplici correnti si traduce in una discesa agli inferi dei materiali dell’arte.

Cosa ne pensa dell’arte che si congiunge con il residuale, con l’immondizia?

Sono cauta nell’esprimermi, qui subentrano suggestioni personali non essendo esperta d’arte. Sono contagiata dal bello eterno, dalle opere della Natura. L’arte moderna la rispetto, ne comprendo il messaggio ma raramente, a mio avviso, tocca punte di eterna bellezza.

Può commentare l’aforisma di Ernst Jünger: “Il mondo diventa sempre più brutto e si riempie di musei”?

Le brutture del mondo credo ci siano sempre state, siamo solo più coinvolti da una rete che ci informa in tempo reale. La bellezza non trovo sia chiusa nei musei anzi apprezzo molto i musei che custodiscono e si prendono cura delle opere che altrimenti andrebbero in rovina. Una nota negativa è nella fruizione, ridotta nei tempi e accelerata nei ritmi, molto spesso pari a quelli di una catena di montaggio. Occorrerebbe maggiore rispetto e la ricaduta, anche a livello culturale, sarebbe sicuramente positiva.

L’educazione e la cultura possono costituire una soluzione eroica per contrastare la volgarità, il pressapochismo ed aprirsi all’invisibile?

La chiave è proprio questa: educazione al gusto, ai sentimenti, al bello.

Il contagio della bellezza è tangibile: amministro da anni un gruppo Facebook “Arte Bellezza Conoscenza” in cui le volgarità sono pari a zero e il bello mostra il suo benefico effetto quotidianamente su comportamenti, pensieri, proposte. In chiusura di questa intervista mi permetto di allegare un mio breve testo tratto dal libro di prosa poetica “Lettere dalle nuvole” esemplificativo delle ricadute positive della bellezza.

 

E se l’antidoto alla rabbia fosse la bellezza?

Chi avrebbe mai moti aggressivi e violenti

se educato dall’infanzia alla grazia e alla gentilezza.

 

La bellezza gratifica e seda la rabbia

dona pace agli animi, nutrendoli.

 

Non una mera promessa

che se non mantenuta alimenterebbe frustrazioni e malcontento

ma esperienza di ricerca e cura del bello in tutte le forme

che il nostro generoso mondo possiede e dona.

Stefania Aurigemma vive a Roma, è psicologa del Lavoro e delle Organizzazioni, specializzata in Formazione Formatori, esperta in Gestione Integrata della Qualità. Ha svolto attività di consulenza nell’ambito della Formazione Manageriale e della Gestione delle Risorse Umane presso primarie aziende nazionali, enti pubblici e Organismi di Certificazione. È autrice di numerose pubblicazioni in tema comportamenti organizzativi efficaci ed ha curato volumi sulla Qualità della Formazione tra cui Formazione innovativa per la qualità – Metodologie, strumenti ed esperienze, Nuovo Studio Tecna, 1999; Formazione nella sanità come strategia di cambiamento, (con Rita Pomposini), Nuovo Studio Tecna, 1999; Qualità e fattore umano (con Massimiliano Galli), Nuovo Studio Tecna, 1999. Recentemente ha orientato i propri interessi verso la psicologia del profondo ad orientamento junghiano. È autrice dei libri di prosa poetica Lettere dalle Nuvole, L’Inedito Edizioni (2018) e I tempi dell’anima, Luca Pensa Editore (2019), curatrice delle raccolte di saggi Autenticità, Pensa Editore (2021), e Discorsi sulla bellezza, Pensa Editore (2023).

Giuseppina Capone

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