Rosaria Catanoso: Hannah Arendt. Imprevisto ed eccezione. Lo stupore della storia

Hannah Arendt. Imprevisto ed eccezione. Lo stupore della storia: quali snodi, in particolare, del pensiero arendtiano si propone di esaminare la sua monografia scientifica?
L’intento del mio lavoro è cogliere, con l’ausilio di Hannah Arendt, le sconcertanti questioni politiche del nostro tempo, innanzi alle quali servono strumenti ermeneutici al fine di comprendere un presente sempre più in krisis. I temi della riflessione arendtiana, che mi propongo di sottolineare sono sia di natura politica e storica, sia filosofica e morale. Penetrare nel suo pensiero è valso a intendere la filosofia non come speculazione teorica, ma come la possibilità di scoprire i criteri, o almeno le modalità, con cui il giudizio si fa strumento d’azione consapevole. La sua ricerca filosofica è sollecitata da fatti e avvenimenti che offrono al lettore una prospettiva teorica di rilevante interesse filosofico, politico e storico. Dall’intreccio tra pensiero ed esperienza nasce in lei la consapevolezza che solo giudicando il reale sia possibile cambiare le sorti della storia e iniziare qualcosa di nuovo insieme agli altri. Nel dettaglio, il giudizio è la categoria con la quale comprendere gli eventi passati e scegliere come agire consapevolmente nelle circostanze in cui possano prevale dubbi ed incertezze etiche e morali. Nuovi e sempre uguali pericoli investono le democrazie occidentali. Pensiamo ai nascenti populismi, al riaccendersi della paura nei riguardi dello straniero, ai nuovi fondamentalismi religiosi e ai fenomeni terroristici. La crisi della rappresentanza mostra l’esigenza di ripensare la politica, quale spazio di apparenza e di manifestazione della parola e del discorso. In un tempo in cui, i mezzi di comunicazione multimediale si sono trasformati da strumenti a luoghi, sostituendosi prima all’ agorà e poi alle sedi di partito, diventa cogente riattivare forme di cittadinanza attiva che riavvicinino la pluralità al bene comune. Quindi, l’ultimo snodo del pensiero arendtiano su cui mi soffermo è il significato autentico del politico, nel momento in cui la studiosa prova ad immaginare una rinascita della sfera pubblica nel segno di una libertà sospinta dall’azione e dall’esercizio del giudizio politico. Diventa, in tal senso, interessante seguire la sua impresa di decontrazione della storia e dei rapporti tra la filosofia e la politica, così come si sono sviluppati sin dall’età classica. Per far emergere le esperienze autentiche del politico, Arendt analizza la condizione umana, caratterizzata da distinzioni esistenziali quali il lavoro, l’opera e l’azione. Riguardo a quest’ultima, la filosofa mette in luce lo slancio innovativo dell’azione, piuttosto che gli atti che ne risultano, proprio perché agire equivale a dare inizio a qualcosa di nuovo. L’azione politica, che si differenzia nettamente dall’opera e dal lavoro, corrisponde alla condizione della pluralità, del porsi in relazione, del comunicare con gli altri. Solo da questa forma di dialeghestaie e dalla condivisione di parole e gesti l’uomo può dar senso al suo abitare il mondo.
L’umanità al cospetto delle rovine della storia; Con il totalitarismo. La deflagrazione di storia e politica; Un “nuovo inizio” per la politica e per la filosofia; Giudicare: responsabilità storico-politica ed etica.
Ciascun capitolo si presenta come possibile oggetto di studio autonomo; ciononostante, è ravvisabile un filo rosso che consenta ai non addetti ai lavori di cogliere l’interpretazione del pensiero di Hannah Arendt?
Le sue opere, dai trattati filosofici e politici, fino ai saggi su questioni morali, esprimono il desiderio di comprendere le vicende che hanno sconvolto il Novecento. I criteri, la tradizione e gli orizzonti di senso – che avevano orientato l’agire umano per millenni – sono risultati insufficienti innanzi alla comprensione delle guerre mondiali, allo sterminio degli ebrei, all’esplosione della bomba atomica, alla guerra fredda, e al propagarsi della tecnica.
Le riflessioni sul pensare, sul volere e sul giudicare proposte nell’ultima opera, rimasta incompiuta, La vita della mente, sono il compimento delle sue analisi politiche ed interpretative su Le Origini del totalitarismo, del 1951.
La questione del totalitarismo conferisce alla sua opera, apparentemente disorganica, una grande coerenza. Innanzi al fenomeno totalitario, la pensatrice vuol comprenderlo, cogliendone il senso.
Di fronte ai crimini di massa totalitari, non sono più validi né le consuete categorie storico-politiche né quelle etico-filosofiche. Questo è il cuore della prima parte del mio lavoro. Infatti, i primi capitoli mettono in luce come la ricostruzione storica e la scrittura di un evento, quale il totalitarismo, sollevino dei problemi peculiari concernenti la riflessione generale sulla storiografia, per quanto attiene agli strumenti e ai modi della spiegazione e dell’interpretazione dei fatti. Da storica, ne Le origini del totalitarismo, Arendt utilizza, con grande disinvoltura e maestria, molti materiali: dal documento storico, alla cronaca politica, dalle opere letterarie, alla testimonianza autobiografica di vite emblematiche, mettendo fine all’idea di processuali universalizzante della storia, e alla configurazione teleologica dell’accadere storico. Tra ricostruzione storica e interpretazione filosofica si pone una circolarità. Il fatto accaduto sollecita la riflessione e questa costituisce la base da cui comprendere gli eventi stessi. Al binomio causa-effetto, sostituisce la diede elementi-cristallizzazione, dando conto storicamente delle condizioni stabilizzate in forme immutabili, entro un contesto in cui l’evento ha avuto origine. Con la metafora chimica della cristallizzazione, la filosofa indica un criterio di selezione e di ordinamento dei fatti stoici volto a ravvisare i punti di fusione di elementi eterogenei che, in un determinato momento si sono cristallizzati in un’unica esperienza. In questo modo, l’antisemitismo e l’imperialismo sono  elementi e componenti, non cause del fenomeno. Trovandosi di fronte ad un evento dirompente, innanzi al quale è forte la tentazione di considerarlo fuori dall’umano, sorge, in Arendt, la domanda su come sia possibile conoscere la storia nei suoi momenti bui. La risposta ad un tale quesito risiede nell’idea secondo la quale il passato, sopratutto quello doloroso, può essere conosciuto solo raccontando ciò che è accaduto. Per raccontare gli eventi, la comprensione è condizione necessaria. Il comprendere, come risulta nell’ultima opera La vita della mente, ha una stretta affinità con il pensare, perché non cerca la verità, ma il significato delle vicende. Il momento successivo alla comprensione è la narrazione, in cui si mette ordine nella sequenza caotica degli eventi. Allo storico, e al narratore, non solo spetta il lavoro di riscoperta degli eventi accaduti, ma anche il compito di giudicare quegli stessi fatti. Il giudizio non è una sentenza di condanna o di assoluzione dei fatti, ma è la particolare prospettiva con cui vengono interpretati gli eventi nel momento in cui, con la narrazione, si restituisce un racconto delle vicende.
L’esito conclusivo della riflessione di Hannah Arendt obbedisce all’urgenza di una riappacificazione con il mondo e con la storia.
Quali tendenze nel Novecento hanno tentato di smantellare la varietà umana, hanno provato a rendere accessoria l’azione politica ed hanno cercato di vanificare la realtà?
I nodi storici presi in considerazione sono il fallimento degli stati nazionali e della loro promessa di coniugare cittadinanza e universalità dei diritti umani; la massificazione della società, che trasforma gli appartenenti alle classi in atomi impotenti e isolati; l’illimitato desiderio espansionistico dell’imperialismo, che oltre a concorrere alla formazione di una mentalità dominatrice insegna all’Europa i metodi illegali e arbitrari messi a punto nelle colonie e che conducono al razzismo; l’antisemitismo che porta con sé il fardello di credenze legate al sangue e al suolo; l’elaborazione d’ideologie che pretendono di procedere in accordo con le eterne leggi della Natura e della Storia.
Arendt scorge nell’antisemitismo un problema politico, rintracciando l’antecedente storico della condizione umana dell’isolamento, al quale sono stati costretti gli ebrei, nel tramonto degli stati nazionali, allorché, privi di una identità politica, sono stati il bersaglio privilegiato di ogni teoria razziale e la loro ricchezza senza potere diventava causa di antisemitismo.
Sul piano delle considerazioni politiche del totalitarismo, la filosofa lo definisce una forma nuova di governo, distinta da tutte quelle fino ad allora conosciute. Per avvalorare questa sua concezione illustra i tratti inediti di questo regime politico, individuandoli nel terrore e nell’ideologia. Nei campi di concentramento e di sterminio – concepiti come il luogo dove l’idea stessi di dominio totale si manifesta in tutta la sua micidiale potenzialità distruttiva – Arendt vede il male farsi radicale, tra l’altro per aver privato ogni internato della spontaneità che contraddistingue l’esistenza umana.  Nella storia ci sono stati altri sistemi di potere arbitrario, come la dittatura, la tirannide, il dispotismo, ma nessuno di essi ha perseguito, oltre alla distruzione della capacità politica dell’uomo, l’annientamento della stessa identità umana e del suo legame con la realtà. Il totalitarismo, nel conquistare il potere, ha eliminato tutte le tradizioni sociali, politiche e giuridiche del paese, creando istituzioni nuove. Il nuovo regime politico ha portato alle sue estreme conseguenze le caratteristiche della società di massa, trasformando le classi sociali in masse d’individui intercambiabili. Inoltre, ha sostituito il sistema dei partiti con il marito unico. Non ha solo preteso la subordinazione politica delle persone, ma ha invaso la loro sfera privata. Se il totalitarismo ha annullato la libertà degli uomini, cancellando la spontaneità dell’individuo, distruggendo la possibilità per ogni persona di condividere insieme il mondo, occorre ripensare la sfera politica, come luogo in cui gli uomini possano dar vita a qualcosa di nuovo agendo insieme. Il periodo tra il primo dopoguerra e il disgelo degli anni Cinquanta in Unione Sovietica è stato un momento di rottura imprescindibile nella storia dell’umanità, poiché gli uomini sono stati privati della possibilità di riunirsi per parlare e agire politicamente. Dopo la seconda guerra mondiale e l’olocausto, dopo l’avvento di armi in grado di distruggere la razza umana, Arendt si chiede se ci siano ancora possibilità per gli uomini d’esercitare la politica, quale forma d’azione e di libertà. Solo in uno spazio garantito e curato da diritti, gli uomini possono intervenire nel mondo orlando e agendo liberamente nella loro diversità. Arendt difende diritti e libertà per tutti, indipendentemente dall’appartenenza a uno Stato o a una nazione.
Lei scrive che il valore profondo della filosofia di Arendt va reperito “nella valorizzazione assoluta della libertà umana, libertà di dare inizio all’inatteso e al nuovo, libertà di scegliere e, se liberi, di giudicare”.
E’ il thaumazein la zattera a cui aggrapparsi?
Bello il paragone con la zattera. Del resto siamo proprio, in mare aperto, privi di ogni ancoraggio con la tradizione a cui aggrapparci. La vita è composta di imprevisti e di eccezioni. La storia è ricca di stupore e di fatti imprevisti. Ecco la scelta semantica alla base del sottotitolo del mio lavoro
Le circostanze ci obbligano a scegliere e a prendere decisioni. Ogni scelta chiama in causa libertà ed azione, pensiero e giudizio. Quindi politica ed etica. Arendt stabilisce un legame tra natalità e agire, perché entrambe sono a fondamento della libertà. L’imprevedibilità, della libertà e dell’azione, produce effetti potenzialmente illimitati. Gli uomini sono in grado di dare inizio a qualcosa di nuovo, sin dalla nascita. A tal proposito, Arendt invoca l’autorità di Agostino e ricorda l’espressione del filosofo cristiano: “Perché ci fosse un’inizio l’uomo è stato creato”. In questa espressione si manifesta l’idea della libertà come capacità di cominciare, essendo l’essere umano a sua volta un “inizio”. La nascita connatura ciascuno a generare novità nel mondo. Per Arendt siamo condannati a essere liberi in ragione dell’esser nati. L’agire appartiene alla libertà, intesa come spontaneità, cioè come facoltà di iniziare un corso non prevedibile partendo da se stessi. La libertà, per quanto diritto di nascita, non è mai definitivamente stabile, ma può essere minacciata dall’isolamento, dalla violenza, dalla tirannia, dal conformismo, e dalla società di massa. La libertà non è da intendersi come un dono, ma è da cogliere come una caratteristica vulnerabile dell’uomo, che può andare perduta. Quindi, occorre difenderla e salvaguardarla. Da qui sorge il continuo appello a pensare la pratica della libertà in termini di diritti collettivi e di impegno comune.
Arendt è conosciuta dal grande pubblico per l’espressione “la banalità del male”.
Dove sta la radice del “male”, Dottoressa Catanoso?
Male banale. Sintagma difficile che le è costato tante critiche. Ma andiamo direttamente alla risposta. Aver visto negli occhi, a Gerusalemme, in gabbia, Eichmann, ha ridimensionato la famosa espressione kantiana sul “male radicale”. Il processo a Gerusalemme è stato il momento durante il quale coglie cosa comporti la scissione tra pensiero ed azione. Il non pensare ha come conseguenza l’incapacità a giudicare. Quindi a scegliere. Obbedire, senza porsi domande diventa il segnale di un male che dall’ambito morale, diventa etico e politico.  A caratterizzare Eichmann non è cattiveria, o stupidità, ma assenza di pensiero. Arendt, invece di dipingerlo come un demonio, restituisce il ritratto di un uomo qualunque. Tutti cercano un demone, intravedono mostruosità, Arendt scorge solo un uomo incapace d’attivare il giudizio, e la facoltà del pensare per porre domande a se stesso. E come lui ce n’erano tanti, nessuno perverso né sadico. Il male nella sua cruda banalità si mostra ogni volta in cui persone terribilmente normali divengono irresponsabili delle proprie scelte e delle proprie azioni. Il male va liberato da ogni sostanzialità oggettiva e ricondotto ad una responsabilità individuale, svincolandolo, così da ogni natura metafisica o demoniaca. Per giudicare bisogna farlo decidendo volta per volta. Entro una cornice di crimini autorizzati, in cui la  distinzione tra il bene e il male può esser compromessa, e la decisione libera ed autonoma può essere stordita da una collettività che agisce come se fosse una sola persona, i pochi che conservano una capacità di discernimento morale la esercitano in solitudine. Ecco perché si è sempre responsabili. Si è personalmente responsabili, anche dell’irresponsabilità che accompagna ogni azione. La responsabilità dei propri atti è sempre individuale, nessuno può schermarsi dietro l’avallo di un sistema o di un’organizzazione. Questi, alla maniera di Socrate, del maestro Jaspers, mostrano con la loro vita, con il loro lavoro come sia possibile discernere, giudicare, esprimendosi con coerente equilibrio sui temi pubblici.
Il cancro del male, emblematicamente rappresentato da Eichmann, può riproporsi ogni volta in cui si cede al non pensare al non volere ed al non giudicare. Dal processo contro Eichmann ciò che si rileva è la questione della responsabilità e della colpa di quanti, pur non essendo criminali comuni, hanno svolto una funzione all’interno del regime; ma anche di quanti sono rimasti in silenzio tollerando. L’incapacità a pensare e a giudicare, prima di ogni scelta e di ogni azione, mostra una vera e propria frattura con il mondo all’interno del quale viviamo; ciò, però, non ci emancipa dal dover rispondere dell’azione compiuta.
Rosaria Catanoso è docente di filosofia e storia nei Licei e dottore di ricerca in Metodologie della filosofia.
Giuseppina Capone

Pensare in maniera critica

“Colui che impara e impara e non mette in pratica ciò che sa, è come colui che ara e ara e non semina” Platone.

I filosofi per aiutare a pensare, in edicola una biblioteca essenziale per avvicinarsi alla filosofia. Protagonista del primo numero è Platone.

“Nell’epoca dell’iperconnessione, della sovrabbondanza e della varietà dell’informazione, Imparare a pensare è una collezione che ti offrirà gli strumenti necessari per riflettere e indagare su tutte le questioni fondamentali della realtà che ci circonda. Un ponte tra i grandi filosofi di tutti i tempi e il tuo pensiero” è quanto si legge nella presentazione dell’opera “Imparare a Pensare”.

Giustizia, etica, conoscenza, vita sociale, senso dell’esistenza, verità sono alcuni dei temi ai quali ci avvicineranno i protagonisti di questa collana di 60 volumi.

Giuseppina Capone

 

Gli Uffizi apre la collana Musei del mondo

I lettori del Corriere della Sera in questi ultimi giorni del 2021 hanno ricevuto in omaggio due pubblicazioni: Uffizi e Il cielo è di tutti riservate a due pubblici diversi, il primo agli amanti della cultura e dell’arte, il secondo ai piccoli lettori in età prescolare. Due grandi nomi per le due pubblicazioni: Philippe Daverio e Gianni Rodari.

Uffizi dà il via alla serie su i “Musei del mondo”, un viaggio attraverso 40 musei in tutto il mondo alla scoperta dei tantissimi capolavori più o meno conosciuti custoditi in questi gioielli d’arte e cultura. Un omaggio all’opera di artisti italiani e stranieri ed anche allo storico e critico d’arte Daverio scomparso lo scorso anno. Un modo per viaggiare anche senza muoversi da casa propria attraverso i volumi riccamente illustrati, rigorosi scientificamente ma dal taglio divulgativo. Ogni volume racconta una collezione con aneddoti e curiosità e approfondimenti su una selezione dei capolavori più significativi. Giotto, Beato Angelico, Paolo Uccello, Piero della Francesca, Leonardo, Botticelli, Bellini, Perugino, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Caravaggio e tanti altri artisti sono i protagonisti dei volumi.

Gli Uffizi sono stati incoronati quest’anno dal periodico culturale “Timeout” come miglior museo al mondo in una top ten in cui ha superato Louvre, Ermitage o Moma.

Giuseppina Capone

Il Natale 2021 a Porto Torres. Ripartono gli eventi in città

“Questo cartellone è il frutto di un gran lavoro di squadra che ha coinvolto il consiglio comunale insieme al mondo associativo e commerciale turritano. C’è stata da parte di tutti una grande disponibilità a collaborare: il risultato è un calendario di appuntamenti adatto a tutte le fasce d’età e ai differenti gusti culturali. Ci sono diversi eventi in grado di richiamare pubblico da tutto il territorio. Stiamo gettando le basi per rendere l’offerta culturale di Porto Torres attrattiva per tutto il Nord Ovest della Sardegna”.

Con un sentito incipit Maria Bastiana Cocco, Assessore alla Cultura al Comune di Porto Torres, ha avviato la presentazione del palinsesto di eventi programmato dalla Giunta comunale nel centro turritano.

Alla conferenza stampa tenutasi nella mattinata del 7 dicembre presso la sala giunta dell’amministrazione comunale, ha partecipato una nutrita delegazione politica della maggioranza di governo presente nell’assemblea consiliare.

La stella polare che ha guidato con virtuosa sinergia l’amministrazione comunale e l’associazionismo cittadino coordinato dalla consulta del volontariato, ha illuminato e ampliato, nella maggiore estensione del termine, il tema della partecipazione.

Un’idea volta a portare le luci del Natale in tutti i quartieri cittadini, non solo con la rete di luminarie sistemate nelle vie cittadine.  Per attuare questo obiettivo condiviso dalla pluralità delle forze politiche e civili della comunità cittadina, sono aumentate le iniziative d’intrattenimento che contemplano un piccolo contributo economico da parte cittadini. Un gesto che distribuirà una quota sugli incassi, destinata a troppi cittadini caduti in gravi difficoltà per le terribili ricadute della pandemia Covid19 sul tessuto economico e sociale della città.

In linea con questo fil rouge buona parte dei trenta eventi che delineeranno il percorso festivo che culminerà, come di consueto, il prossimo 6 gennaio con un primo ritorno in presenza con la “Befana in piazza”. L’atteso appuntamento per la gioia dei più piccoli, inaugurato molti anni fa per la prima volta proprio nel comune portotorrese.

In questa direzione gli eventi di questa rinnovata edizione, la prima dopo la sospensione dello scorso anno imposta dalla quarantena sanitaria.

L’intero programmaè fruibile al link del portale istituzionale : https://www.comune.porto-torres.ss.it/Comunicazione/Notizie/Il-cartellone-del-Natale-turritano-2021

Luigi Coppola

 

(Nella foto allegata da sx: Presidente commissione cultura Antonello Cabitta – Assessore Cultura Maria Bastiana Cocco – Consiglieri comunali Gavino Ruiu  e  Gavino Sanna

Selena Pastorino: Filosofia della maternità

Selena Pastorino (Genova, 1986) è Dottoressa di ricerca in Filosofia e docente di Filosofia e Storia presso il Liceo Mazzini di Genova. Si occupa di pensiero nietzscheano (Prospettive dell’interpretazione, ETS, 2017; Per la dottrina dello stile e Da quali stelle siamo caduti?, Il melangolo, 2018), pop-filosofia (Black Mirror, con Fausto Lammoglia, Mimesis, 2019) e filosofia del corpo (Filosofia della danza, Il melangolo, 2020). Nel 2018 è diventata mamma.

La maternità è un’esperienza corporea: ritiene che ciò le conferisca lo statuto di una condizione che si esaurisce nella costituzione corporea?

Sicuramente il corpo è stato per me l’ambito in cui ho potuto esperire la maternità con più forza, la dimensione in cui credo che si concretizzi meglio il senso di questa relazione. Penso che sarebbe tuttavia rischioso accettare, senza resto, una sorta di riduzione di questa esperienza alla sola sfera corporea. In primo luogo perché renderebbe meno evidente l’inclusione di forme di maternità non tradizionali, ma non per questo meno degne di questo nome: come ho provato a chiarire, madre si dice e si è sempre detto in molti modi, nessuno dei quali ha una priorità sugli altri. In secondo luogo, come ogni pratica umana anche l’essere madre non si riduce alla mera fisicità, bensì include un confronto costante con quello che si potrebbe chiamare il concetto culturale di maternità, vale a dire l’ideale materno che si considera “normale” in un preciso contesto storico-sociale e che determina aspettative spesso molto intrusive nel rapporto di ogni madre al figlio. Nonostante queste due derive, cancellare la realtà incarnata della maternità, la viscerale iscrizione di questa relazione nel corpo di ogni madre, anche se non è stata gestante, è altrettanto pericoloso, perché ne dimentica la concretezza e l’irreversibilità.

Il pensiero filosofico ha costantemente tentato di porre distanti l’attività di pensiero e la corporeità dell’esperienza. In questo saggio pare cogliersi una posizione di segno differente. Perché, a suo avviso, l’approccio della Filosofia continua ad essere meramente teorico?

La filosofia occidentale muove dallo stesso paradigma culturale che contribuisce ad alimentare, quello per cui da una parte si trova la realtà materiale, ivi compresa quella corporea, con il suo divenire complesso e, in quanto tale, incomprensibile, e dall’altra l’immaterialità di istanze meta-fisiche, tra cui, nell’umano, il pensiero. Immaginare e praticare l’uscita da questa contrapposizione di sapore manicheo implica il coraggio di osare una radicale decostruzione, per usare non a caso un termine della filosofia derridiana, e di tentare una non meno intrepida sperimentazione. Gli esempi di chi ha raccolto questa sfida, nel passato e nella contemporaneità, sono più numerosi di quanto potrebbe sembrare, ma è innegabile che una certa matrice continui a restare dominante, con tutte le implicazioni che comporta anche sul piano della convivenza sociale, dominata da una paradossale smaterializzazione venerante della corporeità. C’è da auspicarsi con Nietzsche che un nuovo modo di filosofare sia davvero all’orizzonte.

Questo saggio muove dalla personale esperienza corporea della maternità nel duplice senso di generazione e crescita di una figlia. Esiste un medium tra mente e corpo?

Con una boutade potrei dire che siamo noi a esistere come medium tra mente e corpo. Questi due termini mi sembra, infatti, si configurino come poli di una tensione senza soluzione di continuità che ci realizza, che ci rende cioè reali e vivi. In questo senso, la prospettiva autobiografica è il punto di partenza della riflessione filosofica nel mio lavoro, affinché si possa fornire un quadro alternativo a quella contrapposizione culturale di cui si è detto: l’esperienza incarnata sostituisce quella dicotomia impossibile con la concretezza del vissuto, da cui il pensiero origina ma a cui anche deve sempre essere ricondotto, per non perdere di vista quel reale con cui dovrebbe confrontarsi.

Superando Cartesio, si potrebbe affermare che il corpo pensi. Qual è stato l’apporto delle neuroscienze ai suoi studi?

Il pensiero del corpo è esattamente la chiave di lettura di quel genitivo che compare nel titolo: “Filosofia della maternità” non significa una trattazione astratta e generalizzata sull’essere madre, ma lo sviluppo di quella riflessione che da questa esperienza, che si è detta innegabilmente corporea, nasce. Per questo motivo ho integrato il mio vissuto a una ricerca approfondita che si è avvalsa del confronto di molte discipline, dalla psicanalisi alla medicina, dalla bioetica alle neuroscienze, dalla narrativa alla storia, come un tema così complesso quale la maternità non poteva che implicare. In particolare, sul versante scientifico ho trovato molto utile il contributo di lavori che hanno sondato lo sviluppo congiunto di corpo e mente, nei molteplici sensi di questo termine, nelle diverse epoche gestazionali (per esempio lo splendido testo di Ammaniti e Ferrari, Il corpo non dimentica, edito da Raffaello Cortina lo scorso anno), nonché gli effetti dell’esperienza materna sul corpo della madre, sia come gestante sia come genitore.

Il tema della “maternità surrogata” è fortemente divisivo. Reputa che possa essere considerata quale un paradigma decisivo per declinare una nuova grammatica filosofica?

Per trattare una questione così delicata penso che sia anzitutto importante scegliere le parole con cui si vuole definirla: ciò che è comunemente noto come “maternità surrogata” sarebbe più corretto chiamarlo “gestazione per altri”, espressione che predilige una certa neutralità terminologica per lasciare spazio a un confronto meno determinato. Si tratta sicuramente di un’esperienza che fa resistenza alla riflessione perché prevede un’esplicita messa in gioco di tutti gli assunti culturali da cui sempre muoviamo, ma che troppo spesso tendiamo a cristallizzare in un’ideologia irriflessa e immutabile. La realtà, come si diceva, è ben più complessa e prenderne atto sarebbe importante proprio per una disciplina come la filosofia che ha il compito di riflettere sul reale per fornire una forma di orientamento. Personalmente, per non eludere una possibile domanda in sottotesto, ho maturato nei confronti della “gestazione per altri” come di altre modalità non tradizionali di genitorialità la profonda consapevolezza della mia ignoranza. La posizione di privilegio di cui ha goduto la mia esperienza di maternità e di cui in generale per la maggior parte dei suoi aspetti gode la mia esistenza, esige anzitutto un confronto con chi ha un diverso vissuto, con chi può esprimersi su questi temi a partire dalla concretezza incarnata della pratica. La teoria, necessaria per la riflessione, può essere accolta solo dopo un confronto con la realtà. Anche in questo rovesciamento di prospettiva penso che i temi “divisivi” siano un’ottima occasione per la filosofia di rinnovarsi e proporre così ancora il proprio lavoro come un prezioso contributo all’esistenza.

Giuseppina Capone

Ivonne Mussoni: Sirene

Ivonne Mussoni è una studiosa dell’Università di Bologna. Nel 2013 ha pubblicato con Heket la plaquette A un quarto d’ora d’universo. Sue poesie sono presenti nell’antologia Post ’900 lirici e narrativi (Giuliano Ladolfi Editore, 2015) e in Centrale di Transito, ceci n’est pas une anthologie (Giulio Perrone Editore, 2016). Nel 2017 pubblica, sempre con Giulio Perrone, la raccolta La corrente delle cose ultime.

 

Dalle prime sirene rapaci all’episodio di Ulisse e le Sirene nell’Odissea, al Cratilo di Platone alla fiaba “La Sirenetta” di Hans Christian Andersen. “Eravamo quasi donne / nel poco che mancava / lucertole, uccelli, meduse, / tempeste, / orsi e serpenti”. Chi è la Sirena?
Rispondere a questa domanda è stato il lavoro di questo libro, ma ciò che realmente è credo si possa afferrare solo per intuizione. La sirena è tante cose, questa è la prima evidenza poiché nella propria immagine tiene in sé le contraddizioni del doppio: è una donna ma è anche una bestia. È un uccello con la voce e le labbra, è un pesce, è un serpente. In ogni caso, in qualsiasi forma si presenti, è un’immagine del profondo e, come tale, sarà complessa e mai univoca. Se guardata dal punto di vista del maschile è una creatura misteriosa e seducente che esce dalle acque, simbolicamente dall’inconscio, per portare una verità all’interno dell’uomo segretamente taciuta. La sirena è quindi l’Anima dell’uomo. Il femminile invece si riconosce nella sirena stessa e nelle sue ambiguità, sa di avere una parte inaccessibile, connessa con i sentimenti più bassi e profondi e sa che presto o tardi dovrà farci i conti.
Al centro della sua raccolta poetica si trovano i versi di Marguerite Yourcenar “Attraverso me poteva spiare l’invisibile / ricordare cosa c’era / prima che ci fosse giorno e notte / prima del firmamento / che separa le acque dalle acque”
La Sirena, pertanto, intesa quale ambasciatrice dell’incorporeo, di un tempo passato e futuro?

Assolutamente, alle sirene-uccelli mandate alla ricerca di Persefone (la figlia di Demetra rapita dal dio dell’oltretomba) viene donato (o sarebbe meglio dire inflitto) lo sguardo degli uccelli rapaci, in grado di vedere molto lontano, uno sguardo dunque, tradotto metaforicamente, in grado di guardare nel profondo: nelle profondità del cuore e del tempo; in più, se pensiamo al canto delle sirene come canto poetico, si intuisce come possa essere in stretto rapporto con il tempo. La poesia è sotto l’egida di Mnemosyne, la dea della memoria che dona ai poeti la capacità di vedere al passato e ai profeti quella di vedere il futuro. Alla sirena, sibilla e poeta, appartengono entrambe le direzioni.
I cerchi sull’acqua, Quasi mezzogiorno, I cerchi sott’acqua fino a Sulla terra, la sezione conclusiva. Ebbene, come si evolve la Sirena sino al suo confronto con le regole terrestri?
L’evoluzione della sirena è culturalmente e letterariamente misteriosa, non ci sono leggende che ne cambiano i connotati, semplicemente succede, è un simbolo che si adatta all’epoca, che ne accoglie i dolori e le ansie. Quello che mi sorprende è come sia potuta cambiare così tanto, fino a rovesciarsi completamente e da carnefice diventare vittima. La fiaba de La Sirenetta di Andersen ne ha determinato in parte il destino, ma lo scrittore danese non è stato il primo a confrontare la sirena con le regole terrestri. Penso a Ondine di De La Motte Foqué e penso che la donna/sirena che cambia la propria natura per amore di un uomo non sia un fatto nuovo. Nel libro ho cercato di seguire la sua storia, la mia sirena diventa sempre più innocua, cede all’amore e si fa vulnerabile, fino a perdere la voce. Rendersi conto della portata di questa perdita è estremamente doloroso, vuol dire sentire minacciata la propria identità e non avere voce per dire chi si è realmente. Nonostante questo nelle nuove sirene terrestri c’è ancora il nocciòlo delle antiche compagne, questo è stato quello che ho cercato di fare nella raccolta: tracciare i confini del mutamento ma lasciando intravedere le origini. Andare all’inizio della storia per scoprire il canto di verità. La storia della Sirenetta diventa allora un monito: non lasciarsi rubare la voce. Non scambiarla per niente al mondo. La sirena che esce dall’acqua crede, uscendo, di farsi intera, ma in realtà perde solamente una parte di sé. L’integrazione avviene al contrario; accettando pienamente la propria parte mostruosa.
Il testo finale reca: “È pericoloso fare luce/ su una natura di bestia… Eravate voi, non io/ a fare più paura” Qual è l’urgenza, qual è la necessità qui evocata?
Questa è l’ultima poesia della raccolta e, contemporaneamente, l’ultima parola della sirena. Qui la sirena percepisce il rifiuto, ne soffre e, per la prima volta, non incolpa la sua oscurità, ma la paura di chi non riesce ad accettarla. Mi sono domandata a lungo se concludere la raccolta con questi versi, il mio primo libro si conclude con la parola Volo e mi è sempre sembrato un sintomo di grande apertura e possibilità verso il futuro, questa termina invece con la parola paura, ero restia a lasciare questa conclusione, ma se c’è una cosa che la sirena mi ha insegnato è non avere timore della propria zona d’ombra.
“Sott’acqua non ci sono le tempeste” Può commentare questo suggestivo verso per noi?

La pace del sott’acqua è simile al sonno, simile alla morte o al chiudersi nel proprio luogo sacro, questo è raccontato magnificamente nella leggenda di Melusina. Melusina è una fata dei boschi, di lei si innamora perdutamente un cavaliere Raymond che la chiede in sposa, lei accetta ma a alla condizione che l’uomo rispetti un patto inviolabile: ogni sabato le concederà il permesso di ritirarsi in solitudine. In quel momento solitario fa il bagno in una tinozza e non appena si immerge in acqua le gambe si trasformano in una grandissima coda di serpente. Tutto procede per il meglio fino a quando il cavaliere, fremente di gelosia, rompe la promessa e, aprendo la porta del bagno, scopre la parte mostruosa della moglie. Scoprendola la perde, Melusina se ne va. Ciò che la storia ci suggerisce è la necessità di fare quel bagno di sabato, in solitudine nel luogo dove non c’è altro rumore, dove appunto, non ci sono le tempeste, solo così è possibile recuperare le proprie energie psichiche ed essere chi si è realmente.

Giuseppina Capone

Daniela Musini: Le indomabili. 33 donne che hanno stupito il mondo

Da Agrippina a Sarah Bernhardt, da Trotula de Ruggiero a Jackie Kennedy, da Caterina la Grande a Rita Levi-Montalcini, da Isabella d’Este Gonzaga a Emmeline Pankhurst, da Elisabetta I Tudor ad Anna Magnani trentatré ritratti di altrettante donne, un caleidoscopio di universi femminili, dissimili quanto ad età, condizione, ruolo sociale, esperienza esistenziale.

Qual tratto le accomuna?

Sono state tutte donne rivoluzionarie, ribelli, audaci, che hanno infranto tabù, scardinato regole, sovvertito consuetudini. Hanno avuto il coraggio di vivere controvento e agire controcorrente per realizzare sogni, perseguire ideali, affermare la propria identità, anche a costo di immolarsi per la propria causa: penso a Ipazia, Giovanna d’Arco, Eleonora Pimentel de Fonseca, Amelia Earhart.

I suoi ritratti muliebri navigano nel tempo. Quale criterio di scelta ha adottato per navigare attraverso i secoli?

La caratteristica più evidente è che sono tutte fra le donne più connotative della propria epoca, sia per talento, che per fama, che per rilevanza storica, che per audacia del loro modus vivendi.

Ho voluto che fossero rappresentate più o meno tutte le epoche della Storia: dall’antica Roma (con Agrippina) fino al Novecento (con Jackie Kennedy Onassis) e, mentre il mio precedente libro Le Magnifiche 33 donne che hanno fatto la Storia d’Italia (Piemme) era riservato a straordinarie figure femminili che avessero avuto grande rilevanza nel nostro Paese, Le Indomabili hanno un respiro più internazionale. Inoltre ho scelto quelle donne che più di altre hanno impresso una traccia indelebile e innovativa non solo nella storia politica della propria nazione d’appartenenza (penso a Caterina Sforza, Isabella d’Este, Elisabetta Tudor, Caterina la Grande, Elisabetta d’Austria, Evita Perón), ma anche nella scienza (come Marie Curie, Hedy Lamarr, attrice e inventrice, e Rita Levi Montalcini), nella moda (Coco Chanel e la sua grande rivale italiana Elsa Schiaparelli), nelle arti (basti considerare la grande innovazione nel linguaggio pittorico di Frida Kahlo e nella danza di Isadora Duncan), e in altri aspetti del costume e della società, senza tralasciare il teatro, il cinema, le conquiste sociali.

Quelle descritte sono di certo donne emblematiche: le loro passioni ardimentose, le scelte intrepide, la debolezza e l’impeto del loro essere, ma anche l’inarrendevolezza, il genio e la forza di volontà che le hanno connotate. Quale messaggio ci offrono?

Il grande coraggio da loro dimostrato credo sia la loro più grande lezione. Il coraggio di vivere la propria vita secondo le proprie scelte, senza farsi condizionare più di tanto, reagendo con forza a chi voleva impedire il loro processo di maturazione e di consapevolezza, l’audacia di sfidare le convenzioni e i limiti imposti dalla società, e persino l’ardimento nell’abbandonarsi a passioni amorose anche scandalose e proibite. Perché anche in questo libro, così come nel precedente, racconto di fiammeggianti e rapinose storie d’amore.

Le sue pagine quanto si distaccano dal femminismo nelle sue plurime e molteplici flessioni?

Quando mi sono accinta a questi due affascinanti e coinvolgenti progetti letterari, l’ho fatto non soltanto per amore nei confronti della Storia declinata al femminile, ma anche per ripristinare alcune verità sottaciute, per ricollocare sotto la giusta e veritiera luce molte delle figure raccontate che sui libri di scuola, ad esempio, non vengono menzionate o presentate non nella loro interezza.

Entrambe le mie opere sono state un atto d’amore nei confronti di queste straordinarie creature di cui ho voluto narrare sì i successi, ma anche gli eccessi, sì le sfide vinte, ma anche le sconfitte, sì la loro eccezionalità, ma anche, e soprattutto, i loro aspetti più nascosti, segreti, controversi, financo ambigui. Non perseguo l’intento “agiografico” di santificarle o di ammantarle di gloria solo perché sono donne; perseguo l’obiettivo di onestà intellettuale nel ritrarle, senza giudicarle, anche quando hanno comportamenti per me disdicevoli o non condivisibili, e ho cercato di consegnarle alle lettrici e ai lettori (soprattutto a quelli più giovani) per farle conoscere e far conoscere ciò che hanno fatto per il progresso e per l’umanità.

Inoltre, essendo io anche pianista e autrice/attrice teatrale, ho utilizzato sia la grammatica musicale che quella teatrale per ricreare le singole figure in modo, come dire, tridimensionale, ponendole ciascuna su un palcoscenico ideale e illuminandole idealmente con luci radenti, taglienti o immergendole nella penombra, e, nel contempo, affidandomi ai crescendo e diminuendo, ai rallentando e agli accelerando, insomma a quella che si chiama la dinamica musicale per meglio connotarle.

C’è una rigorosa ricerca storica dietro, uno studio molto meticoloso da parte mia, ma anche una sorta di “drammatizzazione” per quanto riguarda alcuni personaggi fittizi, moltissimi dei dialoghi presenti, la ricostruzione di atmosfere e panorami.

Ho amato moltissimo queste donne proprio per ciò che sono state: inarrendevoli e Indomabili. Appunto.

Artista versatile, Daniela Musini, nata a Roseto degli Abruzzi (TE) e residente a Città Sant’Angelo (PE), è scrittrice, pianista, attrice e autrice teatrale ed è conosciuta come una delle più acclamate interpreti dell’opera di Gabriele d’Annunzio. Ha allestito i suoi recital/concert dannunziani e i suoi monologhi dedicati ad Eleonora Duse e Maria Callas, in Italia, Russia, Giappone, Francia, Bielorussia, Germania, Polonia, Turchia, Stati Uniti e Cuba. Oltre alla stesura di quindici testi teatrali, ha al suo attivo saggi e biografie e con Piemme nel 2020 ha pubblicato Le Magnifiche-33 vite di donne che hanno fatto la storia d’Italia che ha riscosso un lusinghiero successoPer la sua poliedrica attività artistica e per i prestigiosi traguardi raggiunti le sono stati conferiti 37 premi letterari nazionali ed internazionali e 18 premi alla carriera.

Giuseppina Capone

Dante Alighieri

Paola Cantatore è nata a san Giovanni Rotondo nel 1979. Appena ha potuto, dopo il liceo classico, ha trovato una scusa ufficiale per viaggiare ed esplorare il mondo studiando Lingue e Civiltà Orientali a Napoli, per poi involarsi per Tokyo. Nel 2006 torna in Italia e si trasferisce a Ferrara, votandosi al pendolarismo. Ama tradurre, collezionare fumetti e libri che forse non riuscirà mai a leggere e coltivare pomodori pugliesi nel suo minuscolo giardino. Insieme ad Alessandro Vicenzi, ha realizzato Losche Storie, una serie di racconti biografici sui grandi personaggi della storia. Dal 2008 è traduttrice ed editor presso la Franco Cosimo Panini Editore. Con lei parliamo di Dante Alighieri.

Il 2021 celebra il settecentesimo anniversario della morte di Dante in maniera notevolmente articolata e corale, escludendo barriere tra le discipline artistiche e non. Cosa ha rappresentato ed ancora oggi rappresenta Dante?
Dante non solo può essere considerato legittimamente il padre della lingua italiana e un vero e proprio simbolo del nostro Paese, ma ha rappresentato per lunghi secoli un’ispirazione. Da Ariosto a Goethe fino ai grandi scrittori del Novecento come Valéry, Proust, Borges, Camus e Pasolini… Tutti sono stati ispirati da Dante! Ma per quanto “inseguito”, nessuno è mai riuscito a eguagliare la sua fama. Prima di lui c’erano scrittori di rime per musica, qualche religioso che scriveva testi teologici o filosofici e poco altro. Dopo di lui c’è la letteratura. La cultura dell’Italia (e forse l’Europa) non sarebbe quel che è, se non ci fosse stato Dante.

Il Dante di cui illustra la biografia adopera un “linguaggio” di verità: bello, brutto, maestà e squallore, operosità e rassegnazione, meraviglia e mistero coabitano, s’annodano e si arruffano.
La modernità di Dante sta nel concedere al lettore di scoprire la propria fragilità?

Nella sua poesia, Dante è riuscito a portare praticamente alla perfezione ciò che Omero e che Aristotele, Orazio e Plutarco ritenevano indispensabile per l’arte poetica: l’immediatezza visuale e la vivacità pittorica del linguaggio poetico. Dante è moderno perché il suo linguaggio, attraverso i secoli, continua a catturare il lettore, ad ammaliarlo e a renderlo partecipe di quanto legge. E perché la Divina Commedia racconta di noi. È un’opera universale, che parla dell’essere umano in quanto tale, e dal tempo di Dante a oggi gli uomini sono cambiati poco. Dante, a ben guardare, non viveva in un mondo troppo diverso dal nostro. Certo, oggi godiamo di condizioni di vita decisamente migliori rispetto ai tempi in cui lui visse, possediamo tecnologie infinitamente più efficienti, ma proviamo le stesse viscerali emozioni di settecento anni fa. È cambiato il nostro rapporto col divino, la concezione che abbiamo di noi stessi si è ridotta su scala ben più piccola. Al suo tempo ci pensavamo come il centro della Creazione, oggi siamo animali evoluti che abitano un puntolino di terra in un universo assai meno ordinato e miliardi di volte più ampio di quanto non fossimo capaci di immaginare allora. Ma restiamo parte di una società, che funziona con gli stessi meccanismi di quella in cui ha vissuto Dante, e in campo morale l’uomo non è cambiato granché.

Si può affermare che l’Italia sia venuta alla luce anche grazie ad una sorta di “Dantemania” che ha appassionato l’intelletto e l’animo di innumerevoli giovani tra Settecento ed Ottocento.
Dante può essere considerato il nostro autentico Padre della Patria in senso politico?

No e… sì. Dante non ha un’idea dell’Italia come di un’entità politica a sé. Per Dante l’Italia non è una Nazione autonoma, ma è parte della monarchia universale, con una posizione preminente nel Sacro Romano Impero. È, infatti, “‘l giardin dello ‘mperio” e Roma, nella sua visione, ne è la capitale naturale. L’Italia è dunque per Dante più un sogno, un’idea. Da questo punto di vista Dante è “il profeta” dell’Italia che verrà. Ma ne è anche l’ispiratore. Dopo di lui verranno Petrarca e Machiavelli, Ariosto e poi Vico e Alfieri, Foscolo e Leopardi, e col tempo i grandi sognatori d’Italia, fino agli scrittori, i poeti e i pensatori risorgimentali… in questo senso Dante è il vero fondatore d’Italia.

Morale, religione, politica, amore, odio, passioni, vizi, virtù: come far coesistere il messaggio e la visione dantesche con l’umanità divisa e fragile del Terzo Millennio?
Nel leggere Dante si riscoprono i peccati mortali come la superbia, l’invidia, l’ira, l’accidia, l’avarizia, la gola, la lussuria, peccati considerati oggi meno gravi. Eppure, l’etica dell’Inferno viene apprezzata anche oggi, in particolar modo dai giovani, ed è un punto di riferimento in un mondo caratterizzato dall’appiattimento dei valori e dalle incertezze. Direi che Dante rappresenta un sostegno, un “centro di gravità permanente” nella condizione di debolezza che caratterizza il mondo occidentale. E i ragazzi lo ammirano anche perché ha il coraggio di denunciare e riesce a punire la corruzione della politica, del mondo della finanza e della Chiesa. Se vogliamo, ai loro occhi è una specie di “giustiziere”.

L’illustratore e fumettista Marino Neri dà vita ad un Dante intenso mediante illustrazioni fortemente espressive, dai poderosi contrasti.
Chi è il destinatario privilegiato di un testo tanto insolito, giacché non si disquisisce né della Divina Commedia né del Poeta?

Il destinatario ideale del libro è principalmente il giovane lettore, o un adulto interessato e incuriosito (che però non lo è tanto da imbarcarsi nella lettura di biografie ben più poderose). Il libro non ha la pretesa di disquisire, ma semplicemente di raccontare la vita di Dante, in maniera accessibile e un po’ diversa dal solito, e di rendere più contemporanea la vicenda umana di quello che prima di diventare il Somma Poeta che tutti conosciamo, fu a sua volta un ragazzo, e poi un adulto tormentato, con le sue passioni, i suoi sogni, ma anche i suoi dubbi e le sue fragilità. Questo è possibile perché prima di me e Alessandro Vicenzi – coautore del libro – altri (e ben più illustri) nomi, hanno raccontato storie sulla vita di Dante, a partire dal Boccaccio. E anche perché, leggendo i testi danteschi, affiorano elementi biografici, che permettono di trarre delle conclusioni sui suoi antenati, sul maestro Brunetto Latini, su Beatrice, sull’esilio e sulla sua condizione di migrante. Questi elementi sono, però, solo piccole tracce che aprono lo spazio all’immaginazione. La frammentaria biografia dantesca e la difficoltà degli studiosi a trovare documentazioni attendibili che completino il puzzle, invita a cercare, a colmare le lacune e a sviluppare alcune teorie. Nel libro ci siamo attenuti a quelle storiograficamente più attendibili, ma abbiamo tratto a piene mani anche dal già citato Boccaccio, vero fan boy di Dante: fu lui il primo a trasformarlo in un vero e proprio personaggio da romanzo.

Giuseppina Capone

Dario Argento: il maestro del brivido

Dario Argento, soprannominato il maestro del brivido, perché ha dedicato quasi tutta la propria produzione al cinema horror, è il noto regista, produttore cinematografico e sceneggiatore italiano. Uno dei suoi film più celebri è Profondo Rosso ed è proprio grazie a questo suo capolavoro che Dario Argento è diventato uno dei registi più acclamati in tutto il mondo soprattutto per gli appassionati del cinema horror.  Il regista, in una delle sue interviste, racconta che da sempre è stato attratto dalla psiche umana, difatti, la maggior parte dei suoi film,  trattano  un tema psicologico come quello del trauma. Il re dell’horror utilizza la psicanalisi per entrare nella mente dello spettatore, per affascinarla, introducendo spesso scene disturbanti (grazie soprattutto all’uso di effetti speciali in particolare giocando sui meccanismi della suspense). La sua maestria non è solo nella fotografia ma è anche e soprattutto nella colonna sonora; è stato uno dei primi registi italiani capace di far sposare la narrazione cinematografica con la narrazione musicale poiché, nei suoi film, sono in numero minore le scene non accompagnate da musica. Ed è proprio con la musica, in questo caso inquietante, che Argento riesce a far entrare lo spettatore in uno stato umorale di tensione prima ancora di vedere la scena.

Ma veniamo a Profondo Rosso

Marc Daly è un jazzista inglese che si  ritrova a far da testimone del tribunale omicidio della sensitiva tedesca Helga Ullman che, poco tempo prima dell’omicidio, durante la conferenza tenuta dal professor Giordani, (psichiatra) all’interno di un teatro aveva avvertito la presenza di un serial killer. L’agitazione per la circostanza fa accantonare una questione importante per Marc, perché in alcuni quadri, (composizioni inquietanti di volti di Enrico Colombotto Rosso) all’interno dell’appartamento della donna aggredita, riesce a notare un dettaglio fondamentale ai fini della soluzione delle indagini. Carlo, che soffre di dipendenza compulsiva dall’alcool, è il collega pianista di Marc che, preoccupato per l’amico (perché decide di indagare personalmente sulla morte della donna con l’aiuto della giornalista Gianna Brezzi e Giordani), lo supplica di non lasciarsi coinvolgere del tutto dal caso poiché si trattava di un pazzo assassino: uno psicopatico schizofrenico che utilizza un inquietante canzone per bambini come sottofondo per accompagnare il suo omicidio. Amanda Righetti è l’autrice di un libro che può aiutare a risolvere il caso ma l’assassino arriverà sempre prima che Marc possa raggiungere la scrittrice. Il killer arriverà ad uccidere anche Giuliani prima che egli comunichi a Marc il nome del colpevole. Marc raggiunge finalmente il suo obiettivo: in una villa abbandonata trova un cadavere mummificato e un disegno angosciante in cui c’è la firma di Carlo, il suo amico che poco dopo morirà vittima di un incidente stradale. Il disegno raccontava l’omicidio a cui Carlo aveva assistito in tenera età: sua madre che accoltella suo padre.  In quel momento i ricordi di Marc affiorano; il volto del vero assassino (riflesso nello specchio che aveva scambiato per un quadro) era il dettaglio che aveva dimenticato.  l’assassino è la madre di Carlo, Marta che insegue Marc con la macchina dopo aver capito che quest’ultimo era al corrente della verità, e, in seguito ad un breve litigio tra loro,  Marta rimane decapitata dall’ascensore del palazzo. L’ultima scena ritrae Marc immobile con i piedi immersi nel sangue.

Gli elementi principali di questo film sono lo specchio e la musica. Lo specchio, poiché posizionato tra tanti quadri in modo tale da dare la possibilità al killer (inizialmente e al momento dell’omicidio) di nascondersi depistando le indagini pur essendoci la sua immagine riflessa,  allo stesso tempo, però, rivelerà il volto dell’assassino. Per quanto riguarda la musica, invece, la cantilena di natale racconta la triste storia di un bambino (Carlo) che, per difendere il segreto della madre,  da adulto sarà prigioniero del trauma; non avendolo mai elaborato la sua vita sarà per sempre condizionata. Il messaggio che vuole mandare il regista è chiaramente di aspetto psicologico: se un trauma non viene elaborato e curato porta all’autodistruzione. Ancora, in tutti i film di Argento, traspare  il suo amore per la cultura, per il teatro, per i libri e per la musica.

Alessandra Federico

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