Le prime fiabe: una collana per i piccoli lettori

Inizia con “Il Re Leone” la collana edita da Hachette Fascicoli “Le mie prime fiabe”. Una collana in 100 uscite in edicola che accompagna le piccole lettrici e i piccoli lettori alla scoperta del fantastico mondo delle avventure e delle fiabe con i personaggi Disney. Un’immersione nel mondo dei più grandi successi Disney ispirati a grandi capolavori, volumi ricchi di illustrazioni che i genitori possono leggere ai loro piccoli o che i più grandicelli possono scoprire leggendoli.

La scoperta del mondo attraverso le avventure e a volte le  disavventure dei personaggi preferiti aiuteranno i piccoli a comprendere e vivere diversi stati d’animo ed emozioni, una ricca possibilità di crescita anche grazie ai valori positivi e i tanti esempi educativi di cui sono ricche le storie. “Gli esempi positivi aiutano ad acquisire fiducia in se stessi e stimolano i comportamenti corretti anche nei bambini più piccoli”. I titoli dei primi 15 libri in vendita in edicola:  Il Re Leone, Biancaneve e i sette nani, Il Libro della Giungla;  Bambi; Dumbo; Aladdin; La carica dei 101; Toy Story; Cenerentola; Le Avventure di Peter Pan; Bolt – Un eroe a quattro zampe; Chicken Little – Amici per le penne; La Principessa e il ranocchio;  I tre porcellini; Ratatouille.

Il genio di Donatello

Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto Donatello, (per il suo animo gentile e sensibile) è stato uno scultore, architetto e pittore italiano.

Donatello nacque a Firenze nel 1386 e sin dalla tenera età aveva dimostrato la sua passione per l’arte attraverso il disegno. Donatello ha dato vita (assieme a Brunelleschi e Masaccio) ad una nuova arte del Rinascimento elaborando nuove forme moderne come la riscoperta della realtà naturale e l’assunzione delle forme antiche. Ancora, rinnovò i metodi della scultura eliminando quelle del tardo gotico e diede vita alla tecnica dello stiacciato, sperimentando varie tecniche come  marmo, pietra, terracotta e bronzo in modo da non impedire la creazione di uno spazio illusorio. Ma ciò che ha fatto la storia dell’arte del Rinascimento è stata la sua grande capacità di rendere le opere realistiche donando quel senso di umanità ai suoi capolavori.

Donatello, dal 1040 al 1407, fu a fianco di Ghiberti apprendendo da quest’ultimo i segreti della fusione del bronzo e la passione per la scultura a rilievo. Da lì a poco svolse il proprio apprendistato come scultore a Firenze alle dipendenze dell’Opera del duomo. Donatello fu anche amico e collaboratore di Brunelleschi e insieme a lui studiò le opere classiche e dal 1402 al 1404 si recarono insieme nella capitale italiana. Sono due i primi lavori artistici di decorazione scultorea più celebri di Donatello a Firenze: il Duomo (la facciata e la porta della Mandorla) e le nicchie di Orsanmichele. Eppure, sono le quattro sculture giovanili che mostrano il precoce trapasso dalle forme del gotico cortese a una matura espressione umanistica: Davide del 1408, statua del profeta Abacuc (zuccone 1423- 1425), San Giovanni Evangelista (1409- 1411), San Giorgio (1417) . Per il David, (Santa Maria del Fiore – trasportato nel 1416 a Palazzo Vecchio) l’artista seguiva ancora un canone di bellezza garbato, dai tratti gentili e delicati e infatti, alcune delle sue meravigliose sculture sono ancora legate a stilemi gotici ma che al contempo (i movimenti fisici del corpo della scultura e quello delle mani) indicano un attento studio dal vivo. Il san Giovanni Evangelista, (scultura destinata a una nicchia collocata a lato del portale centrale di Santa Maria del Fiore) invece, è intenta a trasmettere una sensazione di forza trattenuta: il volto del santo è basato su un principio gotico di idealizzazione, le spalle e il busto si conformano in un volume geometrico. E’ evidente che l’artista ha voluto inserire, in uno spazio costruito attraverso la prospettiva, la ricerca di una nuova rappresentazione dei corpi. Tuttavia, è con il San Giorgio (commissionata per una delle nicchie di Orsanmichele) che Donatello supera davvero gli elementi gotici. Mentre con Albacuc, (1423-1425 per il campanile di Giotto) riprende lo stile antico che si interseca con uno stile realistico e naturale: panneggi elaborati con estrema cura dei dettagli, caratterizzando i profeti del campanile secondo costumi e positure riprendendo il vecchio modello classico.

Nella tecnica dello stiacciato, ideata da Donatello, traspare, in maniera molto chiara, il desiderio di trasferire nella pietra le caratteristiche della pittura: la modulazione delle ombre e delle luci si ottengono grazie ad un effetto di spessore atmosferico e a quel senso di prospettiva aerea acquisite di conseguenza alla prospettiva di Brunelleschi. La tecnica dello stiacciato è un rilievo ottenuto con minime variazioni di spessore rispetto al fondo, inserendo il porticato in prospettiva, creando così effetti sorprendenti di profondità. In sostanza, Donatello era capace di assumere una tecnica nuova per dare un tono espressivo adatto a conseguire l’effetto che desiderava dare in quel momento, diventando oramai pienamente padrone della costruzione prospettica e riuscendo a convergere delle ortogonali di profondità verso un unico punto di fuga. Nel pannello bronzeo del Banchetto di Erode per il fronte battesimale del battistero di Siena (1425-1427) lo scultore applicò la tecnica giusta che richiedeva l’opera, rinunciando allo stiacciato. Nel David bronzeo (1430 – commissionatogli da Cosimo de’ Medici) interpretato come raffigurazione di Mercurio che contempla la testa recisa di Argo, è un capolavoro che rivela un immenso senso realistico. In quello stesso periodo eseguì l’incorniciatura architettonica del tabernacolo dell’Annunciazione in Santa Croce. In questa opera, Donatello, dimostra tutta la sua libertà culturale attraverso un rinnovato interesse classicistico e la profonda, quanto intensa, analisi prospettica delle figure.

Nel 1433 fino al 1438 realizza la sua più grande opera ardita di contaminazione culturale, la grande Cantoria. Un monumento di una sorprendente modernità nato dalla collaborazione di motivi bizantini e duecenteschi, classici e paleocristiani. Dal 1443 fino al 1453, Donatello si trasferì a Padova dove affermò la sua fama di scultore dei suoi tempi grazie anche alle numerose opere eseguite nella città veneta: il Monumento equestre a Erasmo da Narni detto il Gattamelata e l’altare maggiore della basilica di Sant’Antonio. Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, era un uomo d’arme al servizio della Repubblica veneta, morì nel 1443 e il monumento che lo ricorda fu affidato a Donatello. Ma per la novità della creazione di Donatello, in rapporto al ruolo sociale del personaggio cui il monumento era stato dedicato, l’opera necessitò di un apposito beneplacito concesso dal Senato veneto. Poco tempo dopo, Donatello lavorò assieme ai suoi collaboratori alle statue e ai rilievi dell’Altare maggiore della basilica padovana del Santo (1446- 1450). Progettata, anche questa scultura da Donatello, erano riunite entro una struttura architettonica. Ma la più interessante, tra le sette statue e tutto tondo è, senza dubbio, quella della Madonna con il Bambino. La Vergine è ricca di particolari meravigliosi e non solo, la statua della Madonna con il Bambino era stata pensata per una visione frontale e quindi trattata come un rilievo monumentale.

Gli ultimi anni della carriera artistica di Donatello si svolsero a Firenze, dove indulgeva a un’accentuata religiosità che spingeva le opere a vertici di estrema drammaticità. Come nel Martirio di san Lorenzo dove la cubatura prospettica dello sfondo e il punto di vista basso concorrono alla forte emotività della scena. La carriera artistica di Donatello è stata lunga, soddisfacente e molto intensa tanto quanto le sue numerose e meravigliose opere d’arte.

Alessandra Federico

Masaccio: l’artista del rinascimento italiano

Tommaso di Ser Giovanni di Mòne di Andreuccio Cassài, (detto Masaccio) nasce a San Giovanni Valdarno il 21 dicembre del 1401. Masaccio, pittore italiano, è stato il primo rivoluzionario della pittura del Rinascimento, il primo ad aver cercato di trasporre, in campo pittorico, gli ideali laici, classicistici e razionali dell’architetto della cupola (Filippo Brunelleschi).

La carriera artistica di Masaccio fu molto breve ma allo stesso tempo, però, è paragonabile a quella di pochissimi pittori nella storia dell’arte occidentale. L’artista, segnò un preciso spartiacque tra fasi storiche diverse, (nella storia dell’arte), spostando così in avanti e con improvvisa accelerazione il confine tra gli innovatori e i ritardatari.

Masaccio aveva dato alla pittura una nuova realtà: la raffigurazione dell’uomo come individuo reale, dotato di sentimenti e passione terrene, di un corpo solido e naturale fondato sullo studio del vivo e costruito in base alle regole della rappresentazione prospettica dello spazio inventate da Filippo Brunelleschi. La collaborazione con Masolino fu un’associazione alla pari tra due pittori maturi, un sodalizio basato sulla comune provenienza del Valdarno quella della collaborazione con Masolino da Panicale (pittore ancora legato al gusto tardogotico) che offrì a Masaccio l’opportunità di manifestare il suo genio entro composizioni di largo respiro.

Le opere di Masaccio risalgono al 1424 e il 1428 e fu proprio grazie a Masolino che riuscì a dare vita a una pittura di tipo completamente nuovo, riuscendo a liberarsi da quel gravoso retaggio. Questa umanità è inserita in un nuovo ideale pittorico basato sulla razionalità di cause ed effetti e sull’essenzialità e la concentrazione espressiva. Difatti, il Rinascimento nacque con l’aspirazione di riscoprire l’uomo e la natura. I due intraprendenti artisti erano orientati soprattutto nella ricerca che applicasse leggi oggettive, scientifiche che dessero corpo nelle arti visive.

Masaccio fu in grado di rivoluzionare interamente la pittura in breve tempo e non solo, (perché non si trattava del solo cambiamento tecnico della prospettiva) una volta terminato il dipinto, pareva davvero avesse scavato un’apertura nel muro grazie alla tecnica realistica che aveva realizzato. Pareva che i personaggi parlassero, fossero reali. Le opere Nel Trittico con Madonna in trono e santi della chiesa di San Giovenale e Cascia (Raghello) si delinea chiaramente la nuova poetica di Masaccio; l’intero polittico è unificato prospetticamente dal convergere verso un unico punto di fuga, delle linee del pavimento, in tutti i pannelli. Mentre i santi sono già figure solide, caratterizzate psicologicamente e rigorosamente scalate in profondità. Nonostante Masolino fosse più esperto, più famoso e avesse quasi il doppio dell’età di Masaccio, si era lasciato convertire dalle ragioni (molto convincenti) e dalla buona pratica e dalle nuove idee del suo collaboratore. Nell’opera Sant’Anna con la Madonna, il Bambino e angeli degli Uffizi (1424) è nota la collaborazione di Masaccio e Masolino. Il dipinto rappresenta la diversità di due stili e delle sue diverse epoche storiche, (Medioevo e Rinascimento). Masolino diede forma alla figura di Sant’Anna e agli angeli ma il nuovo stile di masaccio fu in grado di rompere l’unità del dipinto: l’espressione della Vergine dipinta dal giovane artista è solida come mai prima d’ora era stata, la sua espressione è ferma e consapevole ma allo stesso tempo dolce e aggraziata. “Vive et vere” era la poetica che Masaccio volle approfondire nel polittico eseguito nel 1426 (Chiesa pisana del Carmine). La Vergine s’incurva come a formare un bozzolo per proteggere il bambino. Mentre il suo trono è definito prospetticamente con un punto di vista ribassato, in relazione alla posizione reale dello spettatore. La stessa visione dal basso verso l’alto fu introdotta per la cuspide del polittico. (Crocifissione). Nel grande affresco della Trinità (1426. 1428 chiesa di Santa Maria Novella) racchiude tutta la nuova arte di Masaccio, considerato uno dei più importanti dipinti in cui le regole della prospettiva furono messe in pratica per dare un senso di profondità su una superficie piatta. Il giovane artista realizzò l’affresco senza scorci e senza variazioni di scala, in una visione frontale, attenendosi alle regole prospettico-illusionistiche. La Trinità è stata definita “un clamoroso manifesto rinascimentale entro la gotica Santa Maria Novella” poiché fu la prima volta, nella storia della pittura cristiana, in cui le effigi di persone reali assumono tanta rilevanza entro un dipinto religioso. Altri dipinti in cui sono chiare le nuove tecniche di Masaccio sono i riquadri delle storie di San Pietro, affrescate a Firenze in una cappella della chiesa del Carmine. Per dare verosimiglianze alle architetture, per attualizzare le storie sacre tramite l’inserimento di figure contemporanee, Masolino cercava, con molta passione e perseveranza, e soprattutto armandosi di tanta umiltà, di imparare dal suo compagno di lavoro, e infatti nel riquadro della Resurrezione di Tabita e risanamento dello storpio Masolino, cercò di impostare una scena prospettica secondo i dettami del suo stimatissimo collaboratore. Masaccio intervenne per aiutare Masolino e per terminare l’affresco. Le figure erano colme di gravità antica, ben armonizzate con lo sfondo, ricche di luce per trasmettere allo spettatore pace e serenità. Masaccio morì a Roma nel giugno del 1428 a soli 27 anni.

Alessandra Federico

Intervista a Renato Marengo, creatore del Movimento Musicale Italiano “Napule’s Power”

Il movimento musicale Napule’s Power, che quest’anno celebra il mezzo secolo, si dipana, appunto, attraverso decenni nonché attraverso plurimi e molteplici generi.
Ebbene, come nasce e come si sviluppa?

Nasce alla fine degli anni ‘70, a seguito di un periodo che aveva visto un proliferare di canzonette napoletane non più all’altezza dell’immensa musica napoletana prodotta alla fine dell’800 e durante i primi del ‘900.
Nasce per la presenza a Napoli delle basi NATO.
I giovani napoletani iniziano ad ascoltare Paul Anka, i Beatles, i Platters: c’era ovunque fermento musicale. I ragazzi anziché continuare ad ascoltare canzonette, degrado della grande tradizione napoletana, con melodia e ritmo d’alto livello, cominciano ad apprezzare lo swing. Renzo Arbore, Fred Bongusto, Peppino Di Capri, Peppino Gagliardi, Il giardino dei semplici: nascono artisti che “modernizzano” la canzone napoletana, rendendola omologa alla musica proveniente dall’America.
Il vero Napule’s Power è fatto di musica autonoma, creata, inventata.
Da chi? Ebbene, negli anni ‘60 c’era, da un lato, Renzo Arbore, jazzista, che, insieme, tra gli altri, a Roberto Murolo, applicava lo swing alla musica napoletana; dall’altro lato, c’era un gruppo formidabile, The Showmen con Franco Musella, James Senese e Franco Del Prete, i quali cantano in italiano modulando la voce alla maniera dei jazzisti neri americani.
I giovani musicisti napoletani frequentano a Napoli, ovviamente, locali situati vicino al Porto, a Bagnoli, a Posillipo, dove ascoltano musica rock, jazz…Importante è la presenza della NATO. Ogni sera, scendevano dalle portaerei americane miriadi di giovani. Invadevano i locali a caccia di alcool, “signurine” e musica. Molti portavano con sé gli strumenti: i musicisti napoletani, giovanissimi, suonavano con questi ragazzoni americani. A loro davano i nostri ritmi e le nostre melodie; noi prendevamo l’interzionalità. C’era una commistione di blues, swing, musica americana, musica napoletana. Una meravigliosa contaminazione che genera musica nuova: il Napule’s Power.
Io l’ho chiamato così: un napoletano americanizzato!
“Power” perché eravamo giovani ribelli. C’era stato il ‘68. Noi non tolleravamo il saccheggio che a Napoli si perpetrava da chi era vicino ad Achille Lauro. Non dimentichiamo “Le mani sulla città” di Franco Rosi. Non dimentichiamo Eduardo De Filippo che, dal teatro, cercava di educare alla cultura. La Nuova Compagnia di canto popolare con Roberto De Simone s’impegnava in tal senso con la musica popolare. Pino Daniele, Tullio De Piscopo, James Senese, Tony Esposito, Enzo Avitabile, che frequentavano la musica americana, si davano da fare per creare un movimento. A questo movimento diedi il nome, appunto, di Napule’s Power.
Alcuni di questi artisti, li ho prodotti io stesso perché da Napoli difficilmente sarebbero decollati. Io in quegli anni ero un giornalista italiano, non solo napoletano, lavoravo tra Napoli, Roma, Milano, venezia e mi occupavo di rock per una rivista molto importante, Ciao 2001, un po’ come l’attuale Rolling Stone. Allora, l’unica rivista ad occuparsi di jazz, rock e blues era proprio Ciao 2001. Vendeva tra le settanta e le ottantamila copie a settimana. I ragazzini facevano la fila all’edicola per accaparrarsi un numero. Io andavo a Londra per intervistare Tina Turner. Andavo a vedere i concerti dei Genesis. Con quella cultura riconoscevo nella musica nostra, napoletana, moderna, una cultura molto simile. Così ho prodotto Tony Esposito, Teresa De Sio, Nuova Compagnia di canto popolare, Eduardo ed Eugenio Bennato, Musica Nova, Concetta Barra. Li ho aiutati a farsi conoscere su queste riviste specializzate ed in RAI dove avevo programmi insieme a Carlo Massarini e Raffaele Cascone. Ho accostato i Napoli Centrale a gruppi internazionali. Inoltre, dopo averne scritto, parlato in radio e TV, ho ottenuto l’attenzione della discografia internazionale, tutta a Milano ed ostile alla musica napoletana, assimilata a Mario Merola. Ho portato il Napule’s Power al Festival internazionale di Monterey e ad Harlem. I neri del Black power ed i “negri” del Vesuvio. Sì, ci chiamavano così. Pino Daniele scriverà “Nero a metà”.
Negli anni ‘80 i ragazzi sono meno impegnati socialmente. La musica del Napule’s Power ha una battuta d’arresto, a parte Tony Esposito con Kalimba De Luna, Tullio De Piscopo con Andamento lento, Alan Sorrenti con Figli delle stelle.
Negli anni ‘90 c’è un ritorno all’impegno politico-sociale: ecco, 99 Posse ed Almamegretta. La musica napoletana è riascoltata con attenzione.
Oggi, i musicisti napoletani, soprattutto rapper, sono sostenuti da un sociologo Lello Savonardo, docente di “Teorie e Tecniche della Comunicazione” e “Comunicazione e Culture Giovanili” presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli Federico II.

Lei cita musicisti legati alla ricerca colta e popolare, artisti folk e dal curriculum internazionale, giovani appassionati di rock’n’roll ed artisti visionari. Qual è il fil rouge sotteso a siffatta avvincente variatio generis?

No, Giusy, dammi del “tu”! E’ così che sono abituato!
Il fil rouge è la voglia di cambiare, evolvere, pur mantenendo le radici ben piantate nella tradizione. Roberto De Simone, ad esempio, cerca, con Carlo D’Angiò ed Eugenio Bennato, di recuperare i canti autentici della tradizione. Evolvere, non trasformare o violentare. Quelli citati sono grandissimi interpreti, sia strumentali che vocali, i quali hanno ascoltato e visto il rock; pertanto, nel loro spirito di ri-proposta della musica popolare c’è un legame con ciò che si sente e si fa in radio ed in televisione. La Nuova compagnia di canto popolare è portata da me a Milano ad aprire un concerto della PFM: ambedue rinnovano la tradizione. La PFM innova con gli strumenti elettrici. La Nuova compagnia di canto popolare con gli strumenti acustici. Durante quel concerto i ragazzi salgono sulle sedie e battono le mani come a scandire un rock! La fusione è la chiave!
Era il 1971 quando tu, Renato, concepisti d’adottare la definizione Napule’s Power per accorpare e scortare la vita musicale partenopea.
Erano gli anni del Black Power, il ’68 pulsava ancora.
Dunque, quale ascendente assume la politica nel panorama musicale che ha osservato?

Prescindendo da ciò che oggi significa “Destra” e “Sinistra”, nel 1970 Destra era conservatorismo; Sinistra era avanguardia, orientata al rinnovamento, alla modernizzazione. Per esempio, Eduardo De Filippo era un intellettuale di Sinistra e sosteneva Valenzi quale candidato sindaco, vicino alla cultura del rinnovamento. A Napoli, la Destra era addirittura ancora monarchica, arcaica. La Destra era rappresentata da faccendieri voraci. La Sinistra colta, universitaria auspicava il rinnovamento, l’evoluzione culturale. Si vuole, con la Sinistra,allontanare la cultura del Pulcinella, del “tutto passa”. Cito una canzone, sì divertente: “Ah, che bellu ccafè. Sulo a Napule ‘o ssanno fa” di Nino Taranto. Ebbene, è una dichiarazione di rassegnazione, di assistenzialismo. Pino Daniele idealmente risponde con “Na′ tazzulella è cafè/E mai niente cè fanno sapè/Nui cè puzzammo e famme/O sanno tutte quante/E invece e c’aiutà c′abboffano è cafè”: il caffè usato come tranquillizzante, una droga che blocca il pensiero.

La “cartolina” fotografa i napoletani rappresentati dal binomio “pizza e mandolino”, proiettandoli così lungo sentieri inclinati ed escamotage di cliché e luoghi comuni. I musicisti del  Napule’s Power hanno recuperato il volgare, il folclore, il sincretico per affrancare lo spazio identitario da ingredienti nocivi quali l’asfittica trappola nel vicolo cieco delle concezioni duali: moderno – arretrato, sviluppo – sottosviluppo.
Il Napule’s Power, pur indissolubilmente legato a Napoli, ha contribuito alla deterritorializzazione di Napoli stessa?

Brava! Gli artisti che ho citato prima, tutti o quasi tutti, avevano tentato di farsi produrre un disco. A Napoli, tuttavia, erano abituati alle canzoni di Aurelio Fierro, Tullio Pane, Mario Merola, per cui li consideravano dei perditempo, degli squilibrati e non artisti. Si voleva conservare un’immagine olografica, superata, abituata alla politica del “tira a campare”, del “qualcuno ci penserà”. Non dimentichiamo che a Napoli la camorra aveva le sue radici: alla camorra faceva comodo una Napoli felice con le canzonette, una Napoli credente alle superstizioni, che affida l’anima alla Madonna piuttosto che mettersi a lavorare per cambiare la propria esistenza; una Napoli socialmente disimpegnata, inconsapevole dei propri diritti e dei propri doveri. Una Napoli internazionale, riscattata dalla “cartolina” del ladruncolo, del furbetto, è quella che spinge tutti noi, scrittori e musicisti, intellettuali tutti vogliono testimoniare il cambiamento.
Napoli come Benjamin ha ingegnosamente sintetizzato è una “città porosa”: una combinazione affascinante di coerenza-incoerenza.

Gli artisti, protagonisti della tua narrazione, vanno da Pino Daniele ad Enzo Avitabile, da Lina Sastri a Patrizia Lopez. Moltissimi sono stati prodotti proprio da te.
Ci racconti un aneddoto che rievochi, Renato, con particolare nostalgia?

Più che con nostalgia, con simpatica ironia. Io sono diventato produttore per puro caso. Quando conosco la Nuova compagnia di canto popolare, ero già ambientato a Milano, Venezia, Roma. Tornato a Napoli, mentre scrivevo della PFM, vengo rimproverato da Eugenio Bennato di non scrivere della Nuova compagnia di canto popolare! Io mi sento quasi sfidato. Vado ai loro concerti e scrivo articoli pubblicati su Ciao 2001 con lo stesso taglio con cui parlavo della PFM. Ancora, Eduardo Bennato l’ho prodotto quasi per caso: Eugenio Bennato mi chiede di dare una mano al fratello, Eduardo, appunto, che già da sette anni provava ad imporsi come cantautore. Che faccio? Frequento Eduardo, lo presento ai discografici ed Eduardo, originale, bravissimo, diventa subito un protagonista.

 

Renato Marengo è un conduttore radiofonico, produttore discografico, giornalista e critico musicale italiano, scrittore. Ideatore del Napule’s Power, è stato creatore e conduttore di Demo di Radio1Rai. E’ tornato di recente alla Radio con due trasmissioni diffuse su tutto il territorio nazionale: ClassicRockonAir e Suoni e parole dalla città. Dal 2012 è direttore responsabile del mensile Cinecorriere. E’ passato alla storia per essere stato l’unico giornalista ad aver intervistato Lucio Battisti (intervista che ha raccontato in due libri: l’ultimo dei quali Parole di Lucio). E’ direttore artistico di Terra Battente, del BandContest di RockContest di ClassicRock e coordinatore della Mostra C.A Bixio Musica & Cinema nel 900. E’ docente presso l’accademia di Cinema e Tv Griffith di Roma del corso di Musica da Film.
E’ stato coordinatore generale del settimanale Ciao 2001. Ha collaborato con le maggiori testate quotidiane e settimanali nazionali tra cui Sorrisi e Canzoni TV, Radiocorriere TV, Telepiù. È stato anche autore e conduttore di numerosi programmi Rai. E’ autore di “Napule’s power- Movimento Musicale Italiano” con la prefazione di Renzo Cresti, curato da Paolo Zefferi, Tempesta Editore.

Giuseppina Capone

Mario Fillioley: Sesso più, sesso meno

Mario Fillioley è un insegnante di lettere in una scuola pubblica, ha tradotto diversi libri dall’inglese. Ha un blog personale, Aribiceci.com, e un blog sul Post. Vari suoi racconti e reportage sono stati pubblicati su IL. Un suo testo fa parte dell’antologia Non si può tornare indietro, edita da Marsilio nel 2015. Ha scritto per Minimum Fax “Lotta di classe” e “La Sicilia è un’isola per modo di dire”.

Peppe e Arianna si vedono e fanno sesso; Luca fa il cameriere nella pizzeria dove i due ogni tanto vanno e si diverte a osservarli; tenta di sedurre Brigida; Sergio e Cristina sono i rispettivi ex di Arianna e Peppe, animati da sete di rivalsa.
Quanto ha attinto allo sterminato patrimonio della commedia cinematografica in una scoppiettante contaminatio fabulae?

Non so, la commedia è il genere cinematografico che amo di più, ma non ho mai avuto simpatia per quella degli equivoci. Uno dei film che invece continuo a rivedere costantemente fin da quando ero ragazzo è Bianca di Nanni Moretti, così come anche gli altri titoli di questo autore, specie quelli del primo periodo. Forse è per questo che i personaggi del libro sono tutti molto nevrotici e scombussolati, come quelli del avere cinema che amo, Moretti o di Woody Allen o Nora Ephron. Un altro gigante del cinema che rivedo e rileggo spesso è Neil Simon, dalle cui commedie sono stati tratti molti film di successo tra i ’60 e gli ’80, e anche lui è prodigo di personaggi nevrotici e ridicoli, con un tocco di patetismo che io trovo sempre molto ben riuscito.
Questo è un libro che gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni. Qual idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?
Il libro prova a descrivere e a raccontare un certo tipo di relazioni sentimentali, soprattutto mettendo in risalto gli aspetti più folli e idiosincratici dei personaggi, e lo fa tramite dei monologhi: ognuno dei protagonisti parla di se stesso con se stesso, nessuno sembra capace di rivolgersi a qualcuno. Non c’è quindi un’idea generale dei rapporti umani, ma solo il disegno di alcune personalità un po’ grottesche, che forse esistono in tutti noi.
La narrazione si dipana tra la costa jonica e i paesi etnei. Di quale senso sono forieri i luoghi siciliani citati?
Tenere la Sicilia orientale sullo sfondo non è semplice, tende a rubare la scena. Quindi ho cercato di descrivere un ambiente normale, geograficamente connotato, dettagliato anche, ma quotidiano. Poche cartoline, insomma, e più realtà. Di sicuro incontrarsi davanti a un tratto di costa jonica, sebbene con alle spalle degli scempi edilizi o urbanistici, ha sempre un suo fascino, che può senz’altro irretire i sensi. Mi pareva però il caso di attenuare questo aspetto “magico” dei luoghi, e renderli semplicemente degli spazi abitati.
Quanto deve l’erotismo al senso di curiosità, ossia al fascino sperimentato nei confronti di un corpo che non è il proprio, alla promessa di una coincidenza, interiore ed esteriore, con l’altro?
Questa è davvero una domanda difficile cui non saprei rispondere. Il libro è umoristico, e sta molto attento a non avventurarsi in questione così complesse come quella dell’eros. Se si vuole saperne qualcosa esistono testi molto più adatti. Io, mentre scrivevo, ne ho tenuti vicino a me due: i minima moralia di Adorno e i frammenti di un discorso amoroso di Barthes. Ma più per conforto, come una specie di coperta di Linus, che non per ispirazione o consultazione.
Sesso più, sesso meno: quale significato sottende questa formula?
Il titolo viene dalle prime pagine del libro. Uno dei protagonisti formula una delle (tante) teorie che usa per proteggersi da potenziali ferite e nel farlo utilizza questa espressione, compiacendosi anche del suo conio linguistico. Sesso più/sesso meno , alla fine, non è altro che un luogo comune: il sesso più sarebbe quel sesso arricchito da innamoramento e prospettive future, il sesso meno sarebbe una sorta di ginnastica, conclusa la quale ognuno torna alla sua vita senza il minimo coinvolgimento. Ovviamente è una banalità, ma il personaggio si illude di aver sondato chissà quale grande concetto e si baloca molto con i passaggi e le analogie che lo hanno condotto a questa rivelazione, imbastendoci sopra tutta una serie di corollari e ricami.

Giuseppina Capone

Stefano Scrima: Ghost Generation

Stefano Scrima, filosofo e scrittore, si è formato tra Bologna, Barcellona, Madrid e Roma. Fra i suoi libri: L’arte di sfasciare le chitarre. Rock e filosofia (Arcana, 2021); L’arte di disobbedire raccontata dal diavolo (Colonnese, 2020); Vani tentativi di vendere l’anima al diavolo (Ortica, 2020);per Castelvecchi: Digito dunque siamo. Piccolo manuale filosofico per difendersi dalle illusioni digitali (2019) e Socrate su Facebook. Istruzioni filosofiche per non rimanere intrappolati nella rete (2018); per Il Melangolo: Filosofi all’Inferno. Il lato oscuro della saggezza (2019) e Il filosofo pigro. Imparare la filosofia senza fatica (2017); per Stampa Alternativa: L’arte di soffrire. La vita malinconica (2018) e Nauseati (2016). “SatisPhilo” è la sua rubrica di filosofia su Satisfiction.

Quali sono le ragioni per le quali coloro che sono nati negli anni Ottanta reputa che si ritrovino afflitti da un precoce senso di fallimento esistenziale?

I nati negli anni Ottanta sono i trentenni di oggi, una generazione che – lo dicono i dati, ancor prima che le sensazioni – non ha la possibilità di vivere come ha vissuto la generazione dei suoi genitori. Le condizioni sociali sono profondamente cambiate, al contrario della mentalità e dell’educazione, le quali, sono andate invece a cristallizzare i valori assoluti del sistema capitalistico nel quale siamo cresciuti, primo fra tutti il lavoro come mezzo di identificazione identitaria attraverso la quale raggiungere la propria realizzazione esistenziale. È fisiologico che venendo a mancare la possibilità di lavorare – intendo, in particolare, assecondando la propria formazione per cui si sono spesi tempo, energia e denaro, e la propria inclinazione (chiamiamola, se vogliamo, passione) – lo spettro del fallimento non può che aleggiare sulle nostre vite. Beninteso, non è che non ci sia più lavoro (anche se la disoccupazione giovanile e nella fascia dei trentenni rimane spaventosa), è che il lavoro, per adeguarsi e rispondere alle esigenze del cosiddetto mercato, ha messo completamente da parte il benessere della persona (e figuriamoci allora la sua realizzazione) precarizzandosi, svilendosi, svuotandosi dei contenuti sociali e di dignità per cui avrebbe ancor senso “cercarlo”. Un lavoro precario, sfruttato, senza tutele, senza prospettive, oggi sempre più diffuso e spesso unico orizzonte per chi si affaccia nel mondo degli adulti, quale sentimento potrebbe suscitare in chi è sottoposto a tale condizione? Chiaramente, come scrivo nel libro, esistono delle soluzioni concrete, politiche, per tentare di cambiare rotta, ma prima di tutto è necessario aver coscienza di questo tradimento sociale e mutare la mentalità tossica che fa sì che la colpa sia addossata a chi non si adegua. Non è così e non deve essere così. La rivoluzione culturale parte dal ribaltamento dei valori assoluti e mai indagati della modernità liquefatta, più che liquida. Il lavoro, ad esempio, soprattutto nelle condizioni in cui versa (ma è ovvio che va cambiato tutto, non si può andare avanti così, e finché non sarà messa al centro la persona non andremo da nessuna parte), non può più assumere le sembianze dell’unica dimensione delle nostre esistenze. Non siamo nati per lavorare e basta, schiacciati dall’angoscia di non riuscire a trovare o mantenere un qualsiasi lavoro. Abbiamo le risorse tecnologiche per immaginare e realizzare un mondo diverso, evidentemente mancano quelle morali, o semplicemente umane.

Lei adopera l’espressione “gioventù incenerita”. Quali sono le differenze tra la gioventù che realizzò il ‘48 de “L’educazione sentimentale” di Flaubert e la “gioventù bruciata” degli anni Cinquanta?

Probabilmente ogni generazione ha le sue ragioni per sentirsi fallita, ma la differenza della mia generazione – e per questo la chiamo “gioventù incenerita”, che non sta nemmeno più bruciando – è che vive come se fossimo alla fine dei tempi, come se dopo non potesse esserci più niente, alcun cambiamento, come se l’unico orizzonte possibile fosse quello che abbiamo sotto gli occhi, nel bene e nel male. E, ancora una volta, non è così. È un atteggiamento culturale tipico dell’ideologia capitalista, che si ritiene unica in grado di garantire il solo progresso utile all’umanità. È una gioventù incenerita anche perché, al contrario della generazione di Flaubert, o quella di James Dean, o quella del ’68, del ’77, ma anche della generazione X, sente di non aver realizzato nulla e avverte vivida la propria impotenza. Vive di ricordi mai vissuti. Se esiste una colpa per tutto questo non so di chi sia, ma di certo è la prima volta nella storia moderna, diciamo dalla Rivoluzione francese, che una generazione intera viene cresciuta senza alternative, chiedendole nient’altro che adeguarsi al sistema, fare il suo gioco e cercare di vincere qualcosa a discapito degli altri.

“Chi sono io?”, “Chi siamo noi?” Ebbene, come risponde ad un quesito identitario di tal fatta chi non ha un lavoro, risultando un inetto?

Eh, bella domanda. Nella nostra società se non hai un lavoro non sei nessuno o, meglio, sei un inetto, appunto. Oppure, se un lavoro ce l’hai, diventi quel lavoro, al netto della sua natura precaria, destabilizzante, ansiogena. Insomma, se non sei riuscito a ottenere un lavoro migliore è solo colpa tua. È ovvio che non è realmente così, ma il giudizio sociale, figlio di una mentalità subdola e ipocrita (in cui più sei ignorante e ti adegui allo stato delle cose meglio è e meglio vivi), pesa come un macigno. Non potrebbe essere altrimenti. Realizzarsi nel segno del proprio essere, diventare se stessi, come direbbe Nietzsche, non passa ovviamente attraverso il lavoro per come è inteso oggi. Passa invece attraverso la scoperta delle proprie qualità, dei propri talenti, nel riuscire a esprimere il potenziale che ognuno ha dentro di sé. Che sia attraverso un’attività remunerata o meno non dovrebbe incidere sul riconoscimento collettivo della persona, creando diseguaglianze economiche e morali che spesso si basano sulla malafede di chi vive solo per interessi personali a discapito della società (atteggiamento foraggiato dal sistema). Finché non costruiremo una società che ha a cuore la “fioritura” (termine che va tanto di moda, senza però che si metta mai in dubbio il sistema che fa di tutto per farci appassire) della persona, ma solo la quadratura economica improntata alla crescita infinita, le cose non faranno che peggiorare, e riconoscerci, trovare noi stessi, sarà sempre più difficile, se non addirittura impossibile.

Il meccanismo perverso del capitalismo oggi punta sul “sogno”. Qual è il valore commerciale del “sogno” e come si reagisce alla disillusione del sogno infranto?

Donne e uomini sono fatti per sognare, sono programmati così, non possiamo farci nulla. Leopardi, fra gli altri, ci aveva messo in guardia da questo sognare, pieno di splendide illusioni che nella maggior parte dei casi verranno disattese provocando in noi sentimenti di dolore, frustrazione e noia. E quindi? Bisogna smettere di sognare? No, mai. Sognare fa parte della vita e più è difficile tramutare il sogno in realtà più saremo felici, anche se, non contenti dell’obiettivo raggiunto, inseguiremo mille altri sogni fino alla fine dei nostri giorni. Detto questo, una società che cresce i suoi figli attraverso illusioni – nel libro parlo in particolare del sogno americano del “puoi diventare ciò che vuoi” e dell’italianissimo sogno del posto fisso –, andando a stimolare e creare sempre nuovi bisogni che non servono altro che ad alimentarla, è una società malata. Il consumismo di oggi ha sempre meno a che fare con gli oggetti, la merce, e sempre di più con le esperienze, i sogni, le illusioni. Siamo costantemente spinti da ogni dove a volere, desiderare, sognare. Per poi vedere i nostri sogni sgonfiarsi nel cielo dell’indifferenza. Non c’è modo di reagire a questo circolo vizioso se non smascherandolo, smettere di sognare in funzione del sistema e farlo per noi, per quello che siamo e vogliamo veramente. Impresa erculea, quando siamo stati plasmati proprio da questa cultura.

Perché la definizione di “Ghost Generation”?

Perché la disperazione e l’angoscia quotidiana dei trentenni di oggi non è riconosciuta. Per questo è una generazione dimenticata, fantasma. Per malafede, vergogna, incapacità, impotenza di chi potrebbe fare qualcosa e non lo fa. Certo, anche gli stessi trentenni dovrebbero fare qualcosa, ma non sanno cosa e soprattutto come, schiacciati come sono a vivere alla giornata e con prospettive ridicole. Serve un’alternativa, un modello culturale antagonista nel quale riconoscersi. Non esiste nulla di tutto ciò, soltanto un’unica narrazione che vuole che questo sia il miglior mondo possibile. Io mi chiedo solo quando ci stancheremo di tutto questo e inizieremo a rivendicare un po’ di futuro anche per noi.

Giuseppina Capone

Rosaria Famiglietti e il Tempo sospeso

Rosaria Famiglietti è docente di Italiano al Liceo di Sant’Angelo dei Lombardi, Dottore di ricerca in Italianistica, cultore della materia presso l’Università di Tor Vergata, studiosa di Pirandello, collabora con la rivista Pirandelliana e con altre riviste nazionali. Si occupa soprattutto della letteratura di genere, tanti sono i suoi interventi seminariali.

Il suo romanzo narra di madre ed una figlia legate da un laccio sentimentale inscindibile, quello della famiglia.
Perché i legami familiari sono sempre così passionali, in grado, al contempo, di allontanare ed attirare, congiungere e dividere, annientare e generare?

Il legame familiare, indipendentemente dalla convivenza o meno, è quello che fortemente incide sulla crescita e sullo sviluppo emotivo dei bambini. È la famiglia il primo e fondamentale contesto per lo sviluppo sociale e cognitivo, ed è attraverso la famiglia che i bambini costruiscono i punti di riferimento della loro vita. L’osservazione dei comportamenti dei genitori consente al bambino di formare l’idea basilare di sé in relazione al mondo.
Non è semplice per i genitori far fronte ad una responsabilità così forte e faticosa, generalmente gli impegni pratici, dell’accudimento, assorbono le forze e tolgono il respiro, le esigenze dei figli destabilizzano l’equilibrio di coppia e generano tensioni, soprattutto quando è necessario fare i conti anche con gli impegni di lavoro.
Dunque si tende a sottovalutare il ruolo principale e determinante del clima familiare sullo sviluppo emotivo del bambino.
Secondo Winnicott per poter garantire ai figli uno sviluppo sereno e armonico è necessario un ambiente vivo, aperto al confronto, pronto ad accogliere e sostenere il bambino con i suoi desideri, le sue paure, le sue esigenze fisiche, ma soprattutto emotive, cognitive, sociali, in una dimensione comunicativa.
Tanto complessa, però, risulta l’attuazione!
Ed è proprio nella complessità comunicativa che vanno ad annidarsi le incomprensioni, le insofferenze, le paure, le ansie.
All’interno del mio racconto ho cercato di percorrere le strade della comunicazione, della narrazione per trovare un punto di incontro:
“Scendere nelle sofferenze profonde, nei ricordi rimossi, nell’infanzia, ma soprattutto analizzare il rapporto con la propria madre è necessario per vivere con maggiore consapevolezza il rapporto con la propria figlia.
Prima di essere madre è importante riconnettersi con la propria madre attraverso un gesto d’amore a cui le figlie non sono preparate perché richiede il superamento di posizioni condizionanti, radicate e irrigidite dal tempo, si tratta della capacità di perdonare la madre.
Il perdono nasce dal desiderio di superare ed elaborare la parte dolorosa e scomoda, cercando di riacciuffare la parte migliore per vivere meglio il presente. Il sentimento negativo che genera il rapporto con la madre non può essere paragonato a nessun altro dolore, non basta tagliare il cordone ombelicale, la sua carne è la nostra carne, il suo corpo è un’estensione del nostro.
Non devo aver paura degli scontri, dei conflitti perché la crescita passa anche di lì, dalla capacità di rielaborarli e di vederne il lato costruttivo.
Questo viaggio interiore mi ha spinto verso un labirinto faticoso che avevo sempre rinnegato, piano piano sto riavvolgendo il filo e tu sei lì, ne tieni ancora il capo, altro da me, ma parte di me.
In questo cammino doloroso ho scoperto un qualcosa che mi manca tanto, che ho smarrito non so dove, né quando, ma che vorrei ritrovare con te, cerchiamolo insieme, ricominciamo a sorridere e ad essere leggere: inventiamoci un motivo per ridere insieme. Sempre”
Dunque, probabilmente, un ingrediente indispensabile per l’armonia familiare può essere ricercato nella leggerezza e nell’ironia, nella capacità di mettersi in gioco e di mostrarsi accoglienti.

Una comunicazione diaristica ininterrotta. E’ possibile tessere relazioni efficaci attraverso la scrittura?
Sarà per le mie esperienze lavorative e la mia formazione pedagogica, ma tendo a ricondurre le mie riflessioni alle esperienze sul campo.
Il metodo autobiografico, al di là della funzione terapeutica in senso stretto, svolge un ruolo fondamentale nella didattica: Il metodo delle storie di vita può offrire la possibilità agli insegnanti di conoscere i propri studenti. Il dialogo tra docenti e studenti, attraverso la narrazione del proprio vissuto, rappresenta una modalità educativa fortemente inclusiva che accoglie e valorizza le diversità. La relazione educativa esce sicuramente rafforzata da questa pratica del racconto autobiografico poiché mette in campo persone e non ruoli. Tale approccio consente, inoltre, di superare i divari generazionali e di incontrarsi in un luogo neutro, aperto, flessibile e privo di pregiudizi.
Incoraggiare i ragazzi a raccontarsi li aiuta a giungere ad una più approfondita conoscenza di se stessi, dei propri limiti e delle proprie potenzialità, e si acquisiscono punti di vista differenti.
Attraverso l’atto del narrarsi si crea una sorta di rete, un’intelaiatura che permette di ottenere una visione meno superficiale degli avvenimenti, e delle situazioni vissute e dei sentimenti provati
Come si può comprendere, l’atto del raccontarsi risponde all’esigenza insita in ogni individuo di conferire unitarietà e senso agli eventi (personali e/o professionali) della propria esistenza in un’ottica emancipativa.
“L’autobiografia viene a poco a poco riconosciuta non tanto come scopo ma come mezzo che accompagna lo scrittore alla riscoperta della propria storia che riesce ancora a stupirlo. Inoltrandosi nel racconto autobiografico, egli accetta infatti di essere depistato dal percorso previsto per lasciarsi andare al ricordo involontario seguendo anche rievocazioni disordinate; trasportato dalla scrittura, si scopre a raccontare fatti o sentimenti che credeva di aver dimenticato e che sono invece affiorati alla memoria all’improvviso e in questo risiede lo stupore dell’autobiografia: non si scrive per dire ciò che si conosce, ma per avvicinarsi di più a ciò che non si conosce”. ( A. Bolzoni, Oltre l’oralità, in D. Demetrio [a cura di] L’educatore Auto(bio)grafo. Il metodo delle storie di vita nelle relazioni d’aiuto, Unicopli, Milano, 1999, pag. 50)
Sicuramente per un docente è più semplice costruire un dialogo, porsi in relazione positiva con gli studenti perché il distanziamento emotivo e il contesto consentono un equilibrio più solido. Per i genitori, invece, non è così semplice, le dinamiche familiari risultano più complesse e condizionate da una quotidianità spesso soffocante.
Io ho provato a portare in famiglia una tecnica didattica e pedagogica:
“La scrittura è stata da sempre una valida amica, capace di dare ordine ai pensieri, di renderli concreti per guardarli in faccia, per perdersi tra le righe, per riconoscersi o per perdersi ancora, lo è per me, ma lo è anche per te.
Forse in questo spazio neutro e vitale sarà possibile costruire un mondo accogliente, nel quale esprimersi, mettersi a nudo, senza il timore dell’altro, senza dover sopportare lo sguardo dell’altro. Questo cantuccio saprà svelare i misteri di un rapporto segnato da sofferenze ataviche”

Incertezza, precarietà, fragilità, inquietudine, indefinibilità paiono costituire il filo rosso della vita. Qual è la chiave per placare la febbrile ricerca del senso dell’esistenza?
Non credo sia importante placare la febbrile ricerca del senso dell’esistere, ritengo invece fondamentale orientarla e supportarla nel modo giusto.
Incertezza, precarietà, fragilità, inquietudine hanno da sempre accompagnato gli animi più sensibili e la scoperta della letteratura e della lettura può aiutarci a dare un senso alla nostra esistenza e al destino che ci attende, la lettura rappresenta una palestra che ci aiuta ad interagire con il mondo.
“Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo per vivere. La lettura non ha niente a che fare con l’organizzazione del tempo sociale. La lettura è, come l’amore, un modo di essere”
La lettura, come le passioni e l’arte in generale possono riempire di senso il nostro tempo, ma soprattutto possono essere balsamo nelle tormente dell’esistere.
Il periodo della pandemia ha segnato indelebilmente le nostre vite, ma ha rafforzato il mio pensiero, i ragazzi che aveva coltivato passioni, letture, musica, teatro, cinema, sono riusciti a trovare la forza per resistere e reagire al distanziamento sociale. All’interno del libro c’è un capitolo, Tempo sospeso, dedicato appunto al momento della DAD e delle vite sospese che riescono a ritrovarsi tra letture e scritture.
“Nella nostra scuola organizzare l’evento di Natale è una tradizione molto sentita che coinvolge tanti studenti. Quest’anno non è possibile riunirci a teatro, per questo vogliamo girare un video e trasmetterlo in streaming. Questa iniziativa vuole essere un invito a vedere la vita con più leggerezza, anche in un momento così delicato. In ogni situazione, anche in quelle più difficili, ci deve essere spazio per la speranza”
“Una luce nei momenti bui, un modo per non lasciarsi sopraffare dalle difficoltà e per restare in contatto con noi stessi”
“Proprio la speranza deve fare da filo conduttore a tutte le scene del video-spettacolo”.
“Dunque, mentre continuiamo a sperare e a sognare un futuro migliore, possiamo far tesoro dell’attesa. Soprattutto dobbiamo imparare a prenderci del tempo per fare qualcosa che ci faccia stare bene”

Uno dei temi su cui si innesta la sua riflessione è il cambiamento fisico adolescenziale. Tra le pagine si coglie l’introversione, la scontrosità, l’inquietudine e la disubbidienza adolescenziale. Quali tratti assume la giovinezza nella ricerca di coordinate, d’interpretazioni univoche della realtà, di superamento delle contraddizioni?
L’inquietudine e lo spaesamento sono elementi dell’essere adolescente, appartengono alla paura e al desiderio di costruire e di costruirsi. Le ansie, le crisi, ma soprattutto i contrasti con i genitori sono tasselli indispensabili per l’affermazione del sé.
Il corpo cambia, le emozioni si modificano e si fanno più intense, sentono il bisogno di prendere le distanze dalla figura infantile e in questo turbinio di eventi il primo ad essere travolto è il rapporto con i genitori. Per ristrutturare la propria personalità, spesso, sentono il bisogno di demolire quella dei genitori. È proprio in questa situazione di instabilità che i genitori devono curare l’ambiente familiare per aiutare i ragazzi a trovare la propria identità, rispettare la ricerca di spazi solitari, sopportare gli sbalzi di umore, le incertezze, essere accoglienti. È importante, però, che l’adulto mantenga la propria autorità che il suo ruolo comporta pur adoperandola nella maniera più democratica possibile, incoraggiando, al contempo, lo sviluppo del senso di autonomia e responsabilità.
C’è un capitolo che in modo forte affronta il tema dell’adolescenza, Viaggi.

“Vedi figliolo, se ti concentri troppo su quello che pensi dovrà essere, non godrai mai di quello che sta succedendo. Se porti fretta al tuo destino, non proverai il gusto più saporito, ovvero quello dello scorrere della vita.
Devi imparare a lasciare che scorra, ma ciò non vuol dire lasciarsi completamente portare dalla corrente, altrimenti rimarrai perduto: il ragazzo della storia ha comunque dovuto remare.
Metti la tua forza di volontà in ciò che fai, ma non credere che forzare le cose porterà mai a qualche bene.

Professoressa, quale idea desidera che emerga dei rapporti umani tra generazioni, anche in riferimento alla sua esperienza di docente?
La parola che ripeto spesso, sia in classe che a casa è “rispetto”; credo che se i rapporti vengono costruiti sul rispetto sarà sempre possibile sanare incomprensioni e fratture. Avere rispetto significa essere aperti all’altro, avere la capacità di praticare un ascolto attivo, necessario per poter realmente entrare in empatia con l’altro, assumersi la responsabilità di comprendere ciò che dice l’altro, sospendendo giudizi e preconcetti, imparare a mettersi nei panni dell’altro, cambiare la focalizzazione. Anche in questo caso faccio riferimento a esperienze di ricerca- azione nel campo della pedagogia. Carl Rogers ci ha insegnato che bisogna ascoltare l’altro con attenzione, e in modo non direttivo, costruendo fiducia, rispetto ed empatia con l’interlocutore in modo che quest’ultimo possa esprimersi liberamente, senza paura di un giudizio affrettato e soprattutto senza pressioni.
L’ascolto attivo deve essere accompagnato dallo sviluppo delle competenze argomentative, bisogna guidare i ragazzi a riflettere e a costruire idee e pensieri attraverso solidi principi di autorità. La società ha bisogno di riappropriarsi della cultura, dell’educazione e del rispetto.

Giuseppina Capone

Pianeta Napoli 2, la nuova idea letteraria di Antonio Lanzaro

 

Abbiamo incontrato il prof. Antonio Lanzaro, Presidente della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus, autore di numerose pubblicazioni e di alcune raccolte di racconti e poesie. Con lui abbiamo parlato della sua ultima produzione letteraria.

Presidente Lanzaro, da autore di libri e pubblicazioni di diritto a narratore e poeta, come mai ha deciso di intraprendere questa strada letteraria?

In effetti non c’è stata alcuna programmazione o decisione ma “solo una”, imprevedibile “senilità” incombente che ha comportato l’esigenza di rispolverare ricordi, persone, avvenimenti che hanno caratterizzato la mia vita. Ovviamente l’unico strumento per lasciare il… segno era la scrittura e quindi …

Quando e com’è nata l’idea di scrivere questa raccolta di racconti?

Come ho detto nella premessa a “Racconti Fantastici” molti racconti sono autobiografici. Su alcuni ci ho ricamato sopra, altri sono frutto di fantasia, comunque tutti i personaggi sono napoletani, eroici, generosi, altruisti, dotati di inventiva e indiscusse capacità.

Quanto della sua esperienza personale è presente nei racconti di “Pianeta Napoli” e “Racconti Fantastici”?

Certamente l’esperienza personale è stata determinante, avendo perso mio padre a venti anni si potrà immaginare quanto … ho “vissuto”, studiato, lavorato e alla mia età quante persone ho conosciuto nel bene e nel male.

La fantascienza è il leitmotif di questo libro, i tempi che stiamo vivendo quanto hanno inciso nella scelta dei contenuti di questa pubblicazione?

Ho precisato nella premessa a “Racconti Fantastici” il mio interesse per la fantascienza e per la cinematografia in genere e da ragazzo seguivo il sogno di imitare autori come Asimov, Clarke, Dick, Ballard.

Ma nel 1970, pubblicai il mio primo articolo giuridico sulla rivista “Orizzonti Economici” della Camera di Commercio e quindi la realizzazione del sogno fu rinviata: “Maiora Premebant!!!”

A quando la prossima “fatica” letteraria?

Salute e Covid permettendo ho in mente di scrivere una commedia comica in due atti.

Diciamo questa estate. Ovviamente né darò notizia su “Lo Scugnizzo” il giornale della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus di cui sono Presidente.

Alessandra Desideri

Laureato a undici anni: Laurent Simons   viene definito bambino prodigio

“Se un giorno inventerò qualcosa, lo metterò su internet a disposizione di tutti”.

Sono le parole di Laurent Simons, il bambino prodigio belga che all’età di soli 11 anni si è laureato in fisica all’Università di Anversa con il massimo dei voti. Simons era già noto per il suo quoziente intellettivo altissimo e infatti ha completato gli studi portando a termine un percorso di tre anni in solo dodici mesi. Il piccolo genio, quando viveva in Olanda, era già a un passo dalla laurea ma a causa di un disaccordo con il direttore dell’Università (riteneva che Laurent fosse troppo giovane per potersi laureare) non completò gli studi. Il piccolo Simons ha già seguito alcuni corsi per seguire il programma di un master e non solo, ha intenzione di intraprendere un dottorato al termine del master.

“Vorrei inventare organi artificiali che sostituiscano quelli reali – ha dichiarato Laurent Simons . – Così anche i miei nonni potranno vivere più a lungo”.

L’obiettivo di Laurent è quello di riuscire, un giorno, a sostituire con la tecnologia tutte le parti del corpo, per far sì che la vita umana possa prolungarsi, mantenendo, però, un collegamento con il cervello per salvaguardare la loro coscienza.

Un bambino che a soli undici anni possiede una conoscenza approfondita di una o anche più settori, che riesca ad ottenere risultati del livello di un adulto, non può che essere definito bambino prodigio.

Il bambino prodigio

“Ci hanno detto che è come una spugna” dichiara entusiasta il padre di Laurent.

I nonni del piccolo Laurent, hanno, sin da subito, ritenuto che il bambino fosse “dotato di un dono” motivo per il quale le sue capacità di apprendimento fossero, da sempre, risultate superiori rispetto ad un bambino della sua età. Lydia e Alexander Simons (genitori di Laurent) erano titubanti al riguardo fino a quando gli insegnanti  del bambino hanno confermato la teoria dei nonni e cioè che Laurent il dono ce l’ha. Laurent è stato testato, risultato IQ oltre 145.

“Penso si concentrerà sulla ricerca e la scoperta, l’assorbimento delle informazioni non è un problema per Laurent”, afferma Alexander. Per quanto riguarda il dottorato di ricerca, invece, Alex e Lydia non hanno ancora voluto rivelare la scelta del figlio. Intanto, il piccolo fenomeno, è conteso da prestigioso atenei di tutto il mondo.

È semplicemente straordinario

“È lo studente più veloce che abbiamo mai avuto. Non solo è iper intelligente ma anche molto simpatico. Gli studenti speciali che hanno buone ragioni per farlo, possono organizzare un programma adeguato. Succede anche agli studenti con impegni sportivi” – ha dichiarato, durante un colloquio con i genitori del piccolo,  Sjoerd Hulshof, il direttore della Facoltà del TUE. L’università di ingegneria ha dato la possibilità a Laurent di completare il corso molto prima rispetto agli altri studenti. Sjoerd, ha ritenuto opportuno lasciar libero Laurent di andare avanti senza ostacolarlo, nonostante la sua tenera età. Il direttore ha ben compreso che una persona con un IQ così alto non la si può reprimere. La si può solo far crescere. Far prendere il volo.

Al contempo, però, come tutti i bambini della sua età, il piccolo Laurent ancora non sa bene cosa vuole fare da grande. Vorrebbe diventare medico chirurgo e fare l’astronauta. È  importante che ogni bambino, seppur l’eccezione di un piccolo genio, abbia il diritto di vivere la spensieratezza che quell’età richiede e che si senta libero di coltivare anche il suo lato infantile come tutti i bambini del mondo; di fatti, il piccolo Simons, ama giocare con i suoi coetanei anche se gli attende un futuro totalmente diverso.

Alessandra Federico

Generazione Pompei

Maurizio Molinari nella sua prefazione a “Generazione Pompei” riassume in poche ma significative parole il contenuto del volume, distribuito gratuitamente il 24 giugno scorso con il quotidiano la Repubblica, ricco di illustrazioni edito da Guida editori “… è un viaggio nel sito archeologico che dal 2013, grazie alla piena operatività del Grande progetto Pompei, ha cambiato volto: dai crolli ai restauri alle scoperte”.

Massimo Osanna per ben sei anni ha diretto il Parco Archeologico di Pompei ed oggi è direttore generale dei Musei del Mic è stato attore e protagonista del riscatto di uno dei siti più conosciuti e più visitati al mondo.

Nella sua introduzione Ottavio Ragone sottolinea l’importante contributo dato dalle donne le quali, con la loro competenza  e forza, hanno contribuito in maniera determinante nel Progetto Pompei.

Il nuovo direttore generale del Parco archeologico di Pompei Gabriel Zuchtriegel nel suo contributo al volume ha evidenziato il rapporto tra la città e il territorio tra antichità e presente e l’importante opera di valorizzazione della zona e del paesaggio vesuviano.

Nelle immagini che raccontano insieme alle parole Pompei, le nuove scoperte, il riscatto e la valorizzazione di uno dei siti archeologici più affascinanti per la varietà e ricchezza di reperti che ci raccontano la storia di una fiorente città cancellata insieme ai suoi abitanti e quelli di Ercolano, Stabia e Oplontis dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.

Alessandra Desideri

 

 

Generazione Pompei

Scoperte e restauri: i protagonisti

Massimo Osanna

Antonio Ferrara

A cura di Ottavio Ragone

Novanta-Venti

la Repubblica

Guida editori

pp.166, 2021

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