Valentina Della Seta: Le ore piene

Valentina Della Seta, scrittrice, collabora con Domani, GQ, Rivista Studio.

“Era passato l’inverno e non avevo fatto altro che invecchiare”
Quale relazione tesse la protagonista del suo romanzo tra Tempo e Corpo?

La protagonista all’inizio del romanzo vive in uno stato leggermente disancorato dalla realtà: non ha rapporti stretti non nessuno, lavora da sola, attraversa una serie di giornate tutte uguali e non si accorge del tempo che passa. Al corpo non sembra dare peso, se ne prende cura ma fa in modo di non occupare troppo spazio, di non inquinare, per questo va in bicicletta e fa la spesa al mercato di quartiere. Le cose cambiano quando sente il desiderio di una relazione. Immagina una relazione e si percepisce inadeguata, vede il proprio corpo in una luce che evidenzia uno per uno i cambiamenti legati al passare del tempo. Si accorge che in un certo senso è tardi, ma questa cosa la risveglia, le dà la possibilità di smettere di vivere da sonnambula e cominciare ad assaporare intensamente i momenti.
Questo è un libro che gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni.
Qual idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?

Non volevo esporre alcuna tesi sui rapporti umani, ho cercato di raccontare una storia di persone che si incontrano al di fuori dei circuiti abituali e che quindi non hanno molto in comune se non la voglia di aprirsi e fidarsi di un certo tipo di esperienze. Mi ha sempre affascinato l’infinita varietà di persone che esistono e si possono incontrare nel mondo; e l’infinita varietà di relazioni, anche inaspettate, che possono nascere. I personaggi del mio romanzo forse hanno in comune il coraggio di mettere in campo le parti più istintive di sé, quelle che rimangono quando ci togliamo gli abiti di scena legati al lavoro e al contesto sociale, culturale, familiare.

Oggidì, il corpo messo al centro del dibattito nella società contemporanea è quello muliebre. Quali forze diverse ed in contrapposizione si combattono su questo campo?
Mi sembra che al centro del dibattito ci sia il corpo di tutte e tutti, non solo quello delle donne. C’è il corpo delle donne che ha conquistato la libertà (purtroppo ancora solo in una parte di mondo, e lotteremo fino a che non sarà così per tutte e tutti) dopo secoli in cui è stato tenuto segregato nelle case, nelle cucine, nei salottini, lontano dalla vita pubblica e dal piacere sessuale. C’è anche il corpo degli uomini, che può smettere di uniformarsi a codici di abbigliamento, comportamento e identità che a molti andavano stretti. C’è il corpo delle persone trans e il corpo fluido. C’è il corpo disabile, che rivendica spazi e desideri. Più che alle contrapposizioni mi piace pensare alle cose che uniscono: l’avere un corpo è un’esperienza universale.
“Non ho avuto voglia di rispondere, mi sembrava che il nostro modo di stare insieme ci portasse a un livello di verità che non aveva bisogno di troppe parole. Una volta tanto non avevo dubbi su me stessa e non mi sentivo fuori posto”
Cosa determina il riscatto della donna sul corpo?

La donna del romanzo più che altro cerca un riscatto dall’insicurezza che la tiene lontana dagli altri. E in parte lo trova quando si affida totalmente ai desideri, al corpo, all’attrazione che prova per P. Lei smette di pensare, di farsi domande, si butta nell’avventura e nell’inaspettato. Le ore piene è un romanzo di scoperta, un romanzo d’amore.
La sua prosa non vela, non omette, non camuffa: il lessico è volutamente inequivocabile. Perché ha desiderato non intaccare l’esplicita logica connessione lettura-comprensione?
Ho cercato a lungo una voce che mi permettesse di raccontare questa storia, quando l’ho trovata è stata lei a dettare le parole e il ritmo delle frasi. Credo si tratti di una voce molto diretta ma nello stesso tempo timida, che ha paura di invadere, di annoiare l’interlocutore. Credo anche che la paratassi in un testo non equivalga per forza a una freddezza. Ho usato tante virgole, anche dove avrei potuto usare il punto o i due punti. Mi piacciono le possibilità lasciate aperte dalla virgola, amo la sua morbidezza.

Giuseppina Capone

I Puffi: origini e significato

I Puffi sono una creazione del fumettista belga Pierre Culliford in arte Peyo. Peyo diede vita ai Puffi nel 1958 e sono apparsi, da lì a poco, come personaggi secondari nella serie Jhon e Solfami. Ma il successo di queste piccole creature blu fu immediato tanto da dargli il ruolo di protagonisti in un racconto tutto loro che ad oggi possiamo vedere in più di 400 puntate divise in  9 stagioni. Dolci, teneri e gioiosi, i Puffi hanno da sempre catturato l’attenzione dei più grandi e dei più piccini con le loro storie fantastiche e avventurose e la loro allegria contagiosa che fa appassionare e innamorare chiunque abbia anche solo una volta ascoltato la sigla iniziale della serie. La realizzazione del cartone animato dei Puffi è stato una collaborazione con Yvan Delporte, fumettista e editore.

La storia

Schtriumpfs, è il termine Puffo in belga. Questo tenero nome nacque per caso quando Peyo, durante una cena, chiese al suo migliore amico di passargli la saliera chiamandola puffo “tieni il puffo, rispose l’amico – quando hai finito di puffare ripuffalo al suo posto”. Questa conversazione diede vita alla creazione dei Puffi e diventò presto il linguaggio degli ometti blu. Strunfi, fu il primo nome dei Puffi quando arrivarono in Italia all’interno della rivista Tipitì, ma poco dopo il Corriere dei Piccoli diede loro il nome Puffi. L’originale caratteristica della serie dei Puffi è proprio quella di inserire la parola Puffo all’interno di ogni frase (come ad esempio Puffare – Puffoso – Puffato e tanti altri termini simpatici e divertenti). Il nome di ogni puffo è stato assegnato in base ad un particolare che lo caratterizza o dal ruolo che il Puffo ricopre nel villaggio.

In collaborazione con lo studio Tva Dupuis, Peyo, creò la prima serie televisiva nel 1959. Entrava finalmente nelle case italiane all’interno del programma televisivo di Rai “Gli Eroi di Cartone” nel 1970. per realizzare questa serie Peyo, utilizzò la tecnica di animazione che consisteva nel muovere le figure di carta dei Puffi su dei disegnati. Ma la serie più amata di sempre è quella andata in onda per la prima volta nel 1981 fino al 1990 in Italia e in America. Al produttore della Nbc, Fred Silverman, venne l’idea per un cartone animato dei Puffi (che sarebbe stato perfetto per il Palinsesto della domenica mattina) quando, verso la fine degli anni ‘70, a sua figlia le regalarono un peluche di Puffetta.

In Italia, a contribuire al successo della serie animata, che approdò presto anche su Canale5 e Italia1 dove le repliche andarono in onda per molti anni, fu senza dubbio la musica. La prima serie fu intitolata Arrivano I Puffi (1981) accompagnata dalla sigla iniziale. In seguito la serie fu acquistata da Fininvest (trasmessa anche su Canale5) elaborarono altre nuove sigle cantate da Cristina d’Avena.

Le critiche

Diverse sono state le polemiche da parte di diversi critici il quale affermavano che il cappello bianco dei Puffi ricordasse il cappuccio del Ku Klux Klan. Non solo, sostenevano che il rosso del vestito del Grande Puffo sia stato ispirato dal Leader del Kkk perché anche lui è vestito di rosso.  Ancora, alcuni dicevano che il colore blu del Puffo sia un riferimento alla Massoneria e che il rosso del grande puffo sarebbe un chiaro riferimento al modello comunista descritto da Carl Marx ne Il Capitale.

Al contrario, Peyo raccontò che per quanto riguarda il cappello dei Puffi si era ispirato al berretto frigio degli schiavi dell’antica Roma (cappello che ha avuto un grande significato nella storia) che lo indossavano  come simbolo della loro libertà ritrovata. Ragion per cui per il creatore dei Puffi, il loro cappello ha un significato molto profondo, ed è il simbolo del villaggio dei Puffi:  villaggio in cui vivono in totale libertà, in cui vivono in una società senza classi sociali e dove sono identificati attraverso il lavoro che ogni puffo svolge.

Peyo ha voluto comunicare e trasferire  un messaggio di pace e serenità, cordialità e di forte empatia attraverso l’esempio della convivenza, dell’unione e della collaborazione tra i Puffi all’interno del villaggio, mostrando le loro grandi differenze caratteriali non contrastanti tra loro, bensì uniti in un reciproco rapporto di umanità, di rispetto, unione e amore.

“L’amore porta il sole anche dove non c’è”  (cit. dalla terza sigla de I Puffi).

Alessandra Federico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Grazia Frisina: Pietra su pietra

Le sue pubblicazioni: il romanzo A passi incerti (2009 finalista “Premio Firenze” 2009), il dramma poetico sulla Shoah Cenere e cielo (2015- rappresentato al museo della Deportazione di Prato), le raccolte poetiche Foglie per maestrale (2009), Questa mia bellezza senza legge (2012), Innesti (2016 – opera vincitrice alla XVI ed. Premio Carver, 2018), Pietra su pietra (2021), I drammi poetici Madri (2018) pref. di Marinella Perroni, (dalla pièce Stabat Mater è stato realizzato un corto, girato nel carcere di Pistoia)
È presente, con alcuni suoi componimenti, in varie riviste letterarie nazionali.
Presso la biblioteca San Giorgio di Pistoia ha curato La gioia diventa un dipinto, incontro sulla poesia di Emily Dickinson, tra arte e musica (2014), e il dialogo poetico: Ricordi come raccoglievamo i narcisi, sulla storia d’amore fra Sylvia Plath e Ted Hughes (2015).
Presso la casa-museo Guidi di Firenze ha ideato e curato il dialogo poetico Il mare nel vento – Una voce dentro l’altra, sull’amore fra Elizabeth Barrett e Robert Browning (2017).
Ha partecipato al festival di poesia Notturni di versi di Portogruaro (ed.2016 e 2021).

 

28, unione panica con la natura nonché rilievo del poeta nel mondo coevo. Paiono tematiche prive di un fil rouge. E’ possibile, invece, scorgere una traccia che le inanelli?
Come nel nostro intimo essere è tutto un ondulare di dissonanze e ossimori, allo stesso modo sappiamo che non c’è linearità nel vivere: un avvicendarsi tumultuoso di eventi e cose, un susseguirsi di istanti mai uguali e sempre in fuga. Una rapinosa dispersione.
Attimi e accadimenti in apparenza scissi, contrastanti, inconciliabili fra di loro, ma in ogni caso l’uno legato all’altro nel sottile, mutevole filo della nostra disarmata esistenza, scorrente in un’ininterrotta metamorfosi.
Ecco, così nei miei versi, tento di ritrarre la multiforme, cangiante gamma del vivere.
Nel compiere ciò, il mio avvicinamento alla natura, alle cose e alla realtà cambia, si fa accurato, attento, mediante un ascolto minuzioso e stupefatto di ogni sensazione, tattile, olfattiva, uditiva, visiva, come se si trattasse dell’avvento di un inopinato scoprimento.
La linea che unisce le tematiche dei miei componimenti è come una partitura; movimenti sincopati, timbri bassi e acuti, in cui s’alternano e s’intrecciano nella loro singolarità, in un gioco di inseguimenti e di rimandi, occasioni, volti, luoghi, incontri, memorie, contemplazioni, senza alcuna antinomia, né scarto.
Trattengo fra le mani piccole scaglie, dettagli emersi dai sedimenti della mente o quelli fortuitamente sopraggiunti; rendo loro testimonianza, riportando i segni del loro fugace attraversamento, traducendoli in alfabeti, in parole, in immagini e, per quanto possibile, in versi. Per dare dunque dignità all’attimo vissuto, altrimenti destinato alle fauci della dimenticanza.
In un tempo politico, sociale ed economico che grida l’impellente bisogno di tessere un dialogo con sé stessi, la conflittualità interiore può essere lenita dalla scrittura, nella fattispecie dalla poesia?
Viviamo in un’epoca di derive e nichilismo, distanti dai sogni e dai valori culturali e sociali su cui la nostra civiltà ha fondato le sue basi. Questo è un tempo di scollamenti, di coscienze private dell’indugio, della capacità orfica di scendere e di sostare nell’interiorità, in quel territorio dell’oltranza, dove luce e ombra, nel loro continuo dissidio e intreccio, assumono una rilevanza simbolica.
Se riuscissimo a sottrarci alle dinamiche vorticose che oggi la vita impone e schiavizza chimericamente noi tutti, potremmo, con un esercizio di cura e di lentezza, recuperare la necessità di entrare in comunione con l’ignoto, con quell’altrove che soggiace all’io più manifesto.
La scrittura rappresenta di sicuro uno strumento che permette sia la discesa che l’esplorazione in quella regione assolutamente sconosciuta e impenetrabile che è “il porto sepolto” del nostro inconscio. La scrittura, in particolare la scrittura poetica, si presenta come scandaglio, che scruta e tocca la sostanza incorporea, sfuggente e inesprimibile dell’anima e può, seppure in minima parte, tentare di pervenire a una qualche forma di conoscenza e consapevolezza, di sciogliere certi grovigli di un’ansia perpetua, di una mai risolta tensione di uno spirito inquieto, sempre proteso a un’attesa o a una ricerca di senso, di un remoto e quanto mai irraggiungibile sacro Graal. E di rispondere infine all’urgente bisogno di esprimere e oggettivare anche solo un piccolo brandello o un impercettibile brusio di quell’ignoto appena lambito nella voragine oscura del proprio io.
Il fare poetico è un fare pausato e meditativo e tuttavia non si tratta di un procedimento passivo, inerte: spinto da un ansito interiore ha un suo movimento, un procedere verticale, ascensionale, che dal profondo si erge verso l’esterno, verso il mondo, verso l’alto, aiutando ad accorciare l’infinita distanza tra sé e il proprio abisso, tra la propria carnalità dolente e il divino mistero, tra le domande irrisolte e le manchevoli risposte.
Ecco, grazie alla poesia, alla vera poesia, si sperimenta il recupero dello spirituale, di quell’elemento così tanto censurato e soffocato dal compulsivo dinamismo e dal fragore ottenebrante delle nostre odierne società.
“Pietra su pietra”, un incedere dal basso verso l’alto, per strati differenti, congiunti alle multiple forme del vivere ed alle plurime forme del sentire. Il suo “viaggio” è faticoso, scosceso, una scalata a mani nude. Il dolore come condizione ontologica?
Il destino umano è un destino universale di prigionia, di abissi e di dolore: ogni giorno si vive l’esperienza della propria fragilità e finitezza, della propria imperfezione e incompiutezza. Condizione dell’anima è la condizione di un perenne esilio.
Ma è proprio col corpo straziato e nell’antro notturno di un’anima dilaniata che si può intravedere la scheggia luminescente, il riflesso di un bagliore, il presagio ineffabile di una bellezza anche solo da sfiorare momentaneamente.
Dalla sofferenza nasce un nuovo modo di porsi nei riguardi della vita e dei suoi polimorfi accadimenti, di avvicinarci ad essi con sguardo di stupore e animo di accoglimento. Le ferite acuiscono le percezioni, raffinano la nostra sensibilità; ci portano a cogliere le pieghe dell’essere terreno, ciò che esse custodiscono, anche nel loro sottrarsi, nel loro nascondimento, nel loro buio, dal quale nondimeno lanciano i loro richiami silenziosi.
Il fluire routinario della vita, tra cadute, perdite e dolori, non esclude dunque il lenimento di un conforto, l’epifania di una gioia che comunque l’esistenza nel suo assiduo, caleidoscopico manifestarsi, di tanto in tanto, ci dona.
Lei scrive narrando una quotidianità atemporale, in cui si stenta a riconoscere il contesto storico, che pure è presente. Reputa che la vita umana viva una costante condizione di anonimato, fuori dal tempo e dallo spazio?
Dimentichi del passato, privati del futuro, lontani dai miti, dagli ideali, dalle passioni, dalla fede, perché come affermava Martin Heidegger “non solamente gli dei sono fuggiti, ma lo splendore della divinità si è spento nella storia del mondo”, il nostro collettivo modus vivendi è spesso conchiuso in un camminamento stanco, miope, ridotto alla mera contingenza, intorpidito nella meccanicità di un fare quotidiano, ruotante nell’asse di un presente snudato di significato.
Un vivere oggi sedotto dagli ambigui, squillanti allettamenti di un mondo che ci vorrebbe massa omologata nel trionfo del consumo e dell’apparenza. Ma dietro lo sfavillante teatro del clamore e dell’efficienza, si sa esserci un mesto scenario, un dramma popolato da comparse, da individui oppressi nella medesima triste condizione di isolamento e desolazione, col pensiero e il cuore ammutoliti, spenti nell’assenza di dialoghi, di umane ed empatiche relazioni, uomini e donne impiombati nella gabbia di scambi virtuali, ciechi persino di fronte alle proprie sopraffatte individualità, senza possibilità di affrancamento alcuno né di risveglio, senza apertura al domani.
E tuttavia occorre aver fede nella forza disvelatrice e salvifica della parola poetica, capace di riscuotere l’uomo dal suo immobile letargo, di “sgelare gli occhi alla luce”
La sua versificazione appare, talvolta, refrattaria al rispetto ovvio ed ossequioso delle norme grammaticali, compromettendo irrimediabilmente la logica connessione lettura-comprensione. Qual è la chiave d’accesso per discriminare i suoi intenti comunicativi?
Scrive Cristina Campo: “la pura poesia è geroglifica, decifrabile solo in chiave di destino.” Chi scrive poesie infatti non ha nessuna chiave d’accesso da porgere al proprio lettore; giacché colui che legge, nell’accostarsi a un componimento, dovrebbe individuare e trovare in sé la modalità per entrare e cogliere tra i versi, tra le parole, persino nei silenzi degli spazi bianchi, ciò che avrà risonanza nell’intimo suo personalissimo sentire.
Perché l’intento del poeta non è mai quello di comunicare messaggi, né di essere compreso o di dare risposte, al più tacitamente chiede di creare una qualche segreta, remota reciprocità, un viaggio, un’avventura dello spirito da compiere ciascuno nella propria solitudine.
L’oscuro è l’essenza della poesia, il suo spessore vertiginoso: là sta la sua intensità, come la sua vulnerabilità.

Giuseppina Capone

Successo della Milano fashion week

L’evento tanto atteso per gli amanti dell’alta moda è finalmente tornato. Milano, capitale della moda italiana, torna ad accogliere celebri Fashion Designer e non solo, nuovi talenti emergenti hanno avuto l’opportunità di partecipare allo Show per presentare le loro collezioni durante la settimana della moda dal 22 al 27 settembre. Quarantadue sono state le sfilate dal vivo su sessantuno eventi previsti. Ancora, a tornare sulle passerelle è stato anche il Green Carpet Fashion Awards che ha premiato Brand e Designer che si saranno distinti nell’applicazione di principi della sostenibilità dell’industria della moda. Inoltre, si è data l’opportunità di presentare le loro creazioni (durante la Fashion Week) anche agli studenti provenienti dalle migliori scuole di moda italiane grazie alla sfilata di Milano Moda Graduate giunta ad oggi alla sua settima edizione.

“La nostra città è un marchio globale di bellezza ed eccellenza e, grazie al merito della campagna vaccinale, con Green pass alla mano, la Milano Fashion Week vivrà nuovamente l’emozione regalate dalla moda, tra artigianalità e innovazione, con nomi rinomati in tutto il mondo e nuovi talenti, ora con un occhio sempre più sostenibile” – ha dichiarato Beppe Sala, sindaco di Milano, durante la conferenza della Camera della Moda italiana.

Si è celebrato anche il 40° anniversario di Emporio Armani, l’anniversario per i 60 anni del Brand Marcolin, la celebrazione dei 50 anni di carriera di Chiara Boni e l’evento per il ventesimo della collezione Nudo di Pomellato. Con grande piacere, invece,  e per la prima volta nel calendario presentazioni, i brand Colville, Quira, Defaince by Nicola Bacchilega e Roberto di Stefano, Traffico, Airin Tribal, ATXV, Cormio, Andreadama .Grazie alla collaborazione tra CNMI e Black Lives Matter in Italian Fashion Collective, hanno aperto la Milano Fashion Week il 22 settembre, con le loro nuove collezioni, i nuovi talenti BIPOC (black indigenous people of color),all’interno di una Fashion Show digitale.

Fashion Bridges – I ponti della Moda” è un progetto lanciato a luglio organizzato insieme all’Ambasciata d’Italia in Pretoria, Polimoda, e Sud Africa. Progetto realizzato da quattro ex studenti della scuola e lavorato in coppia con quattro designer della South Africa Fashion Week, e, come risultato del lavoro svolto durante il percorso di mentoring, (con il supporto di CNMI) hanno presentato le loro Capsule Collection durante il Fashion Hub. Oltre a Milano, la collaborazione continuerà anche in Sud Africa in occasione della Fashion Week di Johannesburg che si terrà a fine ottobre. La Camera Nazionale della moda ha dato  la possibilità di seguire l’evento sul portale ufficiale della manifestazione.

Alessandra Federico

Giorgio Franchetti: A tavola con gli Etruschi

Giorgio Franchetti si interessa di storia romana da decenni. Per le Edizioni Efesto ha pubblicato il saggio storico “A Tavola con gli Antichi Romani”, (2017).

Lei ha definito la storia romana “un materasso culturale per il mondo intero”.
Ce ne spiega le ragioni?

Con piacere. È una questione, a mio avviso, sociologica. Anzi, guardi, diciamo meglio: di antropologia sociale. Roma arrivò a inglobare, sotto Traiano, un territorio vastissimo, popolato di genti che entrarono in contatto con gli occupanti e che, con loro, instaurarono un rapporto di osmosi culturale. Quando due o più popoli entrano in contatto è inevitabile una reciproca contaminazione, si prende e si dà, e questo avviene, negli individui, a vari livelli di coscienza: consapevolmente, e non. La contaminazione vera e propria, a mio parere, è quella a livello più profondo, quella inconsapevole, perché a livello di volontà si può operare una scelta che può decidere di escludere talune cose. Quando invece quelle cose sono percepite indirettamente si radicano più profondamente nell’animo proprio perché non si riesce ad arginarle. Un tempo, anche tra culture confinanti, esistevano divisioni più nette garantite da distanze maggiori tra centri abitati e dalla minore possibilità di interazione e comunicazione. Quindi poteva accadere che popoli anche vicini fossero molto diversi culturalmente. In questi incontri-scontri (perché a volte la cultura è stata “esportata” con la guerra) spesso esisteva uno squilibrio tra chi dava e chi riceveva novità. Quando Roma arrivò in Gallia con Cesare nel 58 a.C. trovò tribù divise, autonome, disorganizzate, culturalmente limitate nella loro espressione di civiltà organizzata, con evidente limite al processo di civilizzazione. Roma, invece, dopo sette secoli di storia, era a tutti gli effetti una civiltà, nel senso stretto del termine, che non va confuso con cultura. Per civiltà si intende un popolo che si è costituito e dato un ordinamento sociale, che si riconosce come un’unità per condivisione di vari fattori comuni, per la presenza, a mio avviso, di infrastrutture di beneficio pubblico e per un’organizzazione istituzionale. In Gallia c’era una grande cultura, ma non una grande civiltà. Roma, al contrario, fu da subito una monarchia costituzionale, come osservò Mommsen. In questo panorama storico, il divario tra due popoli così profondamente impari porta inevitabilmente, nel contatto, a uno squilibrio nello scambio di novità, informazioni, passaggio di concetti. È il più debole, o il meno organizzato e progredito, a ricevere il maggior beneficio dall’altro. D’altronde, il progresso corre sempre in un’unica direzione e, volontariamente, non inverte mai la rotta. Il concetto stesso di progresso prevede l’innalzamento di un fattore rispetto una condizione precedente. A questo va aggiunto che i Romani avevano l’abitudine di romanizzare i territori, applicando lì dove arrivavano e intendevano soffermarsi, i princìpi che adottavano in patria, e questo dicasi sia per la normativa (pur rispettando spesso la normativa locale alla quale la romana si sovrapponeva per giudizi di grado superiore), sia per quanto concerneva la costruzione di infrastrutture pubbliche. E questo avvenne non solo nei confronti di popoli divisi in tribù, come ad esempio in Gallia e in Britannia, ma anche nei confronti di popoli più organizzati e civilizzati. Non avvenne in Grecia, o quanto meno non in maniera così forte, perché esisteva già una fiorente civilizzazione che, al contrario, diede molto a Roma sotto il profilo culturale. Ma si tratta di un caso isolato. Per il resto, Roma impresse il proprio stile e il proprio modus vivendi e l’alta civilizzazione raggiunta si diffuse poi a livello mondiale. Il merito va agli autori classici. Da sempre considerati modello da tutti (lo stesso termine “classico” stabilisce un modello consolidato e spesso oggetto di imitazione), vennero continuamente ripresi nel corso dei secoli, da letterati e da giuristi. L’ordinamento giuridico romano, di eccellenza e all’avanguardia nel mondo antico, ancora oggi è alla base degli ordinamenti di tutto il pianeta. Quindi, finita l’epoca dei Cesari, il mondo romano sopravvive grazie alla cultura e alle leggi che ebbe Roma, nelle quali da sempre attingono artisti e giuristi di tutto il mondo. Ecco perché ritengo che la cultura di quel popolo rappresenti un materasso di spunti, ispirazioni e nozioni sul quale l’intero pianeta si adagia ancora oggi comodamente.
Usi, costumi e consuetudini d’un mondo davvero remoto.
Quali sono le difficoltà insite nel lavoro d’un divulgatore storico?
Nel mio caso, principalmente, la scelta del linguaggio da adottare. Quello che cerco di fare è avvicinare il grande pubblico alla storia, all’archeologia e alla storia dell’arte. Tutte bellezze e ricchezze di questa nostra incredibile Italia. Quando operi una scelta di questo genere devi necessariamente trovare il modo di parlare la lingua di tutti. Ti ritrovi a raccontare situazioni, processi sociali, avvenimenti storici che spesso hanno alle spalle intricate ragioni economiche e politiche e devi farlo in maniera semplice, lineare, in modo tale non solo da trasmettere a chi ascolta, o legge i tuoi libri, quei concetti, ma soprattutto far sì che li possa comprendere a fondo. Perché altrimenti non c’è comunicazione, ma solo un polo trasmittente senza un polo ricevente. Durante le presentazioni dei miei libri, o durante le conferenze, io passeggio sempre tra il pubblico, non sto mai seduto dietro una scrivania con un pc davanti e uno schermo dietro. Per due motivi. Il primo è che amo stare tra la gente, guardare le persone negli occhi mentre parlo, a volte singolarmente, creando una sorta di rapporto quasi esclusivo, più personale, con chi viene ad ascoltarmi. Il secondo è che, come ricordo sempre a ogni inizio di conferenza, non sono io il protagonista della storia che il pubblico, quella sera, ha scelto di venire ad ascoltare, ma la Storia stessa. È lei la protagonista, la Storia con la S maiuscola. Pertanto il palco e il fulcro dell’attenzione deve essere solo per Lei e non per me, che invece me ne sto di lato o passeggiando tra la gente mentre proietto immagini sullo schermo. In questo modo, oltretutto, il pubblico si sente più partecipe, empatizza molto di più con il contesto, se ne sente parte, e sicuramente la percezione dell’esperienza, alla fine di tutto, sarà diversa da una normale conferenza. Poi, aggiungo, non mi piace proprio il divario, anche fisico, dello stare dietro una scrivania: crea uno “scalino” che qualcuno potrebbe percepire come “sociale” tra chi parla e chi ascolta, come se ci fosse un “posto” solo per chi parla e solo per chi ascolta al mondo e non deve essere così. Purtroppo a volte chi parla teme di “impoverire” i concetti che esprime se non infarcisce il proprio discorso di nozionismo tecnico. Parafrasando Carandini, è inutile parlare di “dendrocronologia” con persone non tecniche che ti vengono ad ascoltare, è più utile spiegare che esiste un metodo di datazione basato sull’accrescimento degli anelli degli alberi, poi se c’è tra il pubblico qualcuno che sa che si può dire con una sola parola tanto meglio per lui. I paroloni tecnici non aiutano in un ambito non tecnico, e creano invece spesso un divario incolmabile.
Lei svolge attività di ricerca sull’archeo-medicina.
Ebbene, su quali campi di applicazione pratica e teorica s’incentra?

L’archeo-medicina è la mia passione più profonda. Ho incrociato questa branca di studi, che si pone a cavallo tra la medicina e l’archeologia, durante gli anni della mia formazione e me ne sono innamorato. Effettivamente, è un argomento che esula da quelli più comuni, legati alle due materie, e per questo ancora pieno di lati oscuri e interessanti punti di approfondimento. La vita di questi personaggi, i medici antichi, era particolare: si trattava di un esercito di professionisti della salute assolutamente eterogeneo, in ogni campo. C’erano tra loro soprattutto Greci e Romani, ma alcuni provenivano dal vicino Oriente. Alcuni erano schiavi, poi quasi tutti vennero liberati. Altri generarono figli che seguirono le orme paterne e che operarono in totale libertà. Alcuni raggiunsero i gradi più alti, divenendo medici di imperatori e famiglie imperiali, guadagnando anche delle vere fortune, altri, al contrario, caddero così in disgrazia da dover fare “un secondo lavoro”, come il becchino, o peggio ancora, il gladiatore, come ci racconta Marziale. Insomma, c’è un vero e proprio mare di storie ed eventi umani dietro ognuno di questi medici e c’è tantissimo da scoprire e raccontare. Oggi l’archeo-medicina è prettamente vissuta in maniera teorica, con lezioni di storia della medicina nelle università, abbracciando soprattutto il periodo ellenistico greco-romano, e con alcune sortite in Egitto per discutere dei papiri medici. Nel mio caso specifico, però, ho cercato di andare oltre. Negli ultimi 24 anni ho iniziato a farmi realizzare, da esperti artigiani quasi tutti israeliani, delle perfette repliche di strumenti chirurgici presenti in vari musei del mondo, cui ho aggiunto quelli di cui non abbiamo reperti ma che sono perfettamente descritti dalle fonti storiche. Oggi possiedo riproduzioni di strumenti chirurgici egizi, greci e romani, e la mia collezione è stata definita dal prof. Ralph Jackson, il maggior esperto mondiale di medicina antica, come la più vasta e dettagliata al mondo. Questa collezione, che a volte viene ceduta in prestito ai musei per delle esposizioni tematiche (come nel caso del Museo di Storia della Medicina, nel 2019), è al centro degli interventi che ho fatto in alcune università, come Roma Tre, La Sapienza e l’Università di Salerno, durante alcune lectiones magistrales che ho tenuto sulla storia della medicina egizia e greco-romana. I giovani studenti di medicina hanno potuto così vedere da vicino una serie di immagini di reperti e di scheletri e prendere poi visione degli strumenti utilizzati nei casi specifici, oltre a poter toccare con mano tutta una serie di strumenti medici che si sono spesso rivelati estremamente simili a quelli tutt’ora in uso nelle moderne sale operatorie. Questa è la principale applicazione, oggi, di questa conoscenza e di questi strumenti, che ho avuto il piacere di esporre in due occasioni anche presso il Museo di Gerusalemme. Il trasporto di oggetti così particolari attraverso i sistemi di sicurezza aeroportuali di Tel Aviv è stato semplificato dall’intervento dell’Ufficio di Cultura dell’Ambasciata di Israele a Roma, che ringrazio. Naturalmente, oltre all’esposizione durante incontri e dibattiti, un’ultima possibilità di impiego è quella nel settore documentaristico. I miei strumenti sono stati al centro di una puntata di Lineaverde su Raiuno e sono stati segnalati dal prof. Jackson a The National Geographic Channel per un documentario sulla medicina sui campi da guerra nell’antichità, cosa, quest’ultima, di cui vado davvero molto fiero.
“A tavola con gli antichi romani” ed in uscita “A tavola con gli Etruschi”.
Esistevano le diete ipocaloriche tanto in voga oggidì?

Direi proprio di no, non almeno nel senso che intendiamo oggi. Non esisteva il concetto, in antichità. Chi era facoltoso, dimostrava la propria opulenza anche a tavola, specie nell’esibizione presso terzi ma, a differenza di quanto comunemente ritenuto, il ricco romano quando era solo con la propria famiglia, non mangiava nelle sale tricliniari, ma regolarmente seduto. Le sale tricliniari erano intese come una sorta di moderni uffici di rappresentanza, dove ricevere e intrattenersi con personaggi con cui si voleva tramare, fare affari, stringere accordi matrimoniali o anche solo per dimostrare la propria ricchezza e generosità. Il tutto affinché, il giorno seguente, gli invitati potessero tessere le lodi del proprio anfitrione. Marziale scriveva “non è sufficiente per te, Tucca, essere goloso: vuoi che così si dica di te, e così apparire…”. Caligola beveva perle disciolte nell’aceto e cibi cosparsi di polvere d’oro, dichiarando di dover scegliere tra l’essere frugale oppure un Cesare. Anche Adriano fece parlare di sé con il famoso tetrafarmaco, così come Gallieno che indugiava nei peccati di gola. Però, questo sì, esisteva un concetto molto presente presso i Romani, specie quelli di stampo catoniano, che vedeva nell’eccesso di cibo e in quanto circondava questi rituali culinari, un impoverimento pericolosissimo del pondus romano, un ammorbidimento e addirittura una corruzione dei costumi degli avi. Questi personaggi prediligevano (almeno così scrivevano) un’alimentazione più moderata, morigerata, parca. Seneca, ad esempio, invocava una parsimonia veterum che era presente agli albori della storia di Roma e citava la rapa come emblema di questa semplicità. Tra questi strenui conservatori troviamo anche degli imperatori, che facevano della frugalitas un dovere morale nel rispetto delle tradizioni degli antenati. E fra loro Augusto, che mangiava pochissimo e solo il necessario. Ma anche Plinio il Vecchio raccomandava di mangiare poco senza eccessi. Ecco, per loro fu una scelta, poi, certamente, la maggioranza del popolo viveva in povertà e digiunava, a volte, senza scegliere di farlo, o comunque aveva delle carenze a livello nutrizionale spesso evidenziate anche da altri aspetti. Anche qui l’archeo-medicina si incrocia con i dati demografici e sociali: l’ex voto più frequente è il seno, e questa usanza di ricorrere alla sfera religiosa nella cura delle malattie era prerogativa, quasi esclusiva, del ceto medio-basso, cioè quella popolazione che non poteva permettersi cure sofisticate da parte dei medici. Certamente la loro alimentazione era inadeguata e la massiccia presenza di seni dimostra che la lattazione era assente o ritenuta insufficiente.
Lei possiede all’attivo partecipazioni a documentari come “Ulisse” di Alberto Angela o trasmessi da History Channel e The National Geographic Channel.
Quali differenze o analogie potrebbe indicare circa il mezzo di divulgazione storico-archeologica?

Il mezzo televisivo è estremamente potente e persuasivo. Raggiunge moltissime persone usando linguaggi diretti, semplici e accompagnati da immagini. Tutto risulta semplice e di immediato apprendimento da parte del pubblico. Quindi ritengo i documentari uno strumento eccezionale di divulgazione e informazione. Personalmente ritengo che non ci si debba legare a un unico personaggio ma ai contenuti. Il rischio è quello di essere interessati più alla visione del presentatore che all’argomento trattato, e questo è un fenomeno sociologicamente accertato e concreto. Si riesce ad avere la capacità critica di scegliere i contenuti o, tutt’al più, di selezionare le informazioni che vengono veicolate? Non saprei. Quindi, è evidente, chi va davanti a una telecamera ha una grossa responsabilità nei confronti del pubblico. Purtroppo, in questa logica televisiva, succede poi che studiosi assolutamente validi e che usano il giusto gergo nel trattare temi a livello divulgativo siano completamente ignorati, solo perché non sono anche “personaggi” ma solo “persone”. Un caso tra tutti: Alessandro Barbero. Bravissimo storico e divulgatore, non avendo potuto usufruire di grandissime platee televisive non ha il seguito che senza alcun dubbio merita, a mio parere. Infine, va detto, purtroppo c’è anche una forma di sensazionalismo documentaristico, e girando canale lo si può spesso incrociare. Quindi occorre serietà e rigore, sempre. Il pubblico deve saper essere smaliziato e più critico per evitare di incappare nel trash, e deve saper essere maggiormente selettivo nella scelta dell’offerta culturale. Personalmente, l’esperienza che ricordo con maggior affetto e che ritengo sia stato il culmine della mia attività, è stata quella della produzione di Andrea Vogt sul Colosseo, “Coliseum: the whole story”. Ho lavorato in questo documentario dove sono presenti esperti a livello mondiale come il prof. Darius Arya, come la dott.ssa Rossella Rea, all’epoca direttrice del Parco Archeologico del Colosseo, e la dott.ssa Federica Guidi, una delle maggiori esperte italiane sulla storia dei gladiatori. Il documentario è stato trasmesso da Discovery Channel e da History Channel e tradotto in tutte le lingue del mondo, io l’ho visto anche in montenegrino. C’è di che esserne davvero orgogliosi.

Giorgio Franchetti si interessa di storia romana da decenni. Si è formato in Archeologia e Storia dell’Arte presso l’Università della Tuscia e poi presso Roma Tre, ha collaborato e preso parte a documentari di importanti tv del settore storico documentaristico, da Ulisse di Alberto Angela a The National Geographic Channel. Ha scritto molti articoli di storia per diverse testate come Hera, Ars Historiae, Civiltà, BBC History e ha tenuto diverse lectiones magistrales presso l’Università degli Studi Roma Tre, l’Università La Sapienza e presso l’Università di Salerno. È apparso come esperto in un documentario sul Colosseo prodotto da Viasat e tradotto in tutte le lingue del mondo per il circuito Sky (Coliseum: the whole story) ed è stato il protagonista narrante e l’esperto storico per 8 puntate sui gladiatori trasmesse nel 2014 da RAIDUE per la serie Fattore ALFA. Ha diretto documentari e cortometraggi storici di cui ha curato anche la sceneggiatura. Per le Edizioni Efesto ha pubblicato il saggio storico “Panem et Circenses – Vita e morte nell’arena” (2014, tradotto in inglese e francese e classificatosi al 4° posto al concorso nazionale letterario Vittorio Alfieri nel 2016) e “Sangue sulla Decima Legione”, romanzo thriller storico (2015) e “A Tavola con gli Antichi Romani”, saggio storico (2017). Ha scritto la prefazione del saggio sul fenomeno dei gladiatori “Miseria e Fortuna: gli schiavi nella Roma antica” (2016) dello storico Stefano Azzone, del saggio “L’arte della cura. La regola sanitaria salernitana e la teoria dei 4 umori” dell’archeologa Ilenia Tamburro (2019) e di vari romanzi storici, da “Veritas filia temporis. Agguato sull’Aventino” di Alessandro Benin (2017), a “Nemesis. Roma non dimentica” di Riccardo Sciuto. Attualmente sta ultimando la stesura del suo nuovo saggio “A Tavola con gli Etruschi”, che vedrà la pubblicazione nei primi mesi del 2022.

Giuseppina Capone

InnaMORAti dell’Arte

Piacevole serata quella di domenica scorsa, svolta in quel di Angri, al Ritrovo degli Artisti, curata dall’Associazione Culturale “Fratelli De Rege”, inaugurazione stagionale della rassegna teatrale InnaMORAti dell’Arte ideata e realizzata dall’attrice Evelina De Felice. Sul palcoscenico, allestito in ampio spazio all’aperto, gli attori Giovanni Allocca ed Enzo Varone, protagonisti dello spettacolo “…Vieni avanti cretino. Omaggio a Napoli e ai suoi artisti”, nel corso del quale si sono prodotti in scenette che ripigliavano certe semplici ma efficaci modalità umoristiche di un tempo, basate su frizzi, lazzi, incomprensioni e distorsioni lessicali, riportando alla mente figure comiche del passato, mai dimenticate, come Totò, Mario Castellani, Peppino De Filippo, Walter Chiari, Carlo Campanini o Nino Taranto.

A rimpinguare lo spettacolo, la voce e la tastiera elettronica di Sasà Benitozzi e gli interventi dell’attrice Carmen Pommella. Ad arricchire la serata, l’esposizione dei particolarissimi oggetti e capi di abbigliamento realizzati da Benedetta Iovino con foglie vegetali opportunamente lavorate e la mostra d’arte estemporanea di Orsola Supino.

L’iniziativa nasce da riunioni amichevoli all’ombra di una pianta di more, come lascia trasparire il titolo, e dalla sensibile percezione, da parte di Evelina De Felice, di una istanza di socializzazione indomita, a dispetto di ogni pandemia, che l’attrice ha acutamente coniugato alle preclare virtù del teatro.

Gli applausi che hanno coronato l’incontro e le risate che ne hanno costellato lo svolgimento restano la migliore conferma della bontà dell’idea e della sua felice realizzazione.

Sabato prossimo, “Il cane di fuoco. Spettacolo di cunti e canti di mare e di terra, fiabe green, dark, rouge, ma soprattutto bio”, di, e con, Massimo Andrei, che si esibirà con la fisarmonicista Eduarda Iscaro.

Rosario Ruggiero

A Roma la mostra “Touch Nature”

13Cambiamenti climatici, inquinamento da plastica dei mari, cibo sprecato e trivellazioni selvagge: l’arte nell’era del Covid scende in campo per denunciare e contrastare la distruzione dell’ambiente per mano dell’uomo.

Il Forum Austriaco di Cultura di Roma, diretto da Georg Schnetzer, ospiterà dal 15 settembre al 15 novembre 2021 TOUCH NATURE, la collettiva di artisti austriaci e italiani   concepita da Sabine Fellner e curata dalla stessa con Adriana Rispoli. Pittura, grafica, fotografia, scultura, installazioni e video sono i mezzi utilizzati dagli artisti per affrontare i nodi dell’ambiente, di cui l’uomo è diventato il fattore determinante. “Con l’inizio dell’industrializzazione – spiega Sabine Fellner – l’idea di un addomesticamento della natura si è fatta sempre più consistente. Ma l’intervento sempre più esteso dell’uomo nei processi biologici, geologici e atmosferici della terra significano non solo la perdita progressiva della natura incontaminata come risorsa emozionale, ma anche la distruzione degli habitat, l’ingente estinzione delle specie nonché le crisi umanitarie, politiche ed economiche”.

Da qui l’idea di riunire artisti austriaci e italiani sensibili al tema, che con le loro opere, realizzate negli ultimi quindici anni,  “formulano azioni di resistenza contro lo sfruttamento globale delle persone e contro lo spreco delle risorse – continua Fellner – ed elaborano strategie che incoraggiano un radicale cambiamento di prospettiva, con visioni piene di speranza per una riconnessione dell’uomo alla natura. Rappresentare ed esplicitare gli interventi distruttivi nella natura è, infatti, una strategia artistica”.

La mostra intercetta il trend “ecologista” che l’arte manifesta da tempo e che la pandemia da Covid-19, con l’evidente drammatico cambiamento delle nostre vite, ha reso ancor più urgente. “La Natura  – aggiunge Adriana Rispoli – non è più materia prima, medium o specchio, ma, come testimonia una nuova generazione di artisti di ogni latitudine, un’esigenza primaria manifesta nella necessità di riavvicinarsi ad essa, nel ricercare un doveroso equilibrio, nel rileggerne la forza propulsiva facendosi portavoce della sua potenza e soprattutto della sua fragilità. La nostra mostra si inserisce in un proliferare di eventi espositivi iniziato già da alcuni anni a livello globale, che mischiando generazioni, aree geografiche e modalità espressive, dimostrano quanto la tematica ambientale sia presente nell’orizzonte dilatato dell’arte contemporanea. Ma la tempestività del momento, settembre 2021, un periodo di apparente transizione tra un’era pre e post Covid, fa di Touch Nature, e naturalmente degli artisti coinvolti, un caposaldo da cui ripartire”.

 

Orari di apertura al pubblico:

16 settembre – 15 novembre 2021

lun – ven, ore 9.00 – 17.00

Nei seguenti giorni le opere esposte nella biblioteca non saranno accessibili:

16, 17, 22, 23 settembre

24 settembre (fino alle ore 14.00)

21 ottobre

22 ottobre (fino alle ore 15.00)

3 novembre (a partire dalle ore 15.00)

4 novembre

Chiusura:

26 ottobre (Festa nazionale austriaca)

1 novembre (Ognissanti)

 INGRESSO GRATUITO CON PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA

Per prenotarsi scrivere a prenotazione.forumaustriaco@gmail.com indicando nome e cognome e numero di telefono. La prenotazione sarà valida solo con una email di conferma.

Per accedere alla mostra è necessario esibire la Certificazione verde COVID-19 (Green Pass, in formato digitale o cartaceo) o presentare il referto negativo di un tampone antigienico o molecolare effettuato nelle 48 ore precedenti, insieme a un documento di riconoscimento valido. Le disposizioni non si applicano ai bambini di età inferiore ai 12 anni e ai soggetti con certificazione medica specifica.

All’interno obbligo di indossare la mascherina e distanziamento interpersonale di almeno 1 metro. Le sale hanno una capienza contingentata nel rispetto della distanza fisica prevista per la sicurezza dei visitatori.

Emilio Salgari, il fascino e l’avventura

“Fino a sei anni volevo fare il tranviere, poi a otto ho incominciato a leggere Salgari. Così iniziai a scrivere dei racconti”, così  ha scritto del narratore romanziere torinese, che ha regalato un ciclo fantastico di racconti, Umberto Eco.

Un’immaginazione straripante quella di Emilio Salgari grazie alla quale ha dato vita a tanti famosi lavori che hanno accompagnato ed accompagnano tuttora intere generazioni con i loro protagonisti: Sandokan, Yanez, la Perla di Labuan, Kammamuri, il Corsaro Nero, Jolanda la figlia del Corsaro Nero,  e tantissimi altri immortalati anche dal cinema e dalla televisione.

Trame avvincenti, eroi invincibili, pirati, luoghi esotici e misteriosi, terre lontane, dove in effetti non andò mai ma che seppe descrivere in maniera mirabile grazie ad un grande lavoro di documentazione e studio.

Una vita dedicata alla scrittura anche se avrebbe voluto diventare capitano di gran cabotaggio e solcare i mari vivendo avventure. Una vita non facile, gravata dalla malattia della moglie e da problemi economici nonostante la ricca produzione letteraria, che culminò con il suicidio seguendo il rito giapponese del seppuku, più conosciuto come karakiri, a soli 48 anni. Una grande perdita per la letteratura.

Le sue opere vengono riproposte da RBA nella collana composta da 60 uscite in edicola in un’edizione prestigiosa con la riproduzione delle copertine originali in stile Liberty realizzate da alcuni degli illustratori più importanti del Novecento come Alberto Della Valle, Pipein Gamba, Gennaro Amato, Carlo Chiostri o Giuseppe Garibaldi Bruno.

La prima uscita è stata Sandokan alla riscossa illustrato da G. Amato. La prossima “Il Corsaro Nero”.

Alessandra Desideri

Regine e ribelli, protagoniste della storia

RBA ha dedicato una collana alla storia al femminile. Figure illustri, donne di potere, che molto hanno amato e molto hanno sofferto, con “Regine e ribelli”, un focus sulla vita di donne passate alla storia.

L’opera propone “una collezione unica che riscatta le loro vite e i loro ritratti”. L’intento è quello di scardinare “l’immagine delle nostre protagoniste che è stata forgiata nel tempo, mettendo in discussone l’iconografia esistente, per costruire il loro profilo più fedele  con la consulenza di storiche riconosciute”.

Un modo per rileggere e riscoprire le grandi donne del passato, per meglio comprendere attraverso loro luoghi, momenti, episodi, immagini, e, soprattutto la loro storia, i tempi in cui vissero.

Apre la collana Cleopatra, a seguire Lucrezia Borgia.

La Divina Commedia per i bambini

Quest’anno si celebrano i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri e la Hachette Fascicoli ha deciso di realizzare una pubblicazione, con uscita periodica nelle edicole, “La Divina Commedia per bambini”.

Un adattamento originale destinato ai bambini per avvicinarli al grande Vate scritto con linguaggio semplice e positivo facendo conoscere i principali personaggi dell’Inferno, Purgatorio e Paradiso. Due le prestigiose firme per illustrazioni e testi.

Le illustrazioni sono di Fabiano Fiorin e con le immagini veicolano oltre al testo il messaggio e accompagnano i giovani lettori a scoprire il famosissimo poema dantesco, capolavoro della nostra letteratura conosciuto e tradotto in tutto il mondo.

I compagni di Dante nel suo viaggio sono personaggi famosi e meno famosi, buoni e cattivi, scelti da Paolo Pellegrini che ha realizzato anche i testi della collana arricchita da una Guida all’opera per i genitori e una tavola poster per ogni cantica.

Antonio Desideri

 

 

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