Massimo Prati: Rivoluzione inglese. Paradigma di modernità

Lei compie un’analisi di una serie di opere di storici britannici, relative alla Rivoluzione Inglese, mai tradotte nel nostro paese. Ce ne offre una sinossi?

Effettivamente, quelle a cui lei fa riferimento, nella maggioranza dei casi sono opere mai tradotte nel nostro paese. In altri casi ancora, siamo di fronte a lavori di ricerca pubblicati in italiano oltre 50 anni fa e che non sono più in commercio da moltissimo tempo; per questo motivo, si tratta di testi poco conosciuti al grande pubblico. Infine, ci sono pubblicazioni relativamente recenti di cui, per ora, non esiste un’edizione italiana. Io ho lavorato sullo studio e sulla lettura integrale di decine di questi libri. Riassumere complessivamente il contenuto di queste ricerche è praticamente impossibile. Per lo studioso o per il ricercatore interessato all’argomento, rimando alla bibliografia del mio libro. Nell’ambito di questa intervista, penso possa utile segnalare tre pubblicazioni, risalenti a periodi anche molto distanti tra loro: 1) “The Levellers and the English Revolution”, di H.N. Brailsford, del 1961. 2) “The Far Left in the English Revolution. 1640 to 1660”, di Brian Manning, uscito nel 1999. 3) “The English Civil War. 1640-1660”, di Blair Worden, pubblicato nel 2009 e, a mia conoscenza, non ancora tradotto in italiano. Henry Noel Brailsford, (25/12/1873-23/3/1958), è stato uno dei più importanti e autorevoli giornalisti britannici di orientamento progressista. Il suo libro sui Livellatori uscì a tre anni dalla sua morte, grazie al lavoro di “editing” svolto da un grande storico inglese: Christopher Hill. Si tratta, a mio parere, della più importante ricerca sull’argomento. Nelle oltre 700 pagine del libro si racchiude l’attività di questo importante movimento politico in tutte le sue sfaccettature: gruppo dirigente, iniziative dei militanti, pubblicistica di partito, contenuti programmatici e molto altro ancora. Rispetto a quello di Brailsford, il libro di Brian Manning, in termini quantitativi è un lavoro di dimensioni minori: la sua ricerca è inferiore alle 140 pagine. Ma, a mio parere, il suo lavoro è comunque prezioso. Brian Manning (21/5/1927-24/4/2004) era uno storico di orientamento marxista, allievo del sopraccitato Christopher Hill. Nel suo libro, il cui titolo potrebbe essere tradotto in “L’Estrema Sinistra e la Rivoluzione Inglese dal 1640 al 1660”, l’autore si concentra sulla storia dei movimenti politici e le lotte sociali più radicali di quel periodo. Basandosi anche sui lavori precedenti di altri ricercatori, lo storico britannico riporta alla memoria le prime lotte operaie di minatori e portuali nella metà del Seicento inglese. Blair Worden è un professore universitario britannico, nonché un eminente storico, specializzato nella storia inglese del periodo di Oliver Cromwell. Il suo pregevole libro, che ho ricordato poc’anzi, tra le altre cose è un testo fondamentale per la dettagliata ricostruzione delle vicende di guerra.

La sua ricerca è basata sul metodo comparativo. Quali sono i termini che raffronta e quali sono le ragioni che l’hanno indotta a donare ai lettori un duplice piano di lettura?

Nel mio libro, parto dal presupposto teorico che la Rivoluzione Inglese abbia anticipato fenomeni e processi sociali manifestatisi più ampiamente, e più compiutamente, in vicende storiche successive. Questo, pur rifuggendo da teorie deterministiche o basate sulla ciclicità della storia, mi ha portato ad operare una serie di comparazioni tra la Rivoluzione Inglese e altri processi rivoluzionari del Settecento, dell’Ottocento e del Novecento. D’altra parte, come in tutti i miei libri, cerco di fornire al lettore un duplice piano di lettura: da un lato un lavoro di ricostruzione dei fatti che permetta, anche a chi non è addentro alla materia, di avere un inquadramento storico facilmente comprensibile; dall’altro, una serie di approfondimenti, di suggestioni e di chiavi di letture utili a chi ha già una serie di competenze sull’argomento.

Un picchetto di minatori del Derbyshire nel 1649, le lotte dei portuali di Newcastle nel 1654 o, ancora, le petizioni organizzate da migliaia di donne di Londra, militanti dei Levellers (Livellatori): eventi dimenticati ma forieri di profondo interesse. Si tratta di eventi esemplificativi di modernità nella maniera in cui si sono svolti?

Come forse si può intuire dalla mia risposta precedente, il mio lavoro di ricerca parte da un’idea piuttosto semplice. La Rivoluzione Inglese, in qualità di primo processo rivoluzionario dell’età moderna, e del nascente sistema capitalista, ha in qualche modo prefigurato scenari sviluppatisi più profondamente in epoche successive. Da questo punto di vista, gli esempi di combattività operaia e di attivismo femminile che lei richiama alla mente, confermano, a mio parere, la validità dell’ipotesi da cui sono partito. Nel libro si possono trovare innumerevoli esempi che vanno in questo senso, sia in termini di Macrostoria e grandi eventi collettivi, sia in termini di comportamenti individuali.

Qual è stata l’eredità lasciata dalla Rivoluzione Inglese? C’è un prima ed un dopo?

Io tendo ad interpretare l’eredità della Rivoluzione Inglese prendendo in esame un ampio periodo che va dal 1640 al 1689. Periodo che comprende quindi la fase delle guerre civili, la Restaurazione e la cosiddetta “Rivoluzione Gloriosa” (la seconda rivoluzione sviluppatasi tra il 1688 e il 1689). Per questo, a mio parere, sarebbe più giusto parlare di singole eredità delle due rivoluzioni, tenendole separate, nella misura del possibile, l’una dall’altra. Entrambe le rivoluzioni, pertanto, presentano tratti di straordinaria modernità e attualità. Ma, a mio parere, la prima rivoluzione (tra il 1642 e il 1658 circa) offre spunti di maggiore interesse per le sue tendenze libertarie, egualitarie, solidaristiche e alternative (perlomeno in alcune sue correnti di pensiero). Anche se, da un punto di vista ideale, la “Glorious Revolution” ha il merito di avere sancito il principio della tolleranza religiosa. È stato detto che il Toleration Act (1689) rispondeva alle esigenze di una società che puntava al business e voleva liberarsi delle vecchie diatribe. Ma credo che si tratti, piuttosto, di un riflesso -sul piano legislativo- di un bisogno profondo: la volontà di vivere in pace dopo circa 150 anni di lotte religiose, roghi, torture, persecuzioni e mutilazioni.
In generale, comunque, direi che la “Glorious Revolution” ha prodotto cambiamenti profondi -economici e istituzionali- che possono essere considerati fondamentali per il funzionamento di una moderna società capitalista e che, in parte, stabiliscono un modello ancora vigente. Mi riferisco, soprattutto, alla dialettica politica che si articola tramite lo schieramento di due o più fronti parlamentari contrapposti, e alla conseguente prassi di funzionare per maggioranze di governo. Ma mi riferisco anche alla gestione finanziaria dello stato e al suo funzionamento tramite la stesura e l’approvazione di bilanci preventivi. E, ancora, a provvedimenti legislativi tesi ad incrementare il commercio estero. Ma, personalmente, sono i tratti utopistico-libertari della prima rivoluzione quelli a cui io guardo con maggiore interesse.
Lei ha conferito alla sua ricerca un taglio divulgativo. Quali difficoltà ravvede nell’avvicinare coloro che non sono specialisti di materia allo studio della Storia?

Questa sua ultima domanda mi offre lo spunto per una precisazione. Io, pur essendo un grande appassionato di storia, non sono uno storico di formazione. I miei studi universitari sono di tipo letterario, con una specializzazione in comunicazione interculturale e corsi post-laurea in linguistica. Proprio in ragione di quanto le ho appena detto, agli inizi della mia carriera di studente, prima di stabilire a quale facoltà iscrivermi, ero stato a lungo indeciso se orientarmi verso gli studi di storia, da me coltivati per molti anni come autodidatta, o verso gli studi di lingue e letterature straniere. Alla fine fu decisivo il fatto che la Facoltà di Lingue dell’Università di Genova proponesse un corso di “Scienze dell’Informazione e della Comunicazione Sociale e Interculturale”. Si trattava di un orientamento di studi dal taglio fortemente interdisciplinare, con un ventaglio molto ampio di insegnamenti delle varie scienze sociali e discipline scientifiche (sociologia, psicologia, storia sociale dell’arte, semiotica, linguistica, ecc.). La specializzazione in queste scienze, e in queste discipline, mi ha dato pertanto la possibilità di misurarmi con numerosi studi sociali che, pur partendo da approcci diversi, hanno comunque un denominatore comune.
Ma la passione per la storia era, ed è, comunque rimasta. L’idea di compiere una ricerca in campo storico aveva quindi risposto alla necessità di ricomporre l’ideale frattura consumatasi all’inizio della mia carriera universitaria, e cioè al momento di scegliere un corso di studi di letteratura anziché uno di storia.
Ma la scelta dell’argomento ed il taglio del lavoro della mia tesi (che, con studi nei 20 anni successivi, è divenuto il libro di cui stiamo parlando in questo momento) erano dipesi in modo specifico da due letture: “Le Cause della Rivoluzione Inglese”, di Lawrence Stone e “The Making of the English Working Class”, di Edward P. Thompson. Nel primo libro lo studioso -pur criticando i risultati fino ad allora ottenuti- non escludeva la possibilità che attingendo dalle scienze sociali si potessero ottenere interessanti e innovative acquisizioni in campo storico: “Con tutti i loro difetti, gli scienziati sociali possono fornire un correttivo al rimestare tra i fatti, di gusto tanto antiquario, in cui gli storici cadono con tanta facilità; possono far osservare problemi d’importanza generale, lontani dalla sterile irrilevanza di tanta ricerca storica; possono porre nuove domande e proporre nuovi modi di considerare quelle vecchie; possono fornire nuove categorie e di conseguenza nuove idee”.
Inutile dire che rimasi immediatamente affascinato dalle prospettive aperte da un simile invito. Si trattava di cimentarsi in una sfida da affrontare con la modestia e la cautela che ogni ricercatore deve avere (e che, in primo luogo, passano per uno studio attento, incrociato, e approfondito delle fonti), ma anche con la positiva ambizione di mettere in campo le competenze acquisite in anni di studio nell’ambito delle scienze sociali. Ecco, le ho fatto questa lunga precisazione perché credo che si possano avvicinare nuovi lettori alla Storia proponendo, nuove idee, nuove categorie e nuove chiavi di lettura.

Massimo Prati si è laureato all’Università di Genova in Comunicazione Interculturale. Ha proseguito gli studi in Linguistica all’Università di Ginevra, nell’ambito del DEA, e in English Literature al St Claire’s College-Oxford. È formatore a Supercomm-Ginevra e insegnante nel College Aiglon. È autore di un racconto della raccolta Sotto il segno del Grifone (2004); de I racconti del Grifo (2017) e de Gli svizzeri, pionieri del football italiano (2019).

Giuseppina Capone

Massimo Birattari e la “Grammatica per cani e porci”

Massimo Birattari, laureato in storia e diplomato presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, è redattore, traduttore e consulente editoriale. È autore di una grammatica pratica, Italiano. Corso di sopravvivenza (TEA, 2015), di un “manuale di stile”, È più facile scrivere bene che scrivere male (Ponte alle Grazie, 2011, inserito nel 2017 nella collana del “Corriere della Sera” Biblioteca della lingua italiana), e di Come si fa il tema (Feltrinelli UE, 2019). Ha curato Io scrivo, corso di scrittura in 24 volumi del “Corriere della Sera” (2011, nuova edizione Fabbri-Centauria 2014 col titolo Scrivere). Tra i suoi libri per ragazzi, I rivoltanti romani (con Terry Deary, Salani, 1999); I barbuti barbari (Salani, 2008) e Vite avventurose di santi straordinari (Rizzoli, 2009), entrambi con Chicca Galli; Invece di fare i compiti (Rizzoli, 2018); e per Feltrinelli Kids Benvenuti a Grammaland (2011), La grammatica ti salverà la vita (2012), Scrivere bene è un gioco da ragazzi (2013), Leggere è un’avventura (2014), L’Italia in guerra (2015), Terrore a Grammaland (2018). Per Gribaudo ha realizzato la scatola gioco Le carte della grammatica (2015). Il suo ultimo libro è Grammatica per cani e porci (Ponte alle Grazie, 2020). Ha tenuto circa 400 incontri in scuole, librerie, biblioteche e festival e numerosi corsi di formazione per insegnanti. Il suo blog è http://www.grammaland.it.

Le questioni linguistiche trascinano, smuovono le folle sui social e coinvolgono i media, spesso suscitando sdegni e querelle. Ne consegue che la grammatica riguarda tutti, giustappunto “cani e porci”: come assumere posizioni sensate tra strafalcioni e regole?

Una risposta semplice sarebbe: bisogna evitare gli strafalcioni e conoscere le regole. Però le cose non sono mai così semplici. Un metodo per evitare molti strafalcioni sarebbe andare a controllare l’ortografia e il significato delle parole sul vocabolario; ma se uno è proprio convinto che l’aggettivo di “cervello” è “celebrale” con la L, non sentirà il bisogno di andare a consultare il vocabolario. Quanto alle regole, molte sono pacifiche (basta padroneggiarle), ma in qualche caso non è così immediato stabilire che cosa è una vera regola e che cosa invece è il ricordo, magari deformato, di nozioni che risalgono alle elementari. Nei miei libri, e in particolare in questa “Grammatica per cani e porci”, cerco di mettere pulci nelle orecchie dei lettori che vogliono migliorare la loro padronanza dell’italiano. Voglio metterli in contatto con alcune questioni spinose.

Quali sono i problemi più frequenti da affrontare?

Da almeno 15 anni ho sul computer un file intitolato un po’ pomposamente “Note linguistiche”, che in realtà è una raccolta di strafalcioni e improprietà trovate in internet, nei giornali, in televisione, nei libri. Da questa ricerca sul campo (anche se di solito non sono io ad andare in cerca di strafalcioni, sono gli strafalcioni ad aggredirmi) deriva la rassegna di problemi da cui ho ricavato l’indice di “Grammatica per cani e porci”: banali questioni ortografiche (“beneficenza” scritto con la i o “riscuotere” con la q), grandi classici come le “donne incinta” (come se non esistesse il plurale “incinte”), le improprietà legate all’uso e abuso di termini stranieri (in particolare inglesi), le difficoltà legate al congiuntivo (non solo alla sua scomparsa; anche all’uso fuori luogo), le complicate questioni di genere, in particolare quelle connesse al femminile dei nomi delle professioni, i ricordi distorti di ciò che si è imparato a scuola, e alla fine, in generale, il nostro rapporto con le regole della grammatica e, in fondo, con la nostra lingua.

Controllare gli strumenti linguistici vuol dire essere abili nello scegliere, in ogni circostanza, il registro linguistico più adeguato. Quanto è significativo il contesto comunicativo rispetto alla rigida osservanza delle norme grammaticali da “grammarnazi”?

Alla fine della premessa del mio “Italiano. Corso di sopravvivenza”, una grammatica pratica uscita del 2000, scrivevo: “quando padroneggerete le regole dell’italiano potrete permettervi il lusso di forzarle o addirittura di violarle per piegarle ai vostri scopi espressivi. In fondo, questo libro vuole (anche) darvi la possibilità di maltrattare la grammatica. Dopo avervela insegnata, però”. Il segreto è sempre la consapevolezza linguistica: chi sa maneggiare la lingua può, letteralmente, fare quello che gli pare. Infatti le grammatiche tengono conto dell’uso degli scrittori (le scelte consapevoli di un bravo scrittore fanno testo, diventano “regola”). Ma non solo gli scrittori: tutti noi, se abbiamo letto tanto e bene, se abbiamo imparato a usare la lingua per trasmettere con precisione ed efficacia ciò che vogliamo dire, abbiamo una grande libertà espressiva, che è la libertà di usare una lingua personale. Naturalmente la consapevolezza linguistica ci permetterà di capire quali sono gli ambiti in cui esercitare nel migliore dei modi questa libertà.

Tullio De Mauro ha asserito “La lingua è una cassetta degli attrezzi.” Può commentare siffatta osservazione?

Noi possiamo comunicare in molti modi, ma non c’è dubbio che il metodo più usuale (e di solito anche il più efficace) che abbiamo a disposizione è proprio la lingua. La lingua (parlata o scritta) ci serve per raccontare, per chiedere, per agire, per far valere i nostri diritti, per cambiare le cose che non vanno. Per questo è importante da un lato disporre di molti attrezzi linguistici (conoscere bene le parole, per esempio) e soprattutto tenerli in efficienza (per esempio con la lettura), e dall’altro usarli nel modo migliore: saper scegliere il termine giusto, saper combinare le parole grazie a una sintassi corretta ed efficace, variare i registri in base alla situazione comunicativa.

Nel suo piacevole testo lei mi pare evidenziare un atteggiamento verso l’italiano quasi di pigrizia o timore, che comporta un uso monco e parziale della lingua. Può individuarne le motivazioni?

Come ho detto, il mio libro parte dagli strafalcioni, che sono quasi tutti strafalcioni commessi da professionisti: strafalcioni pubblicati sui giornali, sui libri, in annunci pubblicitari, in rete da persone il cui principale strumento del mestiere è o dovrebbe essere proprio la lingua. Sono strafalcioni molto più gravi di quelli che tutti noi scriviamo quando mandiamo velocemente messaggi dal cellulare: per quelli può valere la scusante della fretta, o la classica frase “non sto a correggere gli errori di battitura, tanto si capisce quello che voglio dire”. È chiaro che un errore può sempre capitare, ma se sono continui, ripetuti e accompagnati da una sintassi traballante e da un lessico impreciso dimostrano una sciatteria e un’incuria che sono l’esatto opposto dell’atteggiamento che un professionista dovrebbe avere nei confronti degli strumenti del mestiere. Accontentarsi di una lingua sciatta significa non credere nelle proprie capacità espressive e ritenere che chi ci legge e ascolta non sia in grado di cogliere la differenza tra un testo ben fatto e uno pasticciato.

Giuseppina Capone

Chiusa una porta… ti sei scordato le chiavi dentro

Enzo Pacilio si è laureato in medicina e chirurgia presso l’Università di Firenze e si è specializzato in medicina legale e delle assicurazioni presso “La Sapienza” di Roma. E’ stato ufficiale medico dell’Aeronautica Militare. Musicista autodidatta, ha composto varie canzoni e suonato in una rock band chiamata Balbo Avenue, in onore della sua appartenenza all’Arma azzurra, con la quale ha inciso un CD. Da sempre interessato a componimenti brevi ed ironici annovera tra le sue letture preferite Topolino, Alan Ford, Ennio Flaiano, Leo Longanesi, Oscar Wilde, Mark Twain. Dal 2014 inizia a pubblicare i suoi aforismi nella sua pagina social riscuotendo apprezzamenti e decide quindi di raccoglierli in un libro che rappresenti il suo percorso creativo.

Ne “Chiusa una porta… ti sei scordato le chiavi dentro” lei compone una sorta di canzoniere fatto d’aforismi, battute comiche, freddure, giochi di parole; ci spiega com’è riuscito a condensare in modo rapido e fulmineo argomenti ricchi di chiaroscuri quali “Amore e sessualità”, “Arte, cultura, scienza”, passando per “Lavoro, economia e finanza”, “Salute e medicina”?

Ho una passione per la sintesi, quasi una necessità, da sempre. Ricordo le mie difficoltà, a scuola, di scrivere un compito in classe che superasse due fogli. Usavo degli stratagemmi; scrivere molto largo e piegare in due il foglio protocollo che in realtà aveva già i bordi. Raccontare in poche parole ciò che vedo lo trovo anche una forma di rispetto per salvaguardare un bene prezioso di chi legge: il tempo.

E’ a favore del riconoscimento della “bibliodiversità” della letteratura contro l’eccessiva predominanza della narrativa? Penso al fatto che se scriviamo la parola “aforisma” il correttore la segna come corretta ma se proviamo a scrivere la parola “aforista”, il correttore ortografico pone un segno rosso. Eppure alcuni nomi celebri come W.H. Auden o Roland Barthes hanno dedicato dei saggi notevoli all’aforisma!

Sono assolutamente favorevole. I componimenti brevi e gli aforismi sono forme di scrittura che hanno la stessa dignità della narrativa. Ritengo che possano bene rappresentare i tempi ed il mondo attuali e che possano raggiungere davvero tutti; un tipo di letteratura democratica. I social ne rappresentano uno straordinario mezzo di diffusione.

Le è capitato d’usare i suoi stessi aforismi?

Interessante domanda. No, per una sorta di pudore che rispecchia il mio modo, piuttosto umile, di confrontarmi con il prossimo. Lo troverei un atto di arroganza.

Dal 2014 lei inizia a pubblicare i suoi aforismi nella sua pagina social riscuotendo apprezzamenti. Qual è il suo rapporto con i lettori, le scrivono, le chiedono pareri ed opinioni?

Rapporto ottimo, costruttivo. A me piace molto “giocare” ed interloquire in modo ironico, ovviamente. Attraverso lo scambio di opinioni ho anche modo di comprendere meglio cosa e come arriva al lettore. Mi viene chiesto spesso quale sia la fonte di ispirazione ; la risposta è che non ce n’è una soltanto. Le situazioni paradossali sono però certamente quelle più ispiratrici.

Il suo scopo è divertire o informare?

Informare divertendo. In realtà il mio scopo è quello di vedere la realtà in maniera diversa, leggera, ma a volte spiazzante; usare la parola in modo non convenzionale significa per me aprire spazi inusuali di pensiero.

Giuseppina Capone

L’urban fantasy Sancta Sanctorum

Gilbert Gallo, Lei ha scritto una urban fantasy. Può definire siffatto genere e, qualora possibile, indicare il solco letterario in cui s’inserisce?

Si definisce Urban Fantasy un sottogenere del Fantasy in cui le vicende si svolgono prevalentemente in ambienti urbani. Quindi a differenza di Tolkien che ambienta le sue storie in ambienti aperti (foreste, montagne e piccoli villaggi), gli scrittori urban fantasy collocano il sovrannaturale in un ambiente urbano/metropolitano. Il setting può essere moderno (XIX secolo in poi) contemporaneo o anche futuristico.

I miei più grandi ispiratori del genere per Sancta Sanctorum sono Neil Gaiman col suo American Gods e il fumetto/serie TV “The Preacher” di Ennis/Dillon.

L’ambientazione ed il sottinteso diffuso è la mitologia a noi più familiare fornita dalla religione cattolica, con l’apparato sovrannaturale ed il manicheismo di cui è permeata. Qual è la prospettiva da cui guarda i Santi? Li ha concepiti come supereroi estranei alla tradizione altresì originali?

Ho sempre pensato che i Santi fossero i “nostri” supereroi: esempi di virtù, altruismo, sacrificio e paladini del bene. Li abbiamo “venerati” da sempre ma ultimamente li abbiamo dimenticati in favore di altri modelli. La mia opera vuole essere un tributo a queste meravigliose figure del nostro passato che non hanno nulla da invidiare ai supereroi Marvel o DC. Il potere che scorre nel sangue di San Gennaro, il potere della Rosa di Santa Rita o lo tsunami del fiume Giordano di San Giovanni Battista sono solo alcuni dei numerosi “superpoteri” che fanno dei nostri Santi della figure davvero potentissime. Ho cercato di renderli più concreti, umani e “veri” rispetto alle statue o alle pitture bidimensionali della cattedrali per cui il lettore di sicuro troverà dei Santi “diversi” da come glieli hanno raccontati, ma al contempo “veri” (per esempio, quanti di noi sanno che Sant’Antonio è Portoghese?).

Il suo romanzo ha attinenza con i giochi di ruolo?

I giochi di ruolo hanno avuto una fortissima influenza su di me, aiutandomi a creare storie, intrecci e dialoghi verosimili con naturalezza. Chi conosce quel mondo potrà trovare parecchi rimandi nell’opera, e infatti un progetto di creazione di un gioco di ruolo su Sancta Sanctorum era stato già messo in piedi anni fa con Edizioni Acchiappasogni.

“Perché siamo peccatori! Lamentosi, meschini, umani.” Qual è il confine tra Bene e Male che stabilisce nella sua narrazione? Come scioglie l’atavico dilemma morale?

Ahaha! Bella domanda! Tutta l’opera gira proprio attorno all’assioma che TUTTI pensano di essere dalla parte del giusto. Gli Oscuri pensano che sia loro diritto fare come credono. I Santi pensano che sia giusto seguire il Patriarca. I Martiri vogliono fermare Pietro II prima che scateni l’Armageddon. Ogni lettore è libero di farsi la sua idea su chi sia “il buono” e chi il cattivo. La Fede (ossia credere fermamente in ciò che si fa) è il fulcro di tutto: avere Fede non significa necessariamente essere nel giusto, ma può renderti più forte del tuo avversario. E come la Storia ha dimostrato più volte, Bene e Male vengono decisi dal vincitore.

Romanzo e fumetto: connubio efficace. Può accendere la nostra fantasia rispetto alle modalità d’interazione?

Adoro il fumetto. Dopo i videogames e il cinema è la forma più immediata di storytelling. Abbiamo in cantiere un paio di progetti per convertire il setting di Sancta Sanctorum in fumetto: spero di potervi fornire al più presto risposte concrete e precise.

 

Gilbert Gallo – Scrittore e Game Designer.

Come ogni aspirante supereroe che si rispetti, anche Gilbert ha una doppia identità. Di giorno grazie ai suoi superpoteri di guarigione riporta il sorriso sui visi che lo hanno perduto mentre di notte crea fantastici universi nei quali si muovono personaggi incredibili che vivono mirabolanti avventure.

Si dedica da svariati anni alla scrittura di manuali, settings e avventure per giochi di ruolo. Al momento collabora con numerosi editori Italiani ed Esteri come freelance e sia nell’ambito dei giochi di ruolo che in quello dei giochi da tavolo.

Nell’ambito dei giochi di ruolo è autore di più di 20 titoli pubblicati in varie lingue (Italiano, Inglese, Polacco).  E’ stato invitato più volte in conventions americane come ambasciatore del Gioco di Ruolo Italiano, fra le quali la GenghisCon41 di Denver (Colorado) del 2018, la GenghisCon42 del 2019 e la Savage Cruise del 2020 nel Mar dei Caraibi.

Collabora con Heroic Fantasy Italia (Delos Digital), Italian Sword and Sorcery ed è membro della World SF Italia.

Nell’ambito di racconti e romanzi, ha pubblicato: La Leggenda di Eracle vol I – Fuga Verso Delfi per Delos Digital; La Leggenda di Eracle vol II – Il Regno della Sfinge per Delos Digital; La Terra degli Anunnaki (antologia: racconto Fratelli di Sangue) per Italian Sword and Sorcery; Sancta Sanctorum – Le Reliquie dei Martiri per Les Flaneurs Edizioni

Giuseppina Capone

Pietro Favorito e la sua graphic novel Hot Play

Pietro Favorito è un dj e speaker radiofonico. Si occupa di spettacolo, musica e produzioni televisive. Ha diretto il mensile “Gente della Notte”, per il quale ha creato una linea di abbigliamento e presentato l’omonimo programma tv. Nel 2011 dirige il mensile SKN e a giugno 2013 dà vita al fumetto noir, a distribuzione nazionale, Lady Mafia, attirando le attenzioni della Titanus, che ne opziona i diritti cinematografici e televisivi. A luglio del 2014, in collaborazione con Radio Capital, pubblica il fumetto: Déjà Vu – Universi Paralleli. Risale invece a settembre 2014 la pubblicazione di un fumetto per bambini Se casco senza casco sono caschi miei, una collaborazione con Striscia la notizia e Unicef, con il patrocinio del MIUR. Tra il 2015 e il 2016 pubblica libri per bambini e ragazzi: Elfio e i Satanelli in collaborazione con il Foggia Calcio, Elfio e il castello di Bardi con la partecipazione straordinaria di Bruno Pizzul e Carolina Morace, e infine L’industria del male Bulli della rete. A dicembre del 2017 pubblica Parole Rubate un fumetto in collaborazione con RAI Radio 1. Nel 2018 pubblica il suo primo romanzo per adulti: Lady Mafia ed Empatia, un thriller in collaborazione con la radio nazionale m2o e il Samsara Beach.

HotPlay è una Graphic Novel: può definire il genere e le sue peculiarità?

Il romanzo a fumetti ha la peculiarità di raccontare storie auto-conclusive i cui intrecci accompagnano il lettore fino al momento in cui il personaggio principale risolve il proprio dramma o la propria crisi. Insomma, non occorrono altri volumi affinché il lettore abbia una visione esaustiva sui contenuti e il messaggio della graphic novel. Naturalmente, per HotPlay, così come accaduto alle più fortunate opere dello stesso genere, auspico possa esserci un sequel. O più di uno.

Amore, abbandono, dolore, gelosia, sangue: una girandola di sentimenti; i temi che tange paiono essere attinti dal patrimonio tragico greco. Quanto è stato influenzato dalle letterature che l’hanno preceduta? Ha dei mentori o non ravvede punti di riferimento?

In effetti era proprio ciò che volevo fare con questa Graphic Novel: sfiorare i temi cari alla tragedia greca e svilupparli in una semplice struttura in tre atti. Quando scrivo, siano essi fumetti, graphic novel o romanzi, sono solito sperimentare e infrangere la maggior parte delle regole narrative, ma questa volta ho voluto creare qualcosa che al contrario queste “regole” le rispettasse tutte. È infatti nella semplicità che va ricercato il vero punto di forza di HotPlay. La narrazione procede a un ritmo incalzante, l’azione ora sopravanza i sentimenti, e un attimo dopo gli cede il passo. Il bene e il male si confondono, e a un certo punto non si sa più dove inizi uno, e finisca l’altro.

Giada salva l’uomo che ama, Peter, allontanandosi da lui ma le loro strade sono deputate a convenire nuovamente. Quale ruolo gioca il destino, la sorte nella globalità della sua produzione?

Il destino ha un ruolo cruciale nella mia produzione artistica. I miei personaggi però sono in perenne lotta con esso. Il loro è infatti un cammino dell’eroe che spesso avviene nell’ombra, dato che cerco di creare personalità piuttosto complesse, che appassionino anche e soprattutto per la spiccata introspezione che li caratterizza.

Lei indaga l’atavico binomio vita-morte, sovvertendone la finitezza; anzi, dalla morte rifiorisce la vita in un percorso quasi esoterico e salvifico. Sembrano tornare alla luce millenarie ritualità misteriche. Il Sud in cui è ambientata la novel ha emanato echi d’antiche civiltà?

Brindisi è senza dubbio una città che ben si presta per creare ambientazioni mistiche e capaci di rievocare i fasti delle antiche civiltà che ne ha segnato la storia. Il forte legame che ho con il Salento e la mia Puglia più in generale è poi confermato dalla massiccia presenza di questo territorio in quasi tutte le mie opere: da HotPlay per l’appunto, a Parole Rubate piuttosto che Lady Mafia, solo per citarne qualcuna.

In HotPlay dalla morte rifiorisce una vita che se pur tormentata dal dolore e condizionata dalla condanna a uccidere per la sopravvivenza, è pur sempre vita. Significa esserci. Ed è meglio rimanere in una qualsiasi forma, anche quella di un vampiro, piuttosto che sparire nel nulla.

Tutti vorremmo vivere in eterno. E ai vampiri è data questa possibilità. Che questi siano poi alleati del male, non sembra rappresentare un problema, visti i consensi che nell’immaginario collettivo riscuotono.

Lei è poliedrico e tentacolare nell’esternazione dei suoi interessi artistici: musica, scrittura, produzioni televisive, radio e tanto altro d’affascinante e sontuosamente leonardesco: quanto crede nel sincretismo culturale, nella contaminazione di mondi apparentemente da intendersi come monadi?

Seguo le mie passioni da quando ho memoria. Non posso vivere senza. Fortunatamente l’arte travalica ogni confine e non la si può circoscrivere in nessuno stereotipo. Ecco perché miscelarla in ogni sua forma è quanto di più avvincente mi sia mai capitato. Il progetto “HotPlay” con Les Flaneurs Edizioni è sotto questo punto di vista un progetto a 360 gradi. A settembre infatti uscirà un brano musicale ispirato al fumetto intorno al quale creeremo un video musicale che sarà poi a tutti gli effetti il suo book trailer!

Giuseppina Capone

In viaggio con Aristotele

Emanuele Apostolidis “Apos” è scrittore, sceneggiatore ed attore, con spettacoli da lui stesso scritti. Ha un curriculum nutrito di scritti, fumetti e poesie a partire dal 2008: “Un toro per Dandolo” per SF Edizioni e un volume di storie brevi curato da Fabio Mori; partecipa con successo al concorso per sceneggiatori con la pubblicazione “Medusa” sulla rivista “Fumo di china”. Nel 2009 collabora con la Regione Veneto al progetto a fumetti “Demotopia” e con diverse aziende ed associazioni per fumetti pubblicitari. Realizza come sceneggiatore alcune storie sulla città di Schio. Nel 2015 progetta e scrive il fumetto “De Gustibus”, disegnato da Francesco Frosi, che presenzia all’EXPO di Milano in rappresentanza dell’azienda giapponese Shimadzu. In teatro porta spettacoli da lui stesso scritti e recitati come “L’amore ai tempi del cellulare”, “Se fossi figo”, “A cena coi pirati”, “L’insostenibile leggerezza di essere un precario” e “Indovina chi viene a cena”. Nel 2016 sette sue poesie vengono pubblicate su un’antologia di poeti contemporanei dal titolo “Navigare” edito da Pagine SRL. Nel 2017 pubblica per Becco Giallo la sua Graphic Novel “7 Giorni in Grecia” e nel 2020 “In Viaggio con Aristotele”.

Aristotele e Kazantzakis la accompagnano in un viaggio di scoperta affascinante e di un percorso acquisitivo ammaliante. Perché li ha scelti come guide d’eccellenza?

Il graphic novel ha due tematiche principali: la Grecia e la paternità.

Al protagonista, in attesa di un figlio, date le sue origini greche, viene chiesto di organizzare una gita scolastica ad Atene che lo porta ad interrogarsi su cosa sia meglio trasmettere ai suoi studenti, se la Grecia antica dei miti, della filosofia o la Grecia moderna del Rebetiko, di Kavafis, Kazantzakis. Ogni volta che il protagonista prova ad organizzare la gita si addormenta e in sogno riceve la visita di Aristotele e Kazantzakis, che gli raccontano dei fatti o aneddoti storici legati alla Grecia antica (in bicromia ocra e nero) e alla Grecia moderna (in bicromia azzurro e nero), ma soprattutto legati anche al tema della paternità e delle radici.

Quindi Aristotele e Kazantzakis diventano il simbolo e i portatori di tradizioni, aneddoti e curiosità uno della Grecia classica che tutti conoscono e l’altro di una Grecia semi-sconosciuta che nell’arco del Novecento ha dovuto sopportare guerre civili e dittature ma che ha però portato alla ribalta personaggi del calibro di Ritsos, Mercouri e Angelopoulos.

L’obiettivo del volume è raccontare le fragilità e le paure di un giovane padre, ma anche i ricordi che lo legano indissolubilmente alle sue radici, in questo caso greche, siano esse più vicine o lontane temporalmente. Attraverso i racconti di Aristotele e Kazantzakis ripercorriamo la vita del protagonista, dei suoi genitori, dei suoi nonni e allo stesso tempo scopriamo una Grecia diversa e capiamo un po’ di più della mentalità e delle usanze dei suoi abitanti. Il tutto raccontato con ironia e leggerezza, anche grazie allo splendido stile di disegno di Elisa Tadiello.

Guerra di liberazione, combattuta con orgoglio, e reazione ad una devastante crisi economica. Ravvede un medesimo moto d’animo, squisitamente greco, che cavalca i decenni?

Non solo nei decenni, ma la mentalità greca ha attraversato i secoli. Gli antichi greci definivano il tempo in diversi modi: due principali erano il tempo quantitativo (Kronos) e il tempo qualitativo (Keiros). Questo ancora oggi lo si ritrova nella Grecia di oggi e nella mentalità dei suoi abitanti. Come si ritrova ancora oggi quell’orgoglio nazionale positivo che unisce gli abitanti nei momenti di maggior difficoltà.

Omero e Kavafis: Grecia antica e Grecia moderna. Può instaurare qualche relazione e qualche confronto?

La Grecia antica e moderna hanno molte analogie ma anche molte differenze. Una fra tutte la notorietà. Personaggi come Kazantzakis, Ritsos e Angelopoulos sono sconosciuti o quasi ma sono tra i personaggi più grandi che ci siano stati nel novecento, non solo greco. Mentre personaggi come Aristotele, Ulisse o Platone sono conosciuti da tutti persino dai bambini. Con questo libro voglio sperare che qualche lettore vada a leggere Ritsos o Kazantzakis e se ne innamori come è successo a me.

I suoi libri intrecciano linguaggi differenti come fumetto, appunti di viaggio, aneddoti personali e familiari, nozioni storiche. Qual è l’apporto che ha avuto in questo ultimo testo l’imminente nascita di sua figlia?

I linguaggi differenti aiutano a filtrare messaggi diversi e dare l’opportunità al libro di avere più chiavi di lettura. I diari di padre sono racconti introspettivi a fine di ogni capitolo che mi consentono maggior profondità di pensiero, mentre il fumetto mi consente una narrazione più leggera adatta a diverse fasce d’età. Mia figlia è stato il pretesto per raccontare le ansie di un giovane padre, ma anche la gita scolastica realmente avvenuta è stata molto importante perché mi ha messo davanti al problema di come trasmettere la grecità agli studenti e di conseguenza anche a mia figlia.

Può indicarci un particolare della sua Grecia, un elemento per lei inconfondibile?

Sicuramente la filotimia, ovvero la capacità dei greci di essere ospitali e generosi senza secondi fini e poi quella straordinaria capacità di affrontare tutto con sorriso e leggerezza.

 

Giuseppina Capone

Manuela Diliberto: L’oscura allegrezza

Manuela Diliberto è nata a Palermo e vive a Parigi dove si è occupata di archeologia e storia dell’arte antica fino alla pubblicazione del suo primo romanzo, “L’oscura allegrezza” (La Lepre edizioni, 2017). Lavora attualmente ad un libro di interviste e ritratti fotografici a personaggi che hanno fatto scelte difficili e ad un nuovo romanzo ambientato a Parigi durante gli attentati terroristici del 2015.

I rapporti dell’Europa con l’Islam, il dialogo interreligioso, la questione femminile e l’impatto degli stereotipi di genere sulla società occidentale, sono fra i principali temi della sua inchiesta che è, in primo luogo, esistenziale.

Il suo romanzo ha una costruzione “a specchio”. Quanto diverge dal genere codificato dalla tradizione e qual è la tecnica che ha adottato?

Ma penso che in fin dei conti diverga ben poco. Assieme alla narrazione intimista in prima persona, il cambio narrativo di prospettiva mi pare sia un tratto caratteristico della letteratura degli anni 90-2000. Non so perché mi viene subito in mente George R. R. Martin con A Song of Ice and Fire in cui la storia viene raccontata dai singoli protagonisti in capitoli che portano ognuno il nome di uno di loro. In quel caso, più che di costruzione a specchio si può parlare di costruzione a specchio frantumato. Ma gli esempi sono numerosi e non solo in letteratura: uno per tutti nel cinema è Pulp Fiction, del 1994, che rappresenta il racconto cinematografico scomposto per eccellenza.

Alla fine dell’800 i valori della società borghese hanno cominciato a svuotarsi di significato, di cifre positive, limitandosi ad esprimere i termini della crisi di una società. Nei primi decenni del ‘900 scrittori come Svevo e Pirandello o Kafka e Joyce hanno introdotto il conflitto interiore nel tessuto del romanzo. La lotta ha smesso di essere dell’individuo contro la società e ha cominciato ad essere dell’individuo contro se stesso, dando il via ad una società della crisi. Tutti imbrigliati in questa crisi interiore, molti scrittori della fine del ‘900 hanno frantumato, scomposto, sminuzzato i termini di tale conflitto inserendolo in una compagine di punti di vista individuali. Questo infittirsi dell’introspezione messa alla prova dal confronto con quella altrui e al tempo stesso con lo sguardo inevitabilmente critico del lettore (o dello spettatore), personalmente mi esalta. Dopo aver dato voce ad entrambi perché riportassero ognuno a modo proprio gli stessi fatti, mi ha entusiasmato sapere quali lettori abbiano simpatizzato con Giorgio e quali con Bianca.

A Game of Thrones, il primo tomo di A Song of Ice and Fire, è uscito nel 1996, il periodo in cui ho cominciato a formulare la struttura de L’Oscura allegezza. Nel bene o nel male siamo tutti figli del nostro tempo…

L’oscura allegrezza: quali sono le ragioni insite nella vicenda narrata sottese a tale ossimoro?

L’oscura allegrezza non era il titolo che avevo scelto io. Dovendo sceglierne un altro, in effetti, l’ossimoro mi era parso d’obbligo. E’ una delle mie figure retoriche preferite perché valorizza le infinite sfumature della realtà che se tale, è plurima. Il contrasto dell’ossimoro nel titolo esprime di certo quello legato al momento storico, vera e propria cesura a cavallo fra due epoche, ma soprattutto quello esistenziale del protagonista in conflitto con se stesso e in contrapposizione insanabile e dolorosa con la protagonista. E poi, siamo onesti, può esistere mai un’allegrezza che non sia passata prima attraverso l’oscurità?

I capitoli del testo sono intitolati in lingua latina e lingua francese. Quanto siffatta scelta è ascrivibile alla sua evoluzione esistenziale?

Moltissimo. Direi che la esprime interamente. C’è anche il tedesco fra i titoli. Il mio punto di partenza linguistico è il latino. Ho imparato la grammatica latina prima di quella italiana. Dalla scuola all’università questa lingua ha rappresentato la mia quotidianità per anni ed è stata una specie di chiave di lettura della realtà nei momenti oscuri. Catullo, Seneca e Severino Boezio mi hanno spesso stretto la mano, preservandomi. Il tedesco, l’inglese (che è anche presente nel libro) e il francese, rappresentano momenti della mia vita le cui fasi costituiscono ciò che sono oggi. Ho trascorso la mia giovinezza fra l’Italia e l’Austria, lavorato per poco meno di un anno a Londra e da tredici anni vivo qui in Francia, a Parigi. Che l’evoluzione esistenziale finisca per essere condizionata anche da quella geografica è inevitabile. A volte io stessa, nel definirmi “italiana”, non so neanche più cosa ciò voglia dire. Nel confronto con gli scrittori che vivono in Italia, mi sento a volte persa ed emarginata. Li invidio un po’ perché sono in maniera più definita. Io non sono francese, visto che non scrivo in francese, ma pur scrivendo in italiano non sono più neanche quello, visto che ormai l’Italia la conosco da lontano. Eppure ognuno sceglie in base alle proprie curiosità. Io non sono riuscita mai ad identificarmi interamente con l’Italia. La mia famiglia paterna è di origine danese. Ho sempre sentito sin da piccola un richiamo forte verso altri luoghi più lontani. Esistenzialmente non ho fatto che seguire quel richiamo.

Il libro fotografa l’epoca di transizione prima della prima guerra mondiale, prima della dichiarazione di guerra alla Turchia, prima dei grandi cambiamenti europei. In che misura quella congerie storica è paragonabile ai tempi dei social media?

Secondo me nessun periodo storico è paragonabile a quello che viviamo. Il peso dell’immagine sulla parola scritta, l’impatto dei social sulle nostre abitudini, sul modo di vedere perfino noi stessi che se non esponiamo non esistiamo, non ha assolutamente alcun precedente. Per qualche verso ricorda la corte di Luigi XIV a Versailles, un luogo in cui l’apparenza determinava un individuo e non si viveva che per la messa in mostra. Eppure rimaneva un’abitudine circoscritta ad un’élite. Oggi la maggior parte della gente se non si fa un selfie con il piatto di pasta, ha come la sensazione di non aver mangiato! La cosa positiva è che questa spirale mediatica comincia a generare anticorpi. Conosco sempre più persone che della dittatura dello smartphone non ne possono già più. Chissà, forse un giorno ce ne stancheranno tutti. A cominciare dai bambini.

Attualmente lei lavora ad un progetto letterario sul rapporto della società occidentale con l’Islam. Quali sono i cardini su cui tale proponimento si fonda?

In questo momento lavoro ad un romanzo che si svolge a Parigi che parla molto della solidità dell’amicizia fra donne e anche del rapporto della società francese con quella che è diventata la seconda religione in Francia, l’Islam. Nonostante l’islamizzazione dei movimenti terroristici favoriti e incoraggiati da istanze mosse più dalla politica che dalla religione, con i tragici fatti che ne sono seguiti, la maggior parte dei musulmani di Francia vive da decenni in pace e nel rispetto delle leggi come gli altri, atei, cattolici, protestanti o ebrei che siano. Io stessa faccio parte da ormai tre anni di un gruppo di dialogo interreligioso, un’esperienza unica. I miei vicini di casa sono musulmani, come moltissimi genitori e maestre della scuola dei miei figli. Tutta gente tranquillissima e normale. Vorrei parlare di questo Islam qui. Quello che non interessa ai media.

Giuseppina Capone

 

 

La lanterna nera

Alberto Frappa Raunceroy è laureato in Storia del Diritto Romano alla Cattolica di Milano. È autore de La condanna dei Tre Capitoli (Il Segno, 2007), Il serenissimo borghese, ispirato alla tragica caduta di Venezia così come vissuta dalla famiglia dell’ultimo doge, Lodovico Manin. Il romanzo, pubblicato nel 2012 dall’editore Il Segno e ripubblicato nel 2014 da Solfanelli e nel 2018 da Arkadia Editore, è stato inserito nell’antologia del Premio nazionale “Albero Andronico 2012” di Roma e, nello stesso anno, si è classificato secondo nella sezione Narrativa al Premio Nazionale “Mario Soldati” di Torino. Con Il parruccaio di Maria Antonietta (Arkadia Editore 2016), secondo classificato al Premio Letterario nazionale Palmastoria 2018, l’autore porta il lettore in un terreno intriso di contraddizioni e ricerca della bellezza, grazie alla potente figura dell’enigmatico Salamandre. La lanterna nera è il suo nuovo romanzo.

Cos’è la “lanterna nera” e quali furono i suoi effetti?

La lanterna nera è un adattamento letterario della “lanterna magica”, un dispositivo conosciuto fin dall’antichità che permetteva la proiezione di immagini statiche su pareti o schermi. Nel Rinascimento esso iniziò ad essere perfezionato attraverso l’utilizzo di lenti e specchi. Nel romanzo, la lanterna diviene allegoria e metafora della conoscenza e della scoperta, ma anche proiezione delle nostre paure di inoltrarci in mondi ignoti. E’ questo il motivo per cui Elke, la protagonista del romanzo spaventa e lascia allibiti subendo per questo un processo per stregoneria: ella – giovane e donna – diviene una pietra di scandalo che deve essere eliminata.

Un romanzo storico è un’opera narrativa ambientata nel passato, con un’accurata ricostruzione dell’epoca attraverso atmosfere, costumi, usanze, condizioni sociali e mentalità dei personaggi principali. In questo modo, esso trasmette lo spirito di un periodo storico attraverso dettagli realistici, intrecciando le vicende narrative con eventi realmente accaduti e documentati. Lei narra dell’Europa dei primi anni del 1600 tra Ginevra e Praga. Ebbene, quanto il suo romanzo trasgredisce siffatto tentativo di definizione, abbattendo i confini del genere?

Be’ … diciamo che non c’è una vera e propria “trasgressione” o diversione rispetto ai canoni che lei ha correttamente messo in evidenza. I miei romanzi rientrano agevolmente nella cornice del romanzo storico classico perché intelaiatura, sfondo e “scenografie” dell’epoca sono da me rispettati fino alla maniacalità: pensi che nel “Parruccaio di Maria Antonietta” (mio romanzo del 2016) facevo spostare i personaggi servendomi di documenti con i nomi originari delle vie e delle piazze come riscontravo in una mappa di Parigi del 1750.

Parlerei piuttosto di un adattamento alla sensibilità contemporanea dal momento che utilizzo una più approfondita analisi delle personalità. Quando sir Walter Scott o Manzoni diedero vita al genere non esisteva ancora la psicanalisi o il concetto di “nevrosi” pur essendo lo scavo psicologico dei personaggi notevole. Scrivendo oggi, è necessario tenere conto di tutto questo e unirlo alla trama. Tra i primi a dare vita a questa unione sono stati Marguerite Yourcenar, Maria Bellonci e Robert Graves mentre negli anni a noi più vicini vi sono riusciti perfettamente Tracy Chevalier con La ragazza con l’orecchino di perla e Patrick Suskind con Il Profumo. Detto questo ritengo che nel romanzo storico gli eventi debbano rispettare le fonti e lo stesso vale per i personaggi documentati. Ritengo che anche forzare la cronologia degli eventi implichi uno scardinamento dell’opera da “romanzo storico” a “fantasy”. So che è un sacrificio di studio e documentazione a volte molto duro, ma credo che solo così si preservi lo scenario in cui si ambienta una vicenda. Ecco quello che si può creare dal nulla invece sono i personaggi secondari, quelli non documentati e i dialoghi.

“A cosa erano servite la mia vita, i miei sforzi, a cosa erano servite le sofferenze inumane di Elke se tutto quello che la sua mente aveva prodotto era andato perduto a causa della paura, del terrore umano che un’intelligenza alberghi in un corpo deforme piuttosto che in uno sano o in un corpo femminile piuttosto che maschile?”

Donna e corpo poco attraente: una “piccola strega sapiente” deforme. Quale visione della società intende proiettare rispetto alle ampie questioni di genere oggi dibattute?

Per noi contemporanei non solo non è immaginabile ma nemmeno concepibile l’ordine (sociale, filosofico e religioso) che governava l’Europa fino a qualche decennio fa e troppo spesso dimentichiamo che l’eguaglianza di cui godiamo oggi non è stata concessa da nessuno ma è il frutto di secoli e secoli di sofferenze umane non quantificabili e che oggi rischiano di essere cancellate con un tratto di penna da tecnocrazie anonime che non rispondono a nessuno del loro operato.

Il romanzo involontariamente richiama ad alcuni punti che sono trattati da Margeurite Yourcenar nello straordinario romanzo L’Opera al Nero. Nel libro di Yourcenar, il protagonista, Zenone, è un medico alchimista con pulsioni omosessuali, e il solo fatto di esistere e operare con libertà intellettuale lo espone alla censura e alla condanna dei suoi contemporanei. Ne La lanterna nera la protagonista è una giovane donna che fa ricerca scientifica senza appartenere ad alcuna accademia. Questa libertà sarà la causa di tutti i suoi problemi.

L’innocenza è un tesoro inestimabile che si possiede da bambini, si dilapida da adulti e si rimpiange da vecchi” Le dinamiche interpersonali della narrazione narrano di diffidenza, sospetto, paura. Si può giungere innocenti alla morte, scevri di malizia ed egoismo?

L’innocenza è uno stato di grazia che nell’umanità può serenamente riferirsi solo ad un bambino. Per il resto degli uomini esso può essere vissuto solo come sentimento nostagico, Milton avrebbe detto “Paradise lost”.

Non esiste alcun bene materiale o immateriale in questa vita che possa donare lo stato di gioiosa pace di cui l’innocenza è unica fonte. Certo, esistono uomini che muoiono per ideali belli e alti, che si sacrificano per costruire mondi migliori o attraverso filosofie o ideologie si illudono di riprogrammare l’uomo per riportarlo all’uguaglianza o alla giustizia. Ma mi chiedo: in quale epoca della Storia è esistito tangibilmente uno stato di pace, giustizia e verità assoluta a cui dovremmo fare riferimento? Vorrei io stesso saperlo.

Chi si occupa di storia sa che ogni epoca ha vissuto tragedie inimmaginabili. E le grandi menti di ogni tempo hanno nutrito l’illusione di trovare soluzioni al male senza riuscirci. Oggi non abbiamo più filosofi, strateghi o pensatori ma tecnocrati che ergono a soluzione di ogni male gli algoritmi, la “scienza”e l’informatica: cioè dei circuiti elettronici che si attivano in base a matematica ed elettricità. L’uomo viene letteralmente messo da parte e considerato “obsoleto”. Si può essere sconsiderati? No: mai nessun essere umano è riuscito a riportare l’uomo allo stato di edenica pace riferito, ad esempio, dal libro della Genesi. Meno che mai ci riusciranno i “titani”della nostra epoca che pensano di rubare il fuoco agli dei. In questo gli antichi Greci erano più avanti di noi perchè avevano capito tutto.

In epigrafe si legge una citazione di Blaise Pascal “La natura possiede delle perfezioni per mostrare che essa è l’immagine di Dio, e dei difetti, per mostrare che ne è solo l’immagine”. Può motivare la scelta di tale riferimento?

Blaise Pascal è stata una delle più grandi menti che l’umanità abbia visto vivere e pensare su questa terra. Pur essendo un matematico e avendo dato vita a meccanismi complessissimi come gli antenati dei calcolatori, era un uomo che viveva una perenne pulsione verso l’Assoluto, verso Dio. Non avrei potuto trovare un riferimento più adatto per il mio romanzo dove la piccola protagonista, Elke, vive anch’essa una tensione alla ricerca della verità che la porta a indagare verso i misteri ultimi. Ecco: l’ultimo dei misteri, quello che non troverà mai soluzione ( e tantomeno con la scienza) è Dio. Per esso l’uomo dovrà rassegnarsi ad altri mezzi dopo aver sbattuto la testa contro il muro della storia e della propria superbia.

Giuseppina Capone

Rudy Salvagnini: Dizionario dei film horror

 

Rudy Salvagnini è uno sceneggiatore di fumetti. Ha scritto centinaia di storie per TopolinoIl GiornalinoIl Messaggero dei RagazziLancioStory e molte altre testate. In campo letterario, sono suoi il romanzo di fantascienza Il vortice dei ricordi (Alcheringa, 2017) e la raccolta di racconti horror Nel buio (Weird Book, 2020). Critico cinematografico, collabora a Segnocinema e a MYmovies. Ha scritto Hal Ashby (Il Castoro Cinema, 1992), Il cinema di Bob Dylan (Le Mani, 2009) e Il cinema dell’eccesso vol. 1 e 2 (Crac, 2015 e 2016). Ha scritto anche e soprattutto il Dizionario dei film horror (Corte del Fontego, 2007 e 2011), di cui è appena uscita la terza edizione (Bloodbuster, 2020). Ne parliamo con l’autore.

Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto. Da dove spunta il suo interesse per l’horror?

Quando mi interrogo sulla questione, credo di percepire che ciò che mi ha da subito attirato verso questo genere è l’aspirazione al soprannaturale, che non è un elemento essenziale dell’horror, ma è molto frequente in esso. In un piccolo e modesto film spagnolo, Errementari, a un certo punto un pavido e insicuro sacerdote si trova di fronte a una micidiale creatura demoniaca e, in modo solo apparentemente incongruo, la ringrazia perché con la sua presenza gli ha finalmente dato la certezza che la sua vita non era stata sprecata: se il diavolo esiste, c’è il soprannaturale e anche quello in cui lui, il sacerdote, ha sempre cercato di credere. Quindi, se esiste il Male, è probabile che esista anche il Bene e questo è già qualcosa e l’horror, magari inconsciamente, ce lo rappresenta facendoci nel contempo riflettere sul mistero dell’esistenza. In questo senso è tipica anche la figura dei fantasmi – riflessi di noi stessi, solo più consapevoli – allegoria di qualcosa diverso da noi, ma vicino a noi. Oltre a ciò, che rappresenta il fascino del fantastico, c’è la grande attrattiva che, per me, l’horror ha quale genere metaforico per eccellenza, con la sua capacità di scandagliare la nostra società con una severità e una schiettezza altrove difficili da trovare. L’orrore fa parte della natura umana, l’abisso che ci guarda e che noi guardiamo, la morte che incombe, piacevolezze insomma su cui l’horror ci fa meditare e che a volte invece esorcizza trivializzandole. Alla fine, questo desiderio di spaventare e spaventarsi è sì come un viaggio nel tunnel dell’orrore di un luna park, ma è anche un viaggio dentro noi stessi. E questo mi ha sempre interessato.

L’horror è uno dei generi più fecondi e persistenti della storia del cinema. Qual è il suo linguaggio e come riesce a rispecchiare sempre la contemporaneità?

La forza dell’horror è quella di interpretare sentimenti e paure comuni a tutta l’umanità, sotto ogni latitudine: sa parlare un linguaggio universale compreso dovunque. In ogni parte del mondo c’è una tradizione horror: messicana, spagnola, persino brasiliana. Ci si è accorti solo negli ultimi vent’anni che esiste quella asiatica, ma esiste da un pezzo: capolavori come Jigoku ci ricordano che in Giappone gli horror ci sono da molto. Hong Kong, Indonesia, Filippine, ognuno con i suoi mostri e i suoi vampiri, quelli saltellanti di Hong Kong e i Pontianak, teste volanti con brandelli di intestini, in Malesia. Non esiste un altro genere che si sa coniugare così perfettamente con il comune sentire di ciascun popolo, proprio perché fa riferimento a un folclore radicato e persistente. L’horror non è mai particolarmente di moda perché sostanzialmente lo è sempre.

La storia del cinema dell’orrore di Teo Mora, alcuni volumi di Solfanelli,  Monster Show di David J. Skal; Danilo Arona su Craven, Fabrizio Liberti su Carpenter, Daniela Catelli su Friedkin o Gianni Canova su Cronenberg. Per quale ragione, a suo giudizio, la produzione di critica cinematografica del genere horror in Italia non è nemmeno in lontananza equiparabile a quella rinvenibile in altri paesi?

Oltre a quelli citati ci sono molti altri testi sul cinema dell’orrore in italiano – ne hanno scritti Fabio Zanello, Roberto Curti, Gordiano Lupi, Antonio Tentori, Mario Gerosa, Albiero e Cacciatore, per citare solo alcuni nomi tra i tanti – ma è vero che la produzione, in particolare, anglo-americana è decisamente superiore a livello quantitativo. Se ci pensiamo bene però è anche decisamente superiore la produzione di film horror e le due cose sono molto collegate. Negli USA, gli horror hanno una tradizione produttiva solidissima, continuativa ed enorme in quantità per cui esiste un pubblico maggiore anche per la pubblicistica. Da cosa, insomma, nasce cosa.

Quale criterio ha adottato per operare le sue scelte tassonomiche?

Siamo in un campo, quello della critica cinematografica e della conseguente suddivisione del cinema in generi, che solo in parte può dirsi scientifico, per cui le regole di classificazione si sono per forza di cose basate su criteri insieme oggettivi e personali. Ho cercato di darne conto in qualche misura nella Guida alla consultazione contenuta nel Dizionario, ma la questione è di certo complessa e impregnata di soggettività.

Cos’è mutato nei dieci anni intercorsi dall’ultima versione ad oggi?

Come sempre, il cinema horror ha mostrato vitalità invidiabile, rigenerandosi e reinventandosi. Tra le tendenze principali c’è stata senza dubbio quella del found footage – film apparentemente realizzati con filmati “veri” – che ha prodotto una notevole quantità di film spesso premiati dal successo. Ma, esattamente all’opposto, c’è stata la grande crescita dei film prodotti dalla Blumhouse, raffinate rivisitazioni dei capisaldi dell’horror con poco di nuovo, ma molto stile. E ci sono naturalmente state le singole perle provenienti da ogni parte del mondo come il coreano Train to Busan, il giapponese Zombie contro zombie o l’australiano Babadook. Insomma, la consueta vitalità di un genere che non muore mai, come i mostri che spesso lo popolano.

Giuseppina Capone

Olga Campofreda: Dalla generazione all’individuo

Olga Campofreda è dottore di ricerca in letteratura italiana. Vive a Londra, dove insegna presso l’Istituto di Cultura Italiano e alla UCL. Nel 2019 ha pubblicato A San Francisco con Lawrence Ferlinghetti (Giulio Perrone Editore), con lei abbiamo parlato del suo libro “Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli” edito da Nimesis.

Olga Campofreda, chi è Pier Vittorio Tondelli e quali peculiarità riserva la sua produzione?

Pier Vittorio Tondelli (o PVT, come spesso viene riportato con un’operazione simile alla “brandizzazione”) è stato uno scrittore italiano omosessuale che ha esordito nel 1980 con l’opera-scandalo “Altri libertini”, un romanzo che portava dentro tutta l’esperienza del Settantasette bolognese, ma anche molto altro: oltre la superficie fatta di simboli, atteggiamenti e linguaggi legati a quel periodo storico, questo libro racconta la provincia italiana lontana dai grandi centri, vite marginali ed emarginate, questi “altri” libertini, appunto, che sono poi a mio avviso il tema centrale di tutta la riflessione letteraria di Tondelli fino alla morte per AIDS, avvenuta nel 1991.

Prima ho parlato di “brandizzazione”: come racconto nell’introduzione del mio saggio, la critica si è espressa in modo particolarmente problematico su questo autore nel corso degli anni. Tondelli è stato il primo dei giovani scrittori degli anni Ottanta, un gruppo di autori messi insieme per ragioni di marketing editoriale (tra questi anche Andrea De Carlo, Enrico Palandri, Claudio Piersanti, per un periodo anche Daniele Del Giudice). In questo contesto, Tondelli è ricordato più di tutti per aver parlato di giovani ai giovani, trascinando a lungo su di sé le etichette della ribellione e del giovanilismo. Questo ha contribuito a eclissare altri temi più profondi, come appunto il significato reale delle giovinezze ribelli narrate. Oltre alla “brandizzazione” di questo autore, altra problematica è rappresentata dall’interesse morboso per la sua vita privata, specialmente intorno alla questione dell’omosessualità: cercare risposte biografiche nei suoi romanzi, non ha aiutato certamente a valorizzarne il lavoro letterario in quanto creazione di simboli intorno a un discorso più universale.

Lei ha manifestato l’intento di “liberare l’opera tondelliana dal contesto generazionale e da una fruizione limitata a un interesse documentario.” A quale scenario storico sono riconducibili i personaggi tondelliani e qual è il valore simbolico del mondo di giovani emarginati di cui narra?

Prima ho parlato della Bologna del Settantasette, che esce fuori principalmente dai racconti di “Altri libertini” (1980). Molti critici hanno parlato di Tondelli come di un autore generazionale, ergendolo a rappresentante di una determinata generazione e incasellandolo in un contesto storico, che senza dubbio è fortemente presente nei suoi romanzi. Ma Tondelli è anche e soprattutto gli anni Ottanta italiani, nel corso dei quali ha prodotto l’intera sua opera letteraria. Anni che ha osservato e interpretato attraverso reportage, articoli di giornale, rubriche.

La scrittura tondelliana ha assorbito moltissimo la realtà italiana nella quale l’autore era immerso, ma se ci si limitasse solo a questo Tondelli non sarebbe né più né meno che un attento giornalista, e le sue opere un documento. Ricordo benissimo una domanda – fondamentale – che mi ha fatto lo scrittore Enrico Palandri all’inizio della mia ricerca: che cosa resterà tra tantissimi anni dei romanzi di Pier Vittorio Tondelli? Che cos’è letteratura, al di là degli elementi biografici o generazionali? Provando a rispondere a questi interrogativi, ho capito che la giovinezza, tema ossessivamente riproposto dalla pagina tondelliana, ha in verità una carica simbolica fortissima. Il giovane, in particolare il giovane emarginato, è l’individuo ancora in formazione, ancora libero dal punto di vista identitario e non assoggettato agli incasellamenti della società borghese conservatrice.

In che misura la narrativa di Tondelli diverge dal romanzo di formazione così come codificato dalla tradizione, considerando la presenza da protagonisti di emarginati che rifiutano l’integrazione come prospettiva?

Il romanzo di formazione, così come già fa notare Franco Moretti nei suoi studi sul tema (1999), è un genere letterario prodotto da una società borghese in un determinato periodo storico, fondato su determinati valori che oggi definiremmo conservatori e senza dubbio eteronormativi. Nel corso del novecento il genere è stato usato per descrivere storie di adolescenze e di giovinezze in generale, pur mantenendo la sua natura conservatrice di fondo. Si tratta di un percorso che accompagna il giovane verso l’età adulta, che verrà raggiunta una volta conquistate le sfere del lavoro, di una famiglia (eterosessuale, è chiaro), del riconoscimento in una patria. I personaggi tondelliani sono giovani per i quali non solo questo percorso non funziona, ma viene proprio rifiutato per i valori che rappresenta. La scelta di una giovinezza come status permanente ha un valore politico fondamentale. Raccontare personaggi di questo tipo, nel modo in cui fa Tondelli, è un punto di svolta importante per la letteratura italiana: significa mostrare strade alternative fondate su un sistema di valori nuovo, inclusivo, anti-normativo.

“La rappresentazione della giovinezza coincide nel romanzo d’esordio con quella di un mondo di emarginati che vivono volutamente oltre i confini della società borghese fondata principalmente sul concetto di omologazione e su valori eteronormativi”. Ha pensato ad una fusione dell’ideale romantico con quello della Beat Generation e della “controcultura”?

Esattamente. Parlo di questa fusione di ideali e immaginari nel primo capitolo del saggio, in particolare in relazione ai due inediti Jungen Werther/Esecuzioni e Appunti per un intervento teatrale sulla condizione giovanile. Questi inediti, databili alla fine degli anni Settanta e quindi precedenti all’esordio di Tondelli, già raccolgono in nuce i nuclei principali del discorso letterario tondelliano. Il primo inedito presenta cinque eroi che scelgono il suicidio come affermazione della propria diversità contro un mondo, quello borghese, che li vuole integrare solo a patto di sottostare a determinati parametri. Nel secondo inedito il rifiuto del “mondo degli integrati” è invece interpretato attraverso l’allontanamento, il viaggio come strumento di formazione alternativa a quella imposta dalla società conformata. I libertini dell’esordio nascono da questo innesto: il romanticismo abbandona il suicidio come unica opzione di resistenza possibile, sfumando nell’epica della Beat Generation.

“La giovinezza è l’immaginario della dissidenza, della difesa delle voci diverse, è l’anti-kitsch-piccolo-borghese, è il linguaggio dell’individuo che si allontana dalla massa. L’opera di Tondelli si sviluppa lungo un percorso che passa dall’impegno collettivo a quello del singolo, dalla generazione del Movimento del ’77 alle voci individuali degli anni Ottanta. Questa esperienza si sviluppa parallelamente a un sistema teorico ben ponderato che nasce dall’esigenza di offrire un’alternativa ai giovani Werther e ai giovani Ortis ai quali solo il suicidio si proponeva come valida azione sovversiva in difesa dell’identità”.

Come ci si salva dal conformismo, dal convenzionalismo, dall’asfissiante rispetto dei codici?

Il linguaggio è la forma che diamo alla realtà. Le parole che scegliamo e poi usiamo, più o meno consapevolmente, sono sempre portatrici del nostro punto di vista sul mondo. Si caricano di un certo sistema di valori. La consapevolezza nell’uso della lingua è certamente un passo importante verso la liberazione dal conformismo, quello che Tondelli chiamava “letterarietà” non certo pensando alla letteratura, ma all’insegnamento della lingua che avviene presso l’istituzione scolastica. Questo è un punto decisivo nell’impegno di Tondelli ed è anche l’aspetto che più lo avvicina a Pasolini: il linguaggio burocratizzato della politica, quello della pubblicità, quello della società di massa allontana le parole dal dettaglio e dall’autenticità. L’invito è quello a ricercare una lingua che sia quanto più possibile autentica, sia essa esuberante come il linguaggio dei libertini o minimale e scarna come in Camere separate.

Giuseppina Capone

 

 

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