Giulia Caminito: Mitiche. Storie di donne della mitologia greca

«Antigone guardò lo zio e pensò al padre, alla madre, ai fratelli che aveva perduto, alle lacrime, ai viaggi, alle armi, ai tradimenti e seppe che lei non avrebbe fatto ancora torto alla sua famiglia, ignorando il corpo di Polinice. Lei non si sarebbe arresa.» Antigone come Medea, Penelope, Arianna, Circe. Perché ha dato loro voce?

L’idea del libro è quella di raccontare alcune donne dei poemi, delle tragedie del mito attraverso le loro vicende, le loro personalità, le gioie, gli errori. Ho quindi cercato notizie sulla loro infanzia, ho immaginato i sentimenti e i pensieri, le scelte, per scrivere le stesse storie, a noi molto care e familiari, da altri punti di vista. Così ho provato a narrare le case grandi come labirinti, i tuffi nel mare, l’amore per le stoffe, il desiderio di riconoscimento, la voglia di rottura e di sangue.

Tra le “mitiche” campeggia Pandora, donna malvagia, perché sarà lei per la sua incontrollabile curiosità a diffondere livore, conflitto, malanno, decesso, aprendo il celebre vaso sigillato da Giove. Il mito ha contribuito alla misoginia?

In realtà la Pandora che racconto io non è affatto malvagia ma curiosa, sveglia, interessata al mondo che la circonda, ed è proprio per questi motivi che decide di aprire il vaso, di capire cosa contiene. Credo che sia evidente come nel racconto di Adamo ed Eva che storicamente e simbolicamente la colpa è stata attribuita alle donne per aver rovinato l’idillio attraverso i loro gesti e le loro scelte. Penso quindi che ci sia della misoginia già implicita in molti miti e in molte parabole bibliche, queste di certo hanno anche contribuito a rinforzarla.

Penelope è nota per la devozione verso il marito e lo spirito di sopportazione nella lunga attesa di Odisseo. Durante il giorno filava la sua tela e, durante la notte, la sfilava per arrestare la prepotenza dei Proci occupanti la reggia di Itaca e pressanti affinchè scegliesse fra loro un nuovo sposo. Le domando se, in realtà, il suo inganno non fosse volto a proteggere il regno, il cui legittimo erede era il figlio Telemaco.

Nel racconto io ho dato questa interpretazione, certo Penelope resta simbolo di fedeltà, di pazienza e di devozione, ma non soltanto nei confronti di Ulisse, suo marito, ma anche rispetto a Itaca, al suo regno e al futuro di suo figlio. Penso che questi vari aspetti possano far rileggere la sua figura in modo diverso e provare a mettere in luce la sua forza autonoma, il suo ruolo chiave insieme ma anche a prescindere dal suo celebre compagno di vita.

La visione delle donne della mitologia greca è sistematicamente monodimensionale, sovente intrisa di cliché e venata di maschilismo. Omero, ad esempio, rende le figure funzionali al percorso umano, emotivo, emozionale maschile. Lei, invece, dà loro voce; le rende protagoniste, mutando la prospettiva circa il genere. Perché?

Stiamo assistendo a un movimento di riscoperta del ruolo delle donne nella storia, nella letteratura, nella mitologia, nella scienza eccetera, ognuna di noi prova a raccontare qualcosa in più, aggiungere un tassello da far leggere anche a bambine e bambini. Speriamo possa servire a farsi sempre più domande sulle donne e come sono state raccontate in passato, per continuare a tessere le fila dei miti, non lasciarli cementificarsi ma insistere nell’interpretazione, nella ricerca di nuovi significati, adatti ai nuovi tempi, alle nuove storie che vogliamo raccontare.

Euripide rende Medea una feroce ed impetuosa assassina ma anche una protagonista da palcoscenico. Eppure la realtà muliebre era davvero differente. Quali sono le possibili ragioni della discrepanza tra finzione letteraria e concretezza del reale vissuto?

La letteratura crea per forza una discrepanza, un altrove, una imitazione, un superamento o una diminuzione rispetto al reale, le ragioni stanno nella forma letteraria stessa, che può essere simbolica, allegorica, rispondere allo spirito del suo tempo, anticipare la storia, plasmarla. Sulle donne hanno pesato per molto tempo le parole maschili, la loro rappresentazione considerata più autorevole, il protagonismo storico e letterario degli uomini, quindi nel caso delle donne la discrepanza è per forza maggiore, le donne raccontate difficilmente, fino ai tempi contemporanei almeno, sono state molto in contatto con le donne viventi.

“Dobbiamo insegnare alle donne a farsi valere, ad apprezzare se stesse, a divertirsi e ad ingannarci”. Il messaggio di Montaigne è rimasto inascoltato?

Io ho amato molto Montaigne, resta per me un maestro senza pari. Credo che nulla è inascoltato, stiamo ancora costruendo, siamo in cammino, molte cose cambiano, molte cose ancora devono cambiare, le esigenze si fanno nuove, bisogna conservare le conquiste passate, bisogna continuare a divertirsi e a ingannare.

 

Giulia Caminito si è laureata in Filosofia politica. Ha esordito con il romanzo “La Grande A” (Giunti 2016) e nel 2019 è uscito il suo secondo romanzo “Un giorno verrà” (Bompiani). Nel 2020 ha pubblicato per La Nuova Frontiera Junior il libro “Mitiche, storie di donne della mitologia greca” con i disegni di Daniela Tieni.

Giuseppina Capone

Pierre Balmain, lo stilista di moda francese

Pierre Alexandre Claudius Balmain è stato uno stilista francese e fondatore della casa di moda Balmain, nato  in Francia a San Giovanni di Moriana il 18 maggio del 1914.

La passione per la moda e per il designer, per Pierre Balmain, nacque quando era molto giovane e, infatti, non portò a termine gli studi all’accademia di belle arti per dedicarsi completamente alla moda. Cosicché, il giovane apprendista stilista di moda, poco dopo aver abbandonato l’università, nel 1934, iniziò a lavorare per lo stilista britannico Edward Molyneux fino al 1939. Con la fine della prima guerra mondiale Pierre ebbe una grande opportunità; lavorò come stilista presso una delle case di moda più prestigiose di quel tempo, la Maison Lelong di Lucien Lelong. Pierre Balmain, però, non sentiva di esprimere a pieno la sua creatività poiché la casa di moda Lelong era poco concentrata sul lato artistico, quanto più sull’aspetto commerciale e quindi dopo pochi mesi si licenziò, nonostante la popolarità che stava acquisendo grazie all’eccellente lavoro svolto come designer all’interno della maison. Da lì a poco riuscì finalmente ad aprire una sua piccola boutique a Aix-Les Bains.

Nel 1945, dopo la seconda guerra mondiale, lo stilista riuscì a dare vita al suo brand e aprì il primo negozio in rue Francois a Parigi. L’intera Parigi, da quel momento in poi parlava dei meravigliosi abiti di Balmain. Il suo stile era caratterizzato da linee sottili, eleganti e raffinate e riusciva a dare ai suoi abiti un tocco di classe indipendentemente dalla stoffa che utilizzava, riuscendo a renderli tutti ugualmente originali.

La fama e la popolarità per lo stilista francese arrivarono fino ad Hollywood dove disegnò e realizzò abiti per film cult, dopo aver conquistato la duchessa di Kent, l’attrice Helena Rubinstein e Simone Simon, progettando e realizzando per loro meravigliosi abiti accontentando a pieno le loro richieste ed aspettative. Anche dive internazionali come Grace Kelly oramai vestivano Balmain. In quel periodo, Pierre, fu anche il designer delle uniformi delle hostess della Singapore Airlines.

Nel 1947, Balmain, iniziò a produrre i suoi primi profumi; Vent Vert, che fu una delle fragranze più amate e vendute negli anni quaranta e cinquanta. Ancora, nel 1953 produsse un altro profumo che chiamò Jolie Madame, nel 1979 Ivoire e nel 2006 Eau d’Amazonie. Balmain, vinse il Drama Desk Award e fu nominato ai Tony Award come miglior costumista per i migliori costumi di scena realizzati per il musical Happy New Year nel 1980. Ma, prima ancora, nel 1960, progettò l’abito per Sophia Loren per il film La miliardaria. Tra gli anni cinquanta e sessanta, il brand Balmain era riconosciuto in tutto il mondo e lo stilista continuava a collaborare nel settore del cinema, vestendo attrici come Vivien Leigh, Mae West e Brigitte Bardot e Dalida. Dal 1948 fino al 1991 Erik Mortensen (designer danese) fu lo stilista della maison Balmain e compagno di vita di Pierre. Pierre Balmain morì per un tumore al fegato il 29 giugno del 1982, a 68 anni.

Alessandra Federico

La mostra sull’Impressionismo a Sorrento

La mostra dedicata al movimento impressionista è in esposizione dal primo giugno fino al due ottobre 2022 a Villa Fiorentino, a Sorrento. La mostra presenta 130 opere di collezioni private tra cui ceramiche, disegni, lavori grafici, incisioni, dipinti, citazioni di grandi artisti dell’impressionismo e  libri, insomma, tutto ciò che serve per descrivere con precisione un periodo che ha contribuito alla formazione della storia dell’arte. Anche la pittura napoletana ha subito una forte influenza dell’impressionismo e, proprio per questo, durante la mostra, si potranno ammirare anche diverse opere di celebri maestri campani e non solo, verrà trasmesso un video con immagini di artisti come Renoir, Monet e Degas mentre realizzano i loro affreschi.

“L’estate di Villa Fiorentino si apre con un tema di respiro internazionale coerente con il livello di proposta della città di Sorrento. La mostra sul Movimento dell’Impressionismo inaugura anche l’amministrazione del nuovo di CdA ponendosi in continuità con l’operato del precedente di cui desidero ringraziare particolarmente l’avv.to Gaetano Milano. L’abbinamento di turismo balneare, ambientale, enogastronomico, culturale orientato alla sostenibilità è la chiave di volta per una strategia di promozione vincente. L’aver previsto anche una sezione legata al territorio regionale esprime infine uno dei nostri punti di attenzione verso Napoli, la Regione Campania e la Costiera Sorrentino Amalfitana, uno dei grandi luoghi pittorici d’Europa (Paolo Ricci), ovvero di territori vocati per la open air painting.” Dichiara l’Amministratore Delegato Alfonso Iaccarino. “E’ importante comprendere che l’Impressionismo non annovera solo nomi come Monet, Degas, Renoir o Manet ma esistono almeno una sessantina di artisti che parteciparono alle Grandi Mostre del movimento, e che sono in parte mai apparsi in Italia.

La mostra, come dice il titolo, intende accompagnare i visitatori in un viaggio attraverso colori, luci, paesaggi, ritratti ma anche tutte le tecniche utilizzate e sperimentate dai maestri dell’Impressionismo.”. Aggiunge il curatore Vincenzo Sanfo. Difatti, l’intento di questa esposizione è dare la possibilità allo spettatore di venire a conoscenza di tanti altri artisti impressionisti: Vignon, Levert, Laurent, Dorè, Somm, Astruc, Forain, Braquemond, Leopold, Lepic, Morisot, Groenuette, Biva, Troyon, Chappel, Vidal, Lecomte Jonkind, La Touche, Permeke, Cahours, Hauchecorne, Verheiden, Godfrinon, Northcote, Verheyden. Ma non solo, perché lo scopo di questa mostra è, anche, quello di far vivere intensamente e totalmente il periodo impressionista all’osservatore; una effettiva lezione per trasmettere e far apprendere in modo rapido ed efficace tutto il momento dell’impressionismo, dal preimpressionismo fino al postimpressionismo.

Basato su una nuova concezione del colore e della luce, l’Impressionismo, è soprattutto una riproduzione del vero: il disegno dal vero, infatti, è una delle principali  tecniche utilizzate il quel periodo per raffigurare panorami, paesaggi, ritratti di persone, spettacoli, territori, ambienti e tutto ciò che si poteva rappresentare attraverso un dipinto.

Louis Leroy era un critico d’arte e, l’espressione impressionismo, nacque proprio dal giudizio di quest’ultimo nei confronti di un quadro di Monet: “Impression. Soleil Levant”. Secondo il critico, il dipinto di Monet dava un senso di incompiutezza, motivo per cui lo definì, appunto, solo un’impressione. Da lì a poco, nacque il gruppo degli impressionisti formato da giovani artisti che, spinti dalla grande voglia di emergere, organizzarono mostre indipendenti per esporre le loro prime opere, (1874) presso lo studio fotografico Nadar a Parigi. Durante questa mostra a Parigi vennero esposte opere di diversi 30 artisti come Claude Monet, Camille Pissaro, Alfred Sisley, Edgar Degas, Paul Cézanne, Berthe Morisot, Auguste Renoir  e tanti altri.  Ma, per un periodo, i critici, il pubblico e la stampa non fecero altro che criticare gli impressionisti, fino a quando Gustavo Caillebotte (collezionista) offrì loro il suo sostegno dandogli la possibilità di realizzare le loro prime mostre.

Alessandra Federico

Giovanna Cristina Vivinetto: Dolore minimo

 Quando nacqui mia madre / mi fece un dono antichissimo. / Il dono dell’indovino Tiresia: /mutare sesso una volta nella vita.

Dolore minimo” è un diario in versi, una dolcissima raccolta in cui la poesia si fa dispositivo d’esistenza e ci pone in grado di renderci gioiosi, allegri, sofferenti, mutando i mali più intimi in astri scintillanti ed in luminosi pensieri appaganti. La poesia come volano di profondi contenuti sociali, esistenziali ed umani. 

Qual è la ragione che l’ha indotta a scegliere il versificare per dar voce al suo vissuto?

Sin dall’adolescenza sono sempre stata affascinata dal mezzo poetico per la sua capacità di condensare significati profondissimi, spesso dirompenti e necessari, in uno spazio limitato, fatto anche di pochi versi. Per questo motivo, per la sua intrinseca essenzialità, nella stesura di Dolore minimo mi è venuto naturale utilizzare la poesia, perché con essa mi è stato più semplice arrivare al cuore della “questione”, centrare con efficacia l’obiettivo che mi ero prefissata. La transizione mi ha dato la possibilità di riflettere molto e a lungo sulla scrittura poetica, e lo stesso vale per il contrario: la poesia è stata per molti versi quasi una forma di “psicoterapia della parola scritta”, permettendomi di capire e dare un valore aggiunto all’esperienza di vita che mi son trovata ad affrontare. Oggi si parla della poesia come “bene inutile”, “non necessario”; e invece, anche con la testimonianza racchiusa in Dolore minimo, voglio ribadire esattamente il contrario: l’assoluta necessità della poesia come mezzo che, oggi più che mai, si fa interprete (e, talvolta, risolutore) in sommo grado dei conflitti del reale.

La raccolta è divisa in tre sezioni, Cespugli d’infanziaLa traccia del passaggio e Dolore minimo. Nella prima sezione si leggono liriche su una fanciullezza spesa a Siracusa tra una forma di religiosità cupa, zeppa di tabù e la tenerezza d’una madre sempre tesa a profundere dolcezza e compassione.

Può fornirci la chiave di lettura di parole come “Nella quiete di quelle strade la malattia giunse d’agosto. Travolse le madonne e gli occhielli…” ma anche di “La prima scoperta furono le mani”?

Le poesie a cui fai riferimento fanno parte della prima sezione, in cui la consapevolezza di “essere in un certo modo” viene reinterpretata alla luce dei ricordi e delle movenze dell’infanzia. La prima citazione è collegata a due elementi caratterizzanti il “dramma” della transizione e di per sé antitetici (eppure poi conciliati nella chiusa della poesia a cui ti riferisci): quello della “malattia”, cioè della “scoperta” della disforia di genere, quindi di una diversità assoluta e spaventosa, e quello di una fede ancestrale tipica di molti piccoli paesi del Sud e di per sé indiscutibile, quasi cieca a manifestazioni “altre” che avvengono nella stessa immobile circoscritta realtà. La seconda citazione fa riferimento a un ciclo di tre poesie in cui centrale è il processo di perdita e di scoperta: come se la raggiunta contezza della transessualità avesse fatto perdere qualcosa ma, al tempo stesso, scoprir qualcos’altro di nuovo (ma che in realtà già c’era) e di profondamente unico e prezioso. La transizione, insomma, come processo intimo e fondamentale di “messa a fuoco” dell’esistenza in tutta la sua complessità.

Lei ci insegna come il corpo “Transessuale”(il cui simbolo è la pillola “Quella che serve a riempire i fianchi, abbozzare i seni…”) sia un corpo di singolare incanto; un corpo che riproduce la compiuta evoluzione e realizzazione del corpo femminile e che decreterà la “fine” di Giovanni.

La transizione, si deduce dai versi, ha lasciato delle ferite. Lei quale balsamo ha adoperato per curarle?

Sicuramente d’aiuto mi è stata in generale la mia famiglia, essenziale nel supporto a questo nuovo percorso di vita che mi sono trovata a intraprendere. È grazie all’amore dei miei parenti, alla loro intelligenza e alla loro sensibilità che oggi io sono una donna serena. Avere alle spalle una famiglia che accetta e ama senza riserve è importantissimo, fondamentale. E questo vale indubbiamente per tutti, ma soprattutto per le persone transessuali, socialmente più fragili ed esposte. All’affetto di chi ti sta vicino va poi ad aggiungersi il potere “terapeutico” della letteratura e della scrittura. Esse, infatti, hanno costituito per me quel mezzo che permette di ricucire gli strappi, conciliare le contraddizioni, interpretare in sommo grado, sublimandole, le ambiguità del reale. La poesia è stata l’occasione per scendere a patti con una me che non riuscivo a capire in pieno  o meglio che credevo di capire ma, in verità, non conoscevo affatto. Nel momento in cui ho nominato quel “male” in poesia, esso ha cessato di essere “male”: nella chiusa dell’ultima poesia della prima sezione scrivo che “…quel mostro che in tanti anni / avevo allontanato, fu assai più / docile quando, abolite le catene, / lo presi in fine per mano”. La poesia concede questo miracolo.

Una parte considerevole dell’ultima sezione è occupata dai ricordi, tra cui si stagliano anche quelli di una sessualità schiavizzata ed oltraggiata. Il sesso sembra profilarsi come un’ombra scura.

Come ha valicato il filo spinato di un ricordo che appare come motivo di turbamento?

Attraverso il distanziamento che solo il tempo può dare. La distanza dagli eventi inevitabilmente comporta una loro sublimazione e, di conseguenza, una focalizzazione maggiore e certamente più oggettiva nel momento in cui si decide di parlarne o scriverne. Per questo motivo, ad esempio, la storia narrata in Dolore minimo non è stata scritta “a caldo” bensì a distanza di diversi anni proprio perché, come dicevo, solamente la durata del tempo consente di “raffreddare” (e accettare consapevolmente) tutte quelle cose che magari sul momento ci sconvolgevano a tal punto da non riuscire ad esternarle in alcun modo.

Ovidio, Tiresia, Kafka, Ermafrodito, Ifi, Ceni narrano o sono essi stessi casi di “metamorfosi” che minano e demoliscono ciò che è la certezza, l’edificio stabile su cui si accomodano gli esseri umani.

La precarietà e lo spaesamento su cui c’invita a riflettere le hanno procurato critiche asperrime. Lei è giovanissima. Come ha reagito?

Immediatamente dopo la pubblicazione di Dolore minimo, ho iniziato a ricevere alcuni attacchi personali. A rivolgermeli, gli esponenti della pagina Facebook “Pro Vita Onlus”, i quali, considerando la transessualità il “vuoto assoluto”, hanno a più riprese sostenuto che l’autrice di questo libro avrebbe fatto meglio a curarsi invece di diffondere un simile male spacciandolo come una cosa “normale”. I social, purtroppo, sono un’arma a doppio taglio. Se, infatti, da un lato consentono il confronto e la diffusione di idee positive, dall’altro lato – e il più delle volte, purtroppo – al confronto subentra lo scontro, fatto di ignoranza, pregiudizio e analfabetismo funzionale. Una delle soluzioni, allora, potrebbe essere proprio questa: far sì che la letteratura inizi a permeare anche il mondo virtuale dei social, facendo propria una missione civile e culturale finalizzata in primis ad abbattere questi muri invisibili costruiti sull’odio, sull’intolleranza e sulla mancanza di rispetto per tutto ciò che è percepito come “diverso” e “minaccioso”. Personalmente sono molto attiva sui social anche per questo: dimostrare che la transessualità può essere una cosa “normale” come tante altre e verso cui è totalmente illogico provare “paura”. Infatti, poco dopo l’attacco dei “Pro Vita”, le conseguenze delle loro azioni non sono tardate ad arrivare: nel giro di qualche ora il libro è andato esaurito su tutti gli e-commerce, arrivando ad una seconda edizione in pochissimi giorni. La mia risposta all’odio, dunque? L’amore per la vita.

 

Giovanna Cristina Vivinetto è nata a Siracusa il 6 febbraio 1994. Laureata in Lettere moderne, vive attualmente a Roma, dove si è specializzata in Filologia moderna all’Università “La Sapienza”. Sue poesie sono state pubblicate sulla rivista Atelier (n°86) e in rete, su Poetarum Silva, Atelier online, Pioggia Obliqua, Patria Letteratura, Carteggi Letterari, Poesia di Luigia Sorrentino, La Tigre di Carta, Nuovi Argomenti, Le Parole e Le Cose, Nazione Indiana, e diversi altri siti e blog. Dolore minimo è la sua opera prima, pubblicata nel maggio 2018 per l’editore Interlinea. Con prefazione di Dacia Maraini e postfazione di Alessandro Fo, il libro è apparso ed è stato recensito sulle maggiori testate giornalistiche nazionali, tra cui «Il Fatto Quotidiano», «La Repubblica», «La Stampa», «Il Messaggero», «Il manifesto», «Il Sole 24 ORE», «Panorama», «Il Corriere della Sera», «La Sicilia», «Cosmopolitan», «Confidenze» e altri; in televisione su Rai Uno all’interno del programma “Il Caffè di Rai Uno”, a cura di Yari Selvetella. Una selezione di testi inediti, introdotti da una nota di Alberto Bertoni, è inclusa nel Quattordicesimo Quaderno di Poesia Contemporanea (Marcos y Marcos, marzo 2019).

Giuseppina Capone

 

Uomo greco e commensalità

L’uomo greco è un animale sociale perché piegato ad una gerarchia morale che pone sotto silenzio la sfera emotiva in ragione dell’ossequio a forme aggregative fortemente normate. La commensalità stessa è istituzionalizzata secondo regole e protocolli lontani dal piacere della tavola.

L’uomo greco è un animale sociale? E’ partorito con dolore dalla polis?

Aristotele nella Politica sostiene che sia naturalmente politico. Tale nota ed abusata definizione percepisce l’uomo piegato ad una gerarchia morale privilegiante il pensiero sulle emozioni, subordinante le urgenze spirituali, i bisogni familiari, le scosse emotive ad un maggiore ordine politico.

Che si provi ad inseguire un’altra idea: la relazione uomo-società è dinamica.

Non esiste l’uomo greco bensì un uomo che durante le ideali età eroica, agonale, politica e cosmopolita si è espresso in forme di socialità come, tra le altre, la commensalità.

Che si provi a gettare lo sguardo oltre gli schermi della lingua e delle istituzioni. Sediamoci a tavola!

In Grecia i prodotti intensamente pregni di significato sono il vino e la carne; prodotti il cui consumo è deputato ad occasioni speciali  e, soventemente, rituali. Marx, probabilmente, avrebbe riflettuto su una forma di redistribuzione del surplus attuata con la manifestazione della ricchezza, del lusso, del potere, esibite al cospetto degli uomini e finanche degli dei! La carne è mangiata durante le cerimonie religiose in stretto rapporto con il sacrificio in cui l’offerta viene bruciata: l’animale è ucciso, bollito, affinché le carni risultino tenere, quindi mangiato; gli dei vengono omaggiati del profumo delle interiora.

E’ una festa, una circostanza di gioia, di sgravio dalle fatiche del quotidiano. E’ l’atteso straordinario. La comunità può addirittura spalancare le porte agli stranieri! Si beve persino: l’alcool è catartico di irrequietezze sociali e rafforza i legami dei gruppi ristretti. L’alcool come carnevale del tutto lecito, tutto permesso, tutto consentito. L’alcool come potere: mezzo di rigido controllo sociale. Il barbaro ama bere eccessivamente e disordinatamente; il greco diluisce il vino con acqua in un delineato ambiente sociale. Le donne bevono segretamente, smembrano la vittima sacrificale, la dilaniano, la ingoiano ancora cruda.

E’ lampante l’importanza della commensalità ed i Deipnosofisti di Ateneo lo denunciano.

Nei poemi omerici il mondo stesso è strutturato intorno a riti di commensalità: le caratteristiche dell’abitazione di un basilèus eroico sono il mègaron, sala dei banchetti, ed il magazzino, funzionale alla conservazione dell’eccedenza della produzione. Lo status stesso è definito dal cibo, tanto che nell’Iliade si canta “I nostri nobili…/sono grandi uomini, mangiano grasse pecore/e bevono il migliore dei vini…” Achille si rifiuta di partecipare ai riti della commensalità. I Proci li trasgrediscono, violando le norme di reciprocità e competizione. La realtà sociale arcaica è, dunque, connessa alla funzione sociale della guerra ed alla euphrosyne, al piacere.

Gli anni vedranno, poi, la trasformazione del mègaron in andròn e del deipnon in sympòsion: il cibo è separato dalle bevande, si elaborano rituali specializzati destinati a piccoli gruppi, la poesia con accompagnamento musicale diventa centrale. La casa luccica d’armature bronzee ma vino, donne e canto rivelano un differente intendimento d’euphosyne: comodità, raffinatezza, intrattenimento, liberazione della sessualità.

Nel cosiddetto periodo classico il contesto sociale muta e con esso la texture socialità-polis, spesso rintracciata nel “focolare comune” conservato nel prytaneion, luogo precipuo della commensalità pubblica, pasto onorifico di un’élite, onore a cui un membro comune del demos non può aspirare. Per i pasti pubblici lo Stato ateniese aveva un altro centro, questo sì concretamente democratico: 50 pritani al lavoro, contemporaneamente; una cucina ed una sala da pranzo nella Tholos. Dovrebbe essere ragione di attenta meditazione che, oggi, non si disponga d’informazioni dettagliate a proposito di una tal pratica non onorifica di commensalità. Istituzioni locali ufficiali, demi e fratrie acquisiscono progressivamente i propri riti di commensalità. La liturgia dell’hestìasis, i banchetti nuziali e quelli legati alle Apaturie dichiarano un processo di politicizzazione dei costumi sociali basati sul cibo ed un mancante concetto d’individuo che, tuttavia, non è privo di libertà: una libertà d’espressione del sé nella socialità, nella possibilità di scegliere fra una molteplicità di legami sociali. Una “libertà interstiziale”.

Il mondo ellenistico, infine, congiunge l’organizzazione sociale, peculiare della vita di corte delle monarchie ellenistiche, e quella coloniale diffusa dall’Afghanistan all’India, dall’Egitto al Nord Africa. Si mangia insieme, sdraiati, in abbondanza; si beve smodatamente: libertà di parola, liti, zuffe, omicidi, sfacciata ostentazione del tryphè, ovvero del lusso, sfoggio prodigioso di bestie sacrificali, evergetismo a beneficio della comunità. La polis si scopre appartenente ad una più vasta comunità culturale.

Ebbene, l’uomo greco non riuscirà a liberarsi mai dai lacci della socialità, dai vincoli del Noi.

Giuseppina Capone

 

Giordano Bruno protagonista di un incontro a Campagna in occasione della festa de ‘A Chiena 2022

L’Istituto Superiore “Teresa Confalonieri” di Campagna in provincia di Salerno è stato protagonista di un’intensa giornata di formazione dedicata alla figura di Giordano Bruno.

Campagna è nota per la manifestazione dedicata all’acqua che si tiene ogni anno. La festa de ‘A Chiena, di origine antica, si basa sulla “piena”, lo straripamento (voluto) del fiume Tenza che lascia il suo letto naturale e “passa” per le strade della graziosa cittadina, inondandola.

Si svolge dal 10 luglio al 17 agosto ogni sabato e domenica ed alterna eventi con freschi e divertenti appuntamenti. Si svolge tra strade allagate, secchiate, passeggiate e due notti dedicate a ‘A Chiena di Mezzanotte (16 e  17 agosto a mezzanotte). Il programma dei weekend prevede passeggiate o lanci di acqua (secchiate) tra le strade invase dall’acqua, visite guidate al paese e alle valli vicine ed altro.

Perché dedicare una giornata formativa a Giordano Bruno proprio a Campagna? Fu a Campagna che nel 1572 il filosofo celebrò la sua prima messa nella chiesa di San Bartolomeo ed è proprio a Campagna che l’I.I.S. “Teresa Confalonieri” lo ha omaggiato più volte ricordando i punti cardine della sua filosofia, da ultimo il 17 luglio scorso con la giornata, tenutasi nel complesso monumentale S. Bartolomeo – Museo della Memoria e della Pace, dedicata ai docenti dal titolo “Recenti orientamenti della storiografia su Giordano Bruno”.

Dopo i saluti introduttivi del professor Gianpiero Cerone, dirigente scolastico dell’Istituto, e del professor Massimiliano Biscuso per l’Istituto Italiano per gli Sudi Filosofici si è entrati nel pieno della giornata bruniana. A parlare del filosofo arso sul rogo è stato Giulio Gisondi (Università degli Studi di Udine – Università degli Studi di Napoli “Federico II”) con una articolata e coinvolgente relazione sui recenti orientamenti della storiografia bruniana.

Alessandra Desideri

Antonio Lanzaro: Interviste e lettere “fantastiche”

Un nuovo lavoro letterario dal titolo Interviste e lettere “fantastiche” ha visto impegnato in questi mesi Antonio Lanzaro, presidente della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus e già docente universitario. Brillante “penna”, dopo le sue numerose pubblicazioni di carattere scientifico, si è dedicato negli ultimi anni ad una ricca produzione letteraria con la quale affronta fatti della realtà quotidiana di ieri e di oggi e dà libero sfogo alla sua fervida fantasia con racconti di fantascienza.

L’ultimo volume in ordine temporale è, invece, dedicato a uomini illustri che hanno fatto la storia in vari campi. Si tratta di letterati, filosofi, martiri, religiosi, statisti, artisti, poeti, che hanno segnato le loro epoche.

Per parlare di loro e con loro l’Autore utilizza una modalità brillante, quella dell’intervista-colloquio con il personaggio prescelto. Veste i panni del direttore de “Il Gazzettino del Regno” per parlare con Carlo III e ricordare il ruolo di Napoli durante il suo regno e la realizzazione degli splendidi siti ancor oggi vanto della Campania in tutto il mondo. Intervista Dante Alighieri e gli scrive una lettera, così come fa anche con l’illuminista Voltaire. Dedica una bella intervista ad Eleonora Pimentel Fonseca martire della rivoluzione partenopea del 1799. Spazia con i suoi incontri fantastici parlando con Napoleone Bonaparte, Achille Lauro, Salvatore Fergola, Salvator Rosa e corrispondendo epistolarmente con Caravaggio, Totò, S. Giovanni Battista de la Salle, Ottaviano Augusto, Jacopo Sannazaro, Salvatore Di Giacomo, Camillo Benso conte di Cavour, con il suo docente Nadir Chiucchi, Benedetto Gareth, Eduardo Nicolardi, Charlton Heston.

Il volume è arricchito da alcune sue poesie sapientemente scelte fra una vasta produzione e da una lettera al nonno con il quale parla della parità di genere e della necessità di eliminare ogni forma di discriminazione per le donne e le ragazze in ogni parte del mondo.

Alessandra Desideri

 

Il Noi solidale: filantropia greca ed humanitas romana

Homo sum, humani nihil a me alienum puto, “Sono uomo, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me”: parole pronunciate nell’Heautontimorumenos di Terenzio da Cremete, a scusante della sua curiosità e diventate celebri per riferirsi all’essenziale fragilità della natura umana, alla difficoltà nel sottrarsi all’errore o alla colpa, alla disponibilità a non schivare alcuna esperienza umana. Il frammentario originale menandreo è privo del suo corrispettivo.

Quindi, bisogna interpretare l’esito autentico della considerazione propriamente romana dell’idea universale di humanitas oppure il riflesso dell’idea di filantropia greca?

Gli antichi si supportano, spalleggiano, affiancano oppure si schierano l’un contro l’altro armati, ignorando il sostegno reciproco, il mutuo soccorso, il tenersi per mano? Certo, si è lontani dalla disposizione a prodigarsi, ad intendersi, a tollerare, a smorzare le ire ed i contrasti in uno sforzo attivo e gratuito.

Di sicuro, si è distanti dalla solidarietà intesa come fratellanza, aiuto materiale e morale per migliorare le condizioni di vita dei poveri, dei derelitti, di chi chiede asilo, di chi è senza lavoro e senza casa, degli anziani senza mezzi per vivere, dei malati. L’assetto politico ed ideologico greco era imperniato sull’orgogliosa rivendicazione dell’appartenenza alla grecità in contrapposizione a tutto ciò che greco non era.

E’ necessario attendere la morte della polis ed immergersi nella realtà cosmopolita ellenistica, laddove il cittadino è un uomo ed è solo.

Allora, ecco emergere i sentimenti di panico, inquietudine, crisi, isolamento interiore. In tale temperie culturale appare la filantropia, la solidarietà tra gli uomini, soprattutto nel dolore ma è impensabile un’unità concreta dell’umanità, un dispiego di energie e tempo al servizio degli altri.

Si configura come amore per l’uomo nato dalla compassione, come solidarietà di uomini travolti dal Fato, che nella crisi e nella decadenza del mondo cui appartengono si osservano con sguardo benevolo: unica forma di salvezza.

A Roma grande assente è la dimensione fattivamente concreta, profondamente etica e radicalmente sociale.

L’altro da sé?

Meglio non dare fiducia ad uno sconosciuto più di quanto non se ne darebbe ad un animale feroce!

Sì, si scorgono cenni di rispetto della dignità umana ma si tratta di un dovere che, del resto, distingue l’uomo proprio dall’animale.

Non c’è afflato di vicinanza disinteressata: mano tesa al naufrago.

Principio morale contrapposto all’utile personale? Semplicemente, il dovere di mostrarsi  gentile, dolce, mite.

Convivialità raffinata ed, al contempo, intima e familiare. Condivisione totale d’idee, di gusti, di aspirazioni tra gente elegante.

Riconoscimento di ciò che di umano vi è in ogni uomo? Riconoscimento della comune natura umana? No, mera complicità tra chi vive secondo uno stile di vita elitario.

La solidarietà nasce dal rispetto di ciò che rende l’uomo un uomo, al di là delle distinzioni di sesso, ceto, rango o condizione sociale.

Occorrerà la lezione senecana per ritenere tutti compagni di schiavitù nei confronti della fortuna, dei capricci del destino; per capire che si respira la stessa aria, che si vive ed infine muore. Ma si è nell’alveo rassicurante dell’astrazione teorica: la classicità non accende la fiaccola della solidarietà inclusiva ed altruistica.

Giusy Capone

Le Imperfette. Storie di donne nell’Inghilterra vittoriana e post vittoriana

Emanuela Chiaricò Le Imperfette è una raccolta di dieci racconti inglesi, nove dei quali mai tradotti prima in italiano, pubblicati tra il 1880 e il 1922. Cosa accade nel già citato quarantennio rispetto all’affermazione della New Woman?

Oggi è quasi impossibile immaginare quanti pochi diritti avessero le donne nell’Inghilterra vittoriana. In un mondo totalmente maschilista, per via del loro sistema riproduttivo erano considerate emotive e instabili, per estensione quindi incapaci di prendere decisioni razionali; e una volta sposate erano trattate poco meglio degli schiavi.  Agli occhi della legge, come spiego nella mia introduzione al libro, una donna dopo il matrimonio cessava di esistere; nel sistema patriarcale subiva il passaggio da figlia a moglie con un’unica prospettiva di completamento del paradigma vittoriano: diventare madre. Il controllo da parte del marito non era solo relativo ai suoi possedimenti ma anche al corpo. Per una donna sposata rifiutare il sesso era preludio di annullamento del matrimonio; il marito poteva picchiarla, anche violentarla senza conseguenza alcuna. Solo nel 1891 queste pratiche aberranti cessarono di essere diritti di cui poter godere da parte di un uomo.

Questo ci dice quanto uomini e donne vivessero due sfere molto diverse; i primi quella pubblica e le seconde quella privata. Le donne contenute nel libro ci raccontano esattamente questa evoluzione che porta alla nascita della New Woman, non alla sua affermazione.

In quadro sociale e legislativo così penalizzante, nella costruzione del progetto ho voluto far notare come da Alice Sheperd, protagonista de Il cuore fedele alla donna che sedeva con le mani in mano dell’ultimo e omonimo racconto, si sia trasformata la coscienza femminile. La prima, Alice, era una vera donna vittoriana, devota alla rassegnazione di un marito egoista e prevaricatore che addirittura la tiene nascosta alla famiglia per le sue origini umili e il dubbio passato; Esther Stables che dimora nel secondo racconto Inguaribile, è una sarta, una figlia del popolo che vede nel matrimonio la sua unica possibilità di riscatto da una vita di stenti, e con i poteri del suo pianto riesce a far capitolare Willoghby un giovane di 26 anni la cui una storia familiare e sociale le possono garantire una progressione. Kathleen in Il desiderio più profondo ha una storia simile ad Esther ma a differenza di quest’ultima non ama suo marito John; rimasta vedova decide di non sposare l’uomo di cui si è innamorata per punirsi dell’ingiustizia a cui ha sottoposto il pover’uomo che l’aveva sposata salvandola da una famiglia di origine anaffettiva. Queste tre donne sono ancora calate nel patriarcato vittoriano ma se pensiamo alla giovane Flo nel racconto Terra Incognita, siamo davanti ad un cambiamento, in lei c’è già l’embrione della New Woman. George Egerton che è in realtà lo pseudonimo di Mary Chavelita Dunnes Bright mette a confronto una madre vittoriana e una figlia che si ribella al matrimonio, per toccare il tema del matrimonio forzato contratto in totale inconsapevolezza (Flo ha solo 17 anni) e della violenza sessuale del marito, e osa anche di più alludendo all’aborto. Terra incognita fornisce alla costruzione narrativa del mio progetto quell’elemento deflagrante che evidenzia la nascita del movimento suffragista. In L’inquilino perfetto di George Gissing, la protagonista è una donna risoluta che non cede davanti alle piccole abitudini fastidiose del marito, un ex scapolo impenitente, e rivendica i suoi diritti quando lui con fare minaccioso sembra volerla aggredire fisicamente. I tre racconti che consacrano la nascita della New Woman e dello stream of consciousness che era il secondo obiettivo che mi era prefissa costruendo la raccolta antologica, sono L’Associazione di Virginia Woolf, Lena Wrace di May Sinclair e La donna con le mani in mano di L.Parry Truscott. Nel racconto corale di Woolf, le due protagoniste sono consapevoli che la donna nuova possa affermarsi grazie alla futura generazione di donne; le altre due sono emancipate da un punto di vista economico ma non emotivo perché ancora dipendenti dallo sguardo maschile per sentirsi legittimate, accettate.

Oltre al superamento dello stereotipo vittoriano femminile, si assiste alla nascita del modernismo. Di quali peculiarità si connota siffatto movimento che coinvolge la cultura tutta?

Sì, il progetto accompagna anche il passaggio dalla tradizione vittoriana alla nascita del modernismo; io ho approcciato i bagliori della nascita del modernismo che ha una spinta consolidante dopo la fine della prima guerra mondiale, i cui orrori  cambiano le priorità valoriali, e gli scrittori, dal canto loro, non possono ignorare i progressi tecnologici e i cambiamenti sociali del XX secolo, cimentandosi con la ricerca di nuove tecniche narrative e poetiche, e un approccio distaccato dall’opera, a cui si uniscono la mancata interferenza dell’autore o dell’autrice, la narrazione della coscienza, e la frammentazione modernista. Contrariamente a quanto si possa pensare, la prima ad utilizzare la locuzione flusso di coscienza in ambito letterario è May Sinclair e non Virginia Woolf; l’espressione compare infatti in una sua recensione ai romanzi della collega Dorothy Richardson, e in particolare in riferimento a Pointed roofs, contenuto in Pilgrimage (all’epoca erano solo tre in tutti, in seguito diventeranno tredici) sulla rivista The Egoist (aprile 1918, Vol. 5, No. 4).

The woman is perfected” è l’incipit di “Edge” di Sylvia Plath. Può definire la “perfezione” muliebre?

Il verso che lei cita ha ispirato la scelta del titolo della raccolta Le Imperfette, e per rispondere alla sua domanda riprendo le parole della coordinatrice del progetto Antonia Santopietro (Zest Letteratura Sostenibile/Literaria Consulenza Editoriale), che nella sua nota a margine dice: “Al culmine della vita, nella compiutezza raggiunta sull’orlo, si definisce la donna, la sua perfezione; e imperfette sono le donne confinate in ruoli o ambiti di irrilevanza, ritenute folli o moderatamente atte alla vita, inette o ripudiate, invisibili nei secoli, nei molti luoghi e nelle diverse culture”. La scelta del titolo voleva dunque rafforzare l’indefinibilità della perfezione muliebre, che non è un ideale a cui tendere, ma un recinto culturale in cui tenere addomesticato un’ideale femminile che configura la perfezione come il contraltare all’ossessione della virilità.

Quanto ha contribuito la narrazione nella comprensione delle questioni di genere?

Il suo contributo è stato assoluto, e con la costruzione cronologica progressiva dei racconti ho immaginato le autrici in particolare, ma anche alcuni autori passarsi il testimone letterario per approfondire e comprendere le questioni di genere.

Molte delle autrici contenute nel progetto sono state rivalutate da studiose dell’argomento, ad esempio Ann Ardis, Elaine Showalter ed Emma Burris-Janssen hanno lavorato su George Egerton; Rebecca Bowler e Claire Drewery su May Sinclair, e ovviamente tutti gli studi approfonditi sulla più conosciuta Virginia Woolf.

L’articolazione dell’identità femminista costruita da queste autrici è il frutto di una collusione, non di un’opposizione alle nozioni gerarchiche di differenza etnica e culturale. Una capacità assoluta di lettura dei tempi in cui vivevano, e al contempo letteraria per aver saputo trasferire quelle stesse nozioni e permettere loro di veicolare il più possibile. Alle volte non potevano essere esplicite, erano costrette ad alludere per via di temi tabù, il già citato aborto in Egerton ad esempio, ma ad una lettura più attenta non era impossibile cogliere a cosa si riferissero realmente.

I racconti proposti sono di George Moore, Ella D’Arcy, George Egerton, Netta Syrett, Arthur George Morrison, George Gissing, Virginia Woolf, May Sinclair, Elinor Mordaunt, L. Parry Truscott. Si può seguire un file rouge dal punto di vista formale, guardando squisitamente agli aspetti stilistici?

Nella costruzione del progetto ho tenuto conto del fil rouge di cui parla; anche qui c’è una sorta di staffetta linguistica e stilistica che si manifesta di racconto in racconto tracciandone l’evoluzione. In George Moore, ad esempio, si percepisce il germe della ribellione alla tradizione letteraria vittoriana soprattutto per i temi che predilige trattare: sesso, prostituzione, adulterio e omosessualità; Egerton restituisce il mondo interiore dei personaggi attraverso l’uso di momenti psicologici o passaggi quasi onirici; Morrison con il racconto dello slum, del periferico, pone scorci di modernità tematica e linguistica con sconfinamenti dialettali e l’ambiente povero del sobborgo sembra confluire nel paesaggio interiore del protagonista; Gissing pur con il suo lavoro consono al mercato letterario tardo vittoriano, rimane fedele a quello stile ma lo arricchisce con un’analisi psicologica e dialoghi accesi intrisi di intenso sarcasmo saturnino. Truscott che con il tentativo di catturare la natura simultanea e sfaccettata del pensiero e dell’esperienza, va oltre il desiderio di mostrare qualcosa di lineare e semplicistico e offre un esempio di flusso di coscienza potente regalando una dimensione quasi visionaria al racconto.

Emanuela Chiriacò è traduttrice. Collabora alla redazione del portale Zest Letteratura Sostenibile, per il quale scrive recensioni e traduce articoli. Ha pubblicato i racconti Fame da Bue nell’antologia Non ti resisto edito da Emma Books (Concorso Donna nel Quotidiano – Literaria Consulenza editoriale, 2017), Il nero assottiglia anche la notte, Uastasignu, Uno, Fish e Affetti feroci, amati rancori sulla rivista Fili d’aquilone dal 2017 al 2020, e Mièrum nell’antologia Racconti divini (Giacovelli editore, 2018). Ha tradotto e pubblicato i racconti A respectable woman (Una donna rispettabile) di Kate Chopin (Emmazine il magazine di Emma Books, aprile 2018), e The kiss (Il bacio) di Kate Chopin (Zest Letteratura Sostenibile, giugno 2018).

Giusy Capone

Fortezza Europa: a Napoli la mostra di Ferruccio Orioli

Ferruccio Orioli, architetto veneziano che vive e lavora a Napoli, ha studiato a Venezia e poco dopo aver conseguito la laurea in architettura si trasferì a Matera e successivamente a Roma. Dal 1994, Ferruccio Orioli ha scelto Napoli come luogo in cui stabilirsi definitivamente, reputando la città partenopea la sua più grande musa ispiratrice; ha da sempre amato l’arte e la pittura e, pur essendo autodidatta, ha iniziato ad usare l’acquerello nel 1978 ottenendo ottimi risultati. Le sue prime mostre sono state esposte a Napoli, Capri, Roma, Benevento, Bisaccia, Venezia e Matera.

“Fortezza Europa” è una sua mostra realizzata su idea di Marta Ragozzino e a cura di Claudia Borrelli e Anna Maria Romano. Le straordinarie opere di Ferruccio Orioli, realizzate pochi anni prima per diverse mostre tra il 2018 e 2021,  sono state ripresentare e messe in esposizione nella chiesa e sagrestia di Sant’Erasmo a Castel Sant’Elmo di Napoli fino al 22 settembre 2022.

L’artista, questa volta, ha deciso di raccontare, attraverso i suoi dipinti, questo arduo tempo storico: migrazioni e le conseguenze dannose o anche letali che patiscono tutti coloro che vivono queste situazioni, conflitti tra gli stati, ancora, una società lesionata da grandi diversità economiche e sociali e degli effetti negativi che questo può comportare soprattutto sulle nuove generazioni.

“Noi di qua, voi di là” è la mostra di Orioli che si è tenuta a Napoli, presso Fiorillo arte, dal 15 dicembre del 2018 fino al 18 gennaio 2019, a cura di Brunella Velardi. Sono state le ricerche sulla costruzione di separazione tra Stato e Stato a suggerire a Ferruccio Orioli il tema di questa mostra; settantanove le nazioni che partecipano economicamente alla costruzione dei muri per dividere Paesi e non solo, per fermare centinaia e migliaia di persone che scappano dalla miseria e dalla guerra.

“Sulle sponde del nostro mare” è la seconda mostra di Orioli, tenuta a Matera presso la scaletta, dal 12 luglio 2019 all’11 settembre 2019, a cura di Giancarlo Ferulano. Il tema principale di questa esposizione, invece, si concentra in particolare su coloro che perdono la vita durante i viaggi per fuggire dalle carestie, dalla fame, per salvare i propri bambini dalle guerre e dai disastri ambientali. “Abbandonati tra mare e cielo” è la terza mostra tenuta in esposizione a Napoli presso la Casa di Vetro, a cura di Claudia Borrelli, dal 12 dicembre 2021 all’8 gennaio 2022. Attraverso le opere di questa mostra, Orioli, racconta la storia di una donna migrante di nome Malaika e del suo viaggio a bordo di un gommone con altre 72 persone. Per la realizzazione di questi dipinti ad acquerello, l’artista, si è completamente immedesimato nella vita della donna, cercando di vivere, anche solo per poco la sua sofferenza. Difatti, questi quadri, riescono a trasmettere tutti i sentimenti che Malaika provava durante il viaggio: la paura di non farcela, la rabbia per chi ti costringeva a scappare, la voglia di ricominciare una vita nuova lontano da ogni strazio che per anni ha dovuto vivere.

Un viaggio immensamente lungo quello della giovane donna e delle altre settantadue persone che navigavano con lei, di trecentosessanta ore in cui anche Malaika, purtroppo, non riuscì a raggiungere la terra ferma. I dipinti di Ferruccio Orioli sono storie di vita vera raccontante con sensibilità, empatia e tanto coraggio.

Alessandra Federico

 

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