Pietro Lorenzetti: celebre artista del 1300

Pietro Lorenzetti è stato un pittore italiano del Trecento. Fratello maggiore di Ambrogio Lorenzetti (anch’egli artista di quel tempo) Pietro nasce a Siena nel 1290 circa (dati calcolabili in maniera approssimativa poiché non è certo il giorno della sua nascita e della sua morte).

La sua formazione si svolse sotto Duccio di Buoninsegna. Al pari di Giotto e di Simone Martini, il giovane artista senese lavorò ad Assisi nella basilica di San Francesco. Ma è il trittico ad affresco del 1300 (raffigurante la Madonna col bambino fra i santi Francesco  Giovanni Battista per la cappella Orsini della Chiesa inferiore assisiate)  l’opera di Pietro considerata ancora tutt’oggi la più celebre. In seguito, Lorenzetti lavorò al meraviglioso ciclo di affreschi,  le Storie della Passione, affrescate col braccio sinistro del transetto della stessa chiesa inferiore di Assisi. In questa opera, Lorenzetti, rivela subito l’autorità delle componenti culturali che animano la sua opera; sullo sfondo dell’impronta duccesca, negli affreschi si compongono e si saldano le più moderne sollecitazioni stilistiche. Da un lato, invece, la vitalità, la tensione del dettato Gotico. Dall’altro ancora, fu per l’artista, l’incontro con il grande modello giottesco. Fu per Pietro un periodo di grande crescita artistica che lo invogliò a recuperare un nuovo valore plastico ai suoi volumi mediante contrasti di chiaroscuro e di colore.

Il progresso artistico

Nel 1320 Lorenzetti era ormai considerato uno degli artisti più illustri del momento, di fatti, da lì a poco iniziarono a commissionargli diversi importanti incarichi: Madonna con bambino e santi (commissionata dal vescovo Tarlati per la pieve di Arezzo); L’annunciazione (dipinta per secondo ordine del polittico) dove la Madonna e il santo sono inseriti in uno spazio saldo architettonicamente costruito. Ancora, Uomo di dolori (1330, tempera e oro su tavola – Altenburg, Lindenau Museum); Trittico della Madonna col Bambino e le sante Maria Maddalena e Caterina d’Alessandria (1330-1340, tempera e olio su tavola, Washington, National Gallery of Art);  Funerali di un santo vescovo (1330-1340, tempera e oro su tavola, Assisi, Museo del Tesoro della Basilica di San Francesco); Santa Margherita (1330-1340, Assisi); Santa Chiara (1330-1340, tempera e oro su tavola, Athens (Georgia) Georgia Museum of Art); Trittico dei Santi Bartolomeo, Cecilia e Giovanni Battista (1332, tempera e oro su tavola, Siena, Pinacoteca nazionale); Storie della vergine (1335, Siena, ospedale di Santa Maria della Scala); Madonna col Bambino (1335, tempera e oro su tavola, Firenze Palazzo Vecchio); Reliquiario con Cristo benedicente in trono e frate francescano (1335, tempera e oro su tavola, New York).

Le  opere di Pietro continuavano a rivelarsi uniche e originali  e tra il 1327 e il 1329 realizzò il suo primo affresco per la propria città : la pala raffigurante la Madonna del Carmine per i carmelitani di Siena, in cui è presente un evidente influenza giottesca. Pietro nutriva  forte stima nei confronti di Giotto e della sua arte, era per lui una leggenda artistica a cui ispirarsi infatti, nel trittico per l’altare di San Savino, (eseguito da Pietro per il duomo tra il 1335 e il 1342) è ben nota una forte influenza di Giotto.

La morte di Pietro Lorenzetti è avvenuta nel  1348 circa a causa della peste.

Alessandra Federico

Cenacolo poetico Napoli è: Donne

Quante donne a questo mondo…

Donne vive, seducenti,

donne sole, maltrattate.

Ogni giorno violentate,

calpestate, dissanguate,

trascurate dal Divino.

Vittime innocenti

immolate sull’altare

dell’ignobile piacere.

Ignare sacerdotesse

di quell’assurdo e folle rito

che si celebra da sempre

nello scena mente umana.

Peppe Silvestri

Francesca Serafini: Tre madri

Francesca Serafini ha pubblicato tra le altre cose Questo è il punto. Istruzioni per l’uso della punteggiaturaDi calcio non si parla Lui, io, noi (con Dori Ghezzi e Giordano Meacci). Scrive da anni sceneggiature per la tv e per il cinema: con Claudio Caligari e Giordano Meacci ha scritto Non essere cattivo, film dell’anno ai Nastri d’argento nel 2016 e candidato italiano agli Oscar nello stesso anno. Sempre con Giordano Meacci ha scritto il biopic Fabrizio De André – Principe libero del 2018. Tre madri è il suo primo romanzo.

 

Segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del giallo. Il suo romanzo in che misura diverge dal genere codificato?

Mi piacerebbe che a questa domanda rispondessero i lettori. Sta a loro stabilire se partendo da questi stessi elementi – indispensabili nel genere – Tre madri riesce poi a crearsi una sua identità specifica. Quello che posso dire io è che per me, proprio di là dal genere, la scrittura letteraria deve avere una cura speciale per la sua veste linguistica. E questo è l’aspetto che più di altri mi ha tolto il sonno in tutti giorni della stesura del romanzo.

Il percorso dei protagonisti si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?

Quello che siamo nel presente, nella vita, è il risultato anche di tutte le esperienze che abbiamo vissuto nel passato. Per questo, per dare credibilità a un personaggio, per me è fondamentale immaginare tutto l’iceberg – riprendendo qui la metafora perfetta di Hemingway (un cui titolo apre il romanzo) – anche quando poi decidiamo di farne emergere solo la punta. È stato così per Lisa Mancini. Per capire che cosa è nel tempo in cui i lettori la incontrano, ho immaginato tutto quello che precede quell’appuntamento. E poi di tanto in tanto ne faccio emergere dei lampi, perché forniscano una chiave d’interpretazione alle sue reazioni rispetto quello che le capita nel presente. Se poi questo la aiuti a tenere a bada i demoni del passato, lo potranno dire i lettori quando sul finale li troveranno tutti schierati al cospetto di Lisa.

La sua scrittura, scorrevole ed incisiva, diretta e fluida, pare rinviare al linguaggio delle serie TV. Quanto risponde ad una sua precisa volontà la contaminazione dei linguaggi?

Nelle intenzioni, a dire il vero, il lavoro sulla parola è propriamente letterario. Dalle serie televisive, in particolare quelle inglesi, riprendo un certo modo di raccontare storie: di dare peso alla coralità dei personaggi, cercando di vedere in ognuno di loro luci e ombre, senza un giudizio da parte del narratore. Anche il genere arriva da lì. Per me serie come Happy Valley o Unforgotten sono esempi una narrazione moderna che mi ha affascinato da spettatrice e ispirato nella scrittura.

Pensando“cronaca nera”, reputa che il bisogno di verità possa sempre costituire un motore potente che spinge all’azione?

Il bisogno di verità è quello che spinge qualunque tipo di narrazione. Cerchiamo verità in tutto quello che leggiamo, per non pensare al fatto che la verità non esiste (neanche quando il fatto di cronaca è accaduto e non è frutto della fantasia di un autore). Se non le infinite verità che risuonano nella percezione di ognuno di noi. La sfida è trovare il modo di farle stare insieme in armonia tra loro.

Una comunità libertaria e anticonformista che trasforma in opere d’arte i materiali di scarto: quanto ha inteso riflettere circa i concetti di ostilità e pregiudizio?

Mi interessava raccontare lo sguardo di diffidenza di un piccolo centro provinciale (inteso in senso assoluto) su chi arriva lì proponendo un altro modo per vivere. Quel tipo di sospetto che c’è sempre con ciò che è diverso da noi. Il paradosso per cui tutto quello che dovrebbe incuriosirci e farci crescere nel confronto invece tende a farci paura. Ho inventato Montezenta e Ca de Falùg per parlare anche di questo. Anche se i due luoghi reali che ne hanno ispirato la costruzione (Santarcangelo di Romagna e Mutonia) invece rappresentato una felice e virtuosa forma di integrazione che niente hanno a che vedere con il mio racconto, e anche per questo mi è sembrato giusto trovare altri nomi.

Giuseppina Capone

 

 

Mario De Caro: Realtà

Mario De Caro è professore di filosofia morale all’Università Roma Tre e regolarmente Visiting professor presso la Tufts University, dove insegna dal 2000. Si occupa di filosofia morale, teoria dell’azione, metafisica e storia della filosofia della prima modernità. Già presidente della Società Italiana di Filosofia Analitica, è literary executor di Hilary Putnam e vicepresidente della Consulta Nazionale di Filosofia. Tra i suoi volumi Azione (il Mulino 2008), Il libero arbitrio (Laterza 20199), Realtà (Bollati Boringhieri 2020) e  (Harvard University Press, in preparazione).

Professore, quando inizia la riflessione sull’idea di realtà e sotto quali spinte?

La riflessione sulla realtà inizia con l’inizio della filosofia. In particolare, la filosofia ionica nasce come indagine sulla natura, alla ricerca della ragione unificante delle cose. Ma anche la ricerca filosofica ateniese sin dalle origini – con i sofisti e Socrate – indaga un altro genere di natura: la natura umana, così come viene declinata nella vita comune della polis. Sia Platone e Aristotele, poi, porteranno avanti le indagini su questi due tipi di natura, talora intrecciandole. Ma è solo con la rivoluzione scientifica che si presenta un problema che è ancora al cuore della filosofia: quello della radicale frattura delle due nature: quella del mondo che appunto chiamiamo “natura” (che include l’essere umano in quanto entità biologica) e quella del mondo umano, in quanto portato della cultura e della vita in comune. Insomma, per riprendere la terminologia della scuola aristotelica, “prima” e “seconda” natura cominciano a fronteggiarsi in modo esplicito con la nascita della scienza moderna che da una parte delegittimava il mondo ordinario postulato a partire dalla percezione, dall’altra assumeva la realtà di entità inosservabili come gli atomi.

In qual misura l’indagine sulla realtà è stata arrestata dalle filosofie legate alla “svolta linguistica”?

Uno dei caratteri principali della svolta linguistica è che ha marginalizzato la metafisica e ciò sia in ambito analitico sia in ambito continentale (in quest’ultimo senso si pensi allo strutturalismo e al poststrutturalismo). L’idea dei fautori di quella svolta, sostanzialmente, è che noi non possiamo mai uscire dai limiti del nostro linguaggio (come direbbe Wittgenstein) e dunque ogni indagine sulla realtà è dipendente da una preliminare e fondante indagine sulla natura del linguaggio e sul modo in cui il mondo è articolato linguisticamente. In questo quadro, la metafisica è pesantemente subordinata alla filosofia del linguaggio: Donald Davidson, per fare solo un esempio, decreta l’esistenza degli eventi a partire da un’analisi prettamente linguistica. In questo modo, però, è facile che si arrivi a forme di antirealismo di vario genere rispetto al mondo esterno: da Dummett (che a lungo ha negato la realtà del passato) a quanti negano la entità inosservabili della scienza (come van Fraassen).

Il “realismo ordinario” privilegia la testimonianza dell’esperienza percettiva a quella della scienza; il “realismo scientifico” reputa che il mondo contenga esclusivamente le cose che le scienze naturali possono rappresentare e spiegare. Esiste un’altra forma di realismo?

Certo. Innanzi tutto ci sono le forme di soprannaturalismo, per cui esistono entità non materiali ossia le sostanze spirituali. Poi ci sono le forme di realismo rispetto alle entità astratte (i numeri, le proposizioni, gli universali). Una cosa fondamentale da notare, però, è che tanto il realismo ordinario quanto il realismo scientifico tendono ad avere una visione unilaterale, monistica, della realtà. Tra questi due estremi, dunque, si collocano varie forme di realismo pluralista, che accettano come reale tanto la visione ordinaria quanto quella scientifica del mondo. Il “naturalismo liberalizzato”, per cui io simpatizzo, appartiene a questa categoria.

I giudizi estetici e morali hanno un preciso statuto rispetto all’indagine circa la realtà?

Se con il termine “preciso” si intende qualcosa su cui i filosofi sono d’accordo tra loro, la risposta a questa domanda è molto netta: assolutamente no. Dobbiamo però aggiungere subito che una delle discussioni portanti della filosofia contemporanea è se le proprietà morali e quelle estetiche siano reali. Cosa significhi, però, il termine “realtà” quando si applica a queste presunte proprietà è cosa molto controversa; e non solo nel senso che molti filosofi che si occupano di questo tema sono antirealisti. Anche lo schieramento realista, infatti, è frastagliato al suo interno. Pensiamo solo all’intenso dibattito metaetico sullo statuto delle proprietà morali: per alcuni realisti (come G.E. Moore), le proprietà morali esistono ma sono per definizione non-naturali; per altri (come molti naturalisti contemporanei) le proprietà morale esistono ma solo nel senso che sono integralmente riducibili alle proprietà studiate dalle scienze della natura. E in mezzo c’è un gran numero di posizioni diversamente articolate.

È concepibile una filosofia integralmente realista?

A mio parere, nessun filosofo degno di questo nome è mai stato del tutto realista o del tutto antirealista. L’arcirealista Meinong, per esempio, non credeva nella realtà del quadrato rotondo o delle assenze. Dall’altra parte, prendiamo Berkeley, antirealista al massimo grado rispetto al mondo esterno, che era super-realista rispetto alla mente (in particolare, la mente divina). Persino i filosofi post-moderni, nel decretare la fine del mito della Realtà, non negano certo che esistano oggetti concreti di cui si può dire che sono reali. Tutti i filosofi seri che si sono occupati della realtà, insomma, si sono sempre collocati nell’intervallo tra un ipotetico realismo integrale e un altrettanto ipotetico antirealismo integrale. Tutte le proposte serie di soluzione del problema del realismo, pertanto, sono in effetti questione di grado: il vero problema, è di determinare quale sia la giusta dose di realismo da adottare nei vari casi. Bisogna cioè stabilire quali sono, nei vari ambiti, le entità reali: i numeri? Gli universali? Le entità collettive? Gli atomi? Gli universi paralleli? I colori? I qualia? Le essenze? Le malattie psichiche?

Giuseppina Capone

Simone Martini: il celebre artista del 1300

Simone Martini è stato un pittore e miniatore italiano. Uno dei più influenti artisti del Trecento. Ingaggiato dal governo della comunità, dopo essere cresciuto nella bottega di Duccio di Buoninsegna, Simone Martini, fece la sua comparsa come primo pittore della città in cui era nato (Siena 1284) per dipingere la Maestà del Palazzo Pubblico di Siena. Da lì a poco venne chiamato dagli Angiò a Napoli (1317) per eseguire l’opera di San Ludovico di Tolosa che incorona il re Roberto. Tornato da Napoli, nel 1321, ridipinse i volti della Vergine, (della Maestà del Palazzo Pubblico di Siena) del bambino, delle due Sante e dei due angeli a loro più vicini, donando all’opera un profondo cambiamento. Ancora, tra il 1315 e il 1320 si trasferì ad Assisi per eseguire gli affreschi delle scene della vita di San Martino, situate nell’omonima cappella della Chiesa inferiore della Basilica di San Francesco, portando anche in questa meravigliosa opera un cambiamento stilistico. Simone, in quel tempo, era l’unico pittore che riusciva a livellare con Giotto; difatti, di fronte alle prove di quest’ultimo, Martini si confronta con i suoi affreschi e li recupera, anche se in un contesto molto diverso e cioè secondo uno stile di fatto cortese ridimensionando i personaggi in una forma più vera e più concreta.

Questo  permise all’artista di aprire la strada a un naturalismo nuovo e personale.
Anche l’importante opera napoletana raffigurante San Ludovico da Tolosa che incorona re Roberto,  (eseguita nel 1317, anno della colonizzazione del santo, e realizzato sempre dal grande artista senese), rappresenta, nella scena,  tutto il carattere di un’investitura: con la corona re Roberto riceve la sua legittimità da Ludovico, che al trono aveva rinunciato per seguire la propria vocazione. Procede la fama per l’audace maestro senese con la realizzazione di grandi opere d’arte come il glorioso Guidoriccio da Fogliano (1330), sempre per il Palazzo Pubblico di Siena. Sembrano incrementarsi i successivi sviluppi della pittura nordeuropea grazie al segno grafico teso nelle altre opere d’affresco di Simone ad Avignone nel 1336 (nel frattempo divenuta nuova sede della corte papale), con le pitture per la chiesa di Notre Dame des Doms eseguite per il cardinale Jacopo Stefaneschi: il dolcissimo affresco che raffigura il redentore e la madonna dell’umiltà. Ancora, nel 1342, Simone raffigura le amatissime scene raffigurate con stile teso e concentrato, delle Storie della Passione con il ritorno di Gesù fanciullo dopo la disputa coi Dottori. Poco tempo dopo ci sarebbe stata la creazione della memorabile annunciazione.

L’annunciazione
L’Annunciazione (dipinta da Simone nel 1333) riprende l’ispirazione cortese e fiabesca per il suo splendore dal fondo oro. Eseguita sempre per il Duomo di Siena, in collaborazione con Lippo Memi, Donato Martini, e Tederico Memmi.  Una meravigliosa opera d’arte dallo sfondo oro pervade lo spazio della rappresentazione con il suo bagliore. Il rilievo, appena accennato, quasi si perde nei contorni. I colori della vergine e dell’angelo sono incantevolmente luminosi e con il pavimento  in marmo dai colori diversi danno un tocco di eleganza e raffinatezza.  È dunque facile perdersi fra sogno e realtà e l’atteggiamento delicato delle figure domina l’intera opera tanto da donargli un effetto tridimensionale e non solo, i bordi ricamati delle vesti e la quadrettatura del manto dell’arcangelo Gabriele, le striature del piumaggio delle ali diventano di contributo per dare quel tocco di preziosità che regala un’atmosfera fiabesca. Da rimanere estasiati dinnanzi a tale capolavoro, principalmente perché l’opera rappresenta quel momento dell’annunciazione in cui l’arcangelo Gabriele giunge dal cielo per salutare la Vergine. Da quel momento in poi, l’artista senese eseguì diverse opere come l’affresco nella chiesa di santa Caterina d’Alessandria a Pisa, oppure il dipinto di San Luca Evangelista (J. Paul Getty Museum Los Angeles- tecnica tempera su tavola). Gli ultimi anni di vita, Simone, decise di trascorrerli ad Avignone dove impiegava il suo tempo a dipingere per sé stesso. L’illustre artista morì ad Avignone nel 1344.

Alessandra Federico

Pret à Porter

Il pret à porter nacque dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ed è proprio con la fine della guerra che si aprì un nuovo capitolo nel modo di vestire dell’intera Europa occidentale.  Tradizioni vecchie di decenni o secoli furono spazzate via per essere rapidamente sostituite con un modo di vivere che aspirava a una più democratica società dei consumi: produzioni artigianali, manifatture e industrie distrutte dalla guerra o antiquate imboccarono la strada della modernità adeguandosi il più possibile ai metodi che l’America aveva messo  a punto nei decenni più recenti completando così il proprio processo d’industrializzazione. Anche la moda risentì di questo clima, portando un sistema di produzione che era stato inventato in Europa più di un secolo prima, ma che aveva avuto il suo vero sviluppo negli Stati Uniti: la confezione industriale.

Gli imprenditori europei iniziarono a visitare le aziende americane. L’industria europea scoprì il vero e proprio sistema moda: ready to wear, progettato da designer che nulla avevano da invidiare ai couturier parigini e articolato in una gamma di offerte ricca e di qualità. A partire dalla fine degli anni quaranta la società europea cominciò ad adottare il modello di consumo che arrivava d’oltreoceano.  Il modo di vestire e di concepire il proprio aspetto esteriore ebbe un grande peso in questa trasformazione, poiché l’adozione di un abbigliamento informale e, almeno teoricamente, alla portata di tutti esprimeva la messa in crisi a livello individuale sia dei tradizionali modelli di comportamento e di bon ton, sia dei rituali di diffusione delle nuove mode. L’obiettivo che si posero gli imprenditori fu quello di creare un prodotto di moda che fosse alternativo all’haute couture, ma soprattutto alla confezione di basso prezzo che si era diffusa negli anni trenta. Era l’emblema, il segno della democratizzazione della moda, della possibilità per tutte le donne di accedere a questo mercato una volta privilegio di una piccola èlite. Dior aveva colto il mutamento di costumi e aveva risposto con una linea di pret à porter di lusso destinata al pubblico statunitense e presto anche ad altri couturier sperimentarono questa via.

Il pret à porter in Italia

In Italia iniziarono Jole Veneziani e Ferdinanda Gattinoni, che sfilarono a Firenze con collezioni boutique degli Anni ‘50, e presto si aggiunsero Maruccelli, Biki, Antonelli, e le Sorelle Fontana. Fu però negli Anni ‘60 che le sartorie diedero vita a vere e proprie linee di pret à porter che cominciarono a sfilare con l’etichetta di alta moda pronta. La conformazione sociale del paese non aveva mai favorito la nascita di una vera industria di confezione, contrastata dalla presenza di una fitta rete di sarti artigiani in grado di rispondere alle richieste di abbigliamento di tutti gli strati della popolazione. Gli unici esempi di aziende che si erano occupate di confezione femminile nel periodo tra le due guerre erano la Merveileuse di Torino e la Fias-Lo Presti Turba di Milano, ma la loro attività aveva una forte impronta sartoriale e serviva un mercato di lusso. Ma nel 1945 le aziende si svilupparono presto con ampi stabilimenti e grandi quantità di manodopera. Nei primi Anni ‘60 il pret à porter aveva completamente conquistato il pubblico. La moda era ormai guidata da giovani stilisti che avevano raggiunto una notorietà pari a quella  dei couturier. Era quindi giunto il momento di ratificare il cambiamento consolidando sia la professione di creatore di moda sia il suo risvolto produttivo.

Alessandra Federico

L’atelier Vionnet

Nel 1912 Madeleine Vionnet aprì il suo primo atelier. Un atelier che raccontava una storia di emancipazione concreta, senza forzature rispetto a una psicologia femminile da secoli abituata al silenzio e alla riservatezza. Un atelier in cui Madeleine era la protagonista di una storia di donne, per valorizzare la cultura, la capacità creativa e la bellezza. Gli abiti che realizzava nel suo atelier erano dritti e scivolavano sul corpo senza la presenza del busto.  Nel 1914 Vionnet chiuse l’atelier, a causa dello scoppio della guerra e decise di partire per l’Italia soggiornando per un lungo periodo  a Roma.

Il taglio in sbieco

Finita la guerra, Vionnet, si presentò a Parigi con una nuova idea: l’abito in sbieco. Madeleine seguiva i cambiamenti affrontandoli da un altro punto di vista anche se si atteneva ugualmente alle nuove tendenze, ma così come Chanel, aveva un’idea sua e ricercava un modello vestimentario su cui elaborare l’abbigliamento della donna moderna: una donna che stava iniziando a scoprire la propria identità. Madeleine lavorava con il tessuto senza tagliarlo secondo le forme del corpo, ma montandolo in maniera tale che potesse prendere autonomamente le fattezze corporee. Realizzando cosi un modello composto di quattro quadrati di tessuto utilizzati in diagonale e sospesi alle spalle con uno spigolo per ciascuno. Quattro cuciture lo tenevano insieme e una cintura annodata in vita, ottenendo una specie di chitone greco con una caduta del tutto nuova che aderiva al corpo senza richiedere l’uso della plissettatura, ma che cadeva naturalmente grazie al peso della stoffa utilizzata in sbieco (il taglio in sbieco prevede l’uso della stoffa in obliquo). Nel 1800 era stato già inventato il taglio in sbieco ma solo per colletti e maniche. Vionnet, invece, diede vita a questo nuovo metodo anche per quanto riguarda l’abito.

L’uso della geometria per i modelli di Vionnet

La chiave segreta dei suoi modelli era la geometria. I suoi abiti, però, non venivano progettati attraverso il disegno, ma lavorando il tessuto su un manichino di legno alto ottanta centimetri su cui costruiva una specie di miniatura del modello finito. Vionnet partiva dal risultato finale che lei sola immaginava e lo svolgeva fino a ottenere il sistema di costruzione. Dopo la guerra, Vionnet, scelse collaboratori che venivano dal mondo dell’arte come Thayaht, un artista americano convinto che le forme geometriche fossero applicabili alla creazione artistica. Nel 1921 iniziarono l’utilizzo del ricamo. Le creazioni di Vionnet non intendevano essere trasposizioni o descrizioni decorative del corpo, ma forme dinamiche ricavate dalle misure e dalle proporzioni armoniche della figura umana. La ricerca sullo sbieco e la geometria si svolse in modo graduale. Nel 1922 Vionnet aprì un nuovo atelier in cui lavoravano circa mille persone. Ma Madeleine non aveva dimenticato la propria esperienza di lavoratrice che aveva dovuto percorrere tutti i gradini della professione di sarta prima di diventare quello che era, decise, dunque, di fare una serie di cambiamenti per agevolare le condizioni dei lavoratori:  in tutte le sartorie si cuciva su uno sgabello ma lei introdusse l’utilizzo delle sedie.  Introdusse, inoltre, i congedi di maternità, le ferie pagate e una cassa di soccorso per le malattie. Ancora, nell’edificio aveva assunto un’infermiera e un dentista e anche fatto costruire una mensa e una nursery. Verso il 1925 i suoi modelli si semplificarono: la linea più squadrata, ma soprattutto gli elementi di decoro si ridussero. Poco dopo su “La Gazette du Bon Ton” si leggeva: “Lei è al di sopra della moda. E non pensate con questo che sia fuori moda, ma piuttosto che annuncia la moda di domani”.

Negli Anni ‘30, nella società occidentale e nella moda, l’adolescenza lasciava il posto a una giovinezza più matura, e il lusso degli Anni ‘20  stava per essere sostituito da quello vistoso delle dive del cinema hollywoodiano. Ecco che, il metodo di Vionnet, diventò di moda: era il sistema più adatto per sottolineare il corpo senza costringerlo in forme precostituiste dal taglio. Vionnet continuava ad inventare nuove tecniche di decorazione: il merletto, velluto su merletto, strass su merletto di crine, sete lisce su velluto, lamé su tulle o mussolina.

La collezione primavera del 1939 fu sontuosa e tutte le clienti più importanti erano presenti e tutte vestite Vionnet. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale fu venduto tutto della maison Vionnet. Nel 1952 la celebre creatrice di moda donò all’Union francaise des arts costume tutto ciò che era rimasto del suo lavoro. Madeleine morì nel 1975 a novantanove anni. Madeleine aveva da sempre lottato per le sue idee e fortunatamente visse una vita ricca di soddisfazioni e soprattutto aveva realizzato i suoi sogni: essere una donna indipendente, autonoma ed essere riuscita a dare la possibilità alla donna di liberarsi dal busto e avere un pensiero personale.

Alessandra Federico

 

 

 

Madeleine Vionnet: la stilista inventrice del taglio in sbieco

Madeleine Vionnet nasce a Aubervillies, (paesino della provincia francese), nel 1876. Non essendo ancora il tempo in cui la carriera scolastica potesse essere presa in considerazione per una donna, nonostante i suoi risultati eccellenti a scuola, il padre decise di farle abbandonare gli studi e farle iniziare il lavoro di sarta. Nel 1893 trovò lavoro nella Maison Vincent a Parigi, dove diventò premiére in breve tempo. Poco dopo Madeleine sposò un giovane uomo di Aubervillies con il quale diede alla luce una bambina, ma all’età di soli due la anni la piccola morì in un tragico incidente e questo portò Madeleine, presa dal forte dolore, a partire per l’Inghilterra dove ricominciò da capo la sua vita a Londra e dove trovò subito lavoro nell’Atelier Kate Reily. Erano gli anni in cui in Inghilterra si stava svolgendo un intenso dibattito culturale che impegnava artisti e medici sul modo di vestire delle donne.

Nel 1890 la Healthy and Artistic Dress Union, che proponeva una riforma di tipo estetico, stava sostituendo la Rational Dress Society, che, dal 1881, aveva sostenuto con fervore la necessità di trasformare l’abbigliamento femminile per motivi igienici. Corpo e abito stavano diventando il centro di un dibattito che stava provocando in tutta Europa una grande trasformazione culturale che presto avrebbe posto le basi della danza moderna e di un nuovo stile di vita, da quando la nuova associazione si schierò a favore di un modello derivato dall’abito dell’antica Grecia e, contemporaneamente, Isadora Duncan iniziava a danzare a piedi nudi. Da lì a poco Vionnet tornò a Parigi per lavorare nella Maison Callot Soeurs come premiére di Madame Marie. Il compito di Madeleine era quello di realizzare i modelli in tela degli abiti che Madame Marie ideava. Nel 1907  Madeleine lasciò la Maison Callot per diventare modellista alla Maison Doucet dove realizzò abiti molto innovativi ispirati alla performance che la Duncan aveva presentato a Parigi l’anno precedente.

“Il corsetto è una cosa ortopedica, io stessa non l’ho mai sopportato e per qual motivo avrei dovuto infliggerli alle altre donne?” Difatti, i corsetti di Madeleine, non prevedevano l’uso del busto, ma richiedevano una trasformazione dell’ideale di bellezza femminile che non aveva ancora oltrepassato i confini delle avanguardie mediche, letterarie o artistiche. Ma purtroppo le nuove idee di Vionnet vennero represse. (segue)

Alessandra Federico

A cura meticolosa e sapiente di Federico Musardo CESARE PAVESE. Non ci capisco niente. Lettere dagli esordi

«Il mio carattere era timido e riserbato: macché, io l’ho saputo sforzare alla vita moderna e tutti i giorni ne imparo di più poiché vivo in mezzo ad essa, sempre teso in me stesso, gioendo della mia personalità che sente, comprende, raccoglie.».

Cosa ha offerto Cesare Pavese al novecento italiano?

È una domanda parecchio difficile che richiederebbe forse una conversazione a voce o un saggio a sé, purtroppo non so dare una risposta soddisfacente. A me Pavese prima di tutto ha ricordato che cosa significa lavorare sodo, credere in quello che si fa, impegnarsi giorno dopo giorno e pensare sempre. Un’etica del sacrificio, insomma, insieme a una dedizione viscerale – la passione da sola non basta, e la vocazione non esiste. Forse la parabola esistenziale di Pavese ci potrebbe insegnare anche questo: prima di votarsi ai libri, suoi e degli altri, da lettore, editore, correttore di bozze, traduttore, narratore e così via, Pavese era un giovane alla ricerca di qualcosa. Sembrerà un rigurgito romantico o peggio decadente, però credo che per Pavese la letteratura sia stata sul serio una ragione di vita. Una formica editoriale, dunque, con quell’intelligenza curiosa e testarda che ha solo chi affronta le ambiguità della vita e non teme la sofferenza. D’altro canto, e basta sfogliare Non ci capisco niente per rendersene conto, quando scrive lettere Pavese ha una creatività spettacolare, intellettuale oltre che linguistica, ironica, a tratti caustica. Sul piano della storia letteraria, come notava già Calvino, non ha avuto grandi epigoni. Calvino scrive su di lui parole speciali. Diciamo che il mito Pavese non ha niente a che fare con Pavese, come ogni mito. Molti scrittori che si sono senz’altro confrontati con la sua eredità, anche fosse e contrario, poi ne hanno preso le distanze – penso soprattutto a Pasolini. Non saprei dire quanto è cambiata la rappresentazione delle traiettorie spaziali, dei paesaggi, dei luoghi della narrativa italiana dopo Pavese. Oppure i dialoghi, le conversazioni dei personaggi. Tra chi ha assimilato la sua lezione, ricorderei almeno Arpino. Forse è curioso sottolineare che all’estero due scrittori molto diversi, Ernaux e Canetti, entrambi con implicazioni autobiografiche, hanno riflettuto su Pavese (e sul gesto del suicidio).

Quale criterio ha adottato per selezionare alcune tra le centinaia di lettere scritte da Cesare Pavese?

L’adolescente che lettera dopo lettera prova a varcare quella soglia che lo separa dalla maturità. All’inizio l’idea era di concentrarsi soltanto sul rapporto tra Pavese e i primi tentativi di scrittura, come peraltro suggerisce il sottotitolo del libro (Lettere dagli esordi), poi grazie a una buona intuizione degli editori abbiamo pensato di proporre più percorsi di lettura, sempre fondati sull’idea di scoperta (umana, esistenziale, letteraria, intellettuale, sentimentale). Spetta al lettore, quindi, scegliere come aprire il pacchetto.

Cesare Pavese e Mario Sturani, Tullio Pinelli, Augusto Monti, Alberto Carocci. Ebbene, quale idea della creazione artistica emerge già?

Immagino che siano stati rapporti unici, con valori condivisi da una parte e scontri dialettici dall’altra. Ma è una mia fantasia. Mi immagino appunto tanti discorsi sugli argomenti più disparati. Monti, di un’altra generazione rispetto a Pavese, era un po’ il perno, e alcuni dei protagonisti di questo pacchetto sono stati parte della confraternita di intellettuali che si riunivano intorno al vecchio professore. Sturani tra le altre cose sarebbe diventato un abile ceramista, Pinelli un uomo di teatro e di cinema, Carocci un libro vivente, un ideatore di riviste. C’è un’eterogeneità sorprendente, e la loro creatività si è espressa attraverso linguaggi, forme, codici anche molto diversi. Queste però sono banalizzazioni di circostanza, forse servirebbe un altro pacchetto per ciascuno di loro – o una piola per parlarne, con un bicchiere di grignolino – Pavese, stando a un necrologio, beveva solo vino bianco – e un piatto di plin al sugo d’arrosto.

Leggendo questa raccolta di lettere s’incontra un uomo esuberante, vitale, autoironico. Da cosa sarà fagocitato successivamente?

Già qualcuno l’abbiamo fatto pubblicando il pacchetto, non facciamo troppi pettegolezzi…

Pavese ed il suo tempo: quale ruolo svolge nel passaggio tra la cultura degli anni Trenta e la nuova cultura democratica del dopoguerra?

Anche questo è un discorso da fare davanti a un piatto di plin. Un ruolo decisivo, comunque: come poeta (anche e non solo grazie a Whitman) e come narratore, supera la cosiddetta prosa d’arte ed elabora un linguaggio tutto suo. Da un punto di vista narratologico sperimenta molto più di quanto non sembri a una prima lettura (sia per la trama che per lo stile). Certe soluzioni oggi ci sembrano naturali, le abbiamo interiorizzate, allora però non lo erano affatto. In questo senso Paesi tuoi, il romanzo d’esordio, merita una cura che stranamente finora non c’è stata granché. Un romanzo bellissimo, necessario, importante, e tutti gli aggettivi assertivi che ti vengono in mente, che quando uscì (1941) scandalizzò molti, non senza alcune terribili stroncature – quelle dei critici fascisti furono grottesche. Niente pettegolezzi sul rapporto tra Pavese e la politica, anche perché bisognerebbe iniziare un discorso sul rapporto tra politica e cultura e sarebbe impossibile. Consiglio quindi Paesi tuoi, simile per certi versi a La malora di Fenoglio (Alba, 1º marzo 1922 – Torino, 18 febbraio 1963), altro grande piemontese. Ci risentiamo tra qualche tempo, che so, nel 2033?

Cesare Pavese studia a Torino dove si laurea con una tesi su Walter Withman. Sin dagli anni Venti legge i maggiori autori americani e inizia a tradurre le loro opere. Fra il 1935 e il 1936, per i suoi rapporti con i militanti del gruppo Giustizia e Libertà viene arrestato, processato e inviato al confino a Brancaleone Calabro. Tornato a Torino inizia a collaborare con la casa editrice Einaudi nel 1934 per la realizzazione della rivista «La Cultura», che dirige a partire dal terzo numero. Nel 1945-46 dirige la sede romana della medesima casa editrice. Dopo la Liberazione, si iscrive al partito Comunista. Seguono anni di lavoro molto intenso, in cui pubblica le sue opere di maggior successo. Viene trovato morto, per una dose eccessiva di sonnifero, il 27 agosto 1950. Tra le sue opere ricordiamo: Paesi tuoiFeria d’agostoIl compagnoDialoghi con LeucòLa casa in collinaLa luna e i falòIl mestiere di vivereLa bella estateTra donne soleVita attraverso le lettere.

Giuseppina Capone

Hong Kong. Racconto di una città sospesa

Hong Kong, città dal preponderante skyline e dal profondo porto naturale, a sud del Tropico del Cancro.

Central District, Western District, Wan Chai i suoi quartieri. Barche ed oceano all’orizzonte. Grattacieli specchiati. Incredibile suggestione, vertiginosa malìa, fascino insinuante.

Gli occhi di Marco Lupis scrutano, privi di filtri convenzionali e banalizzanti, luoghi e personaggi, catturando il magnetismo di una città stato mancata.

Ex colonia britannica passata alla Cina tra contrasti e proteste di piazza; divenuta con palese evidenza multietnica. Lì il tempo cambia, bruscamente, come le stagioni ed venti che la battono. Disuguaglianza economica e dinamismo commerciale internazionale; paradiso fiscale e perturbante indigenza. Metropoli e porto profumato. Industrie ed odorosi fumi d’incenso. Bassa natalità, invecchiamento demografico e moltitudine migrante che bussa alle porte. Bocche cantonesi, dita mandarine ma anche capillarmente suoni inglesi da ponente.

Avidamente curioso, l’autore abita la città sospesa: Cinesi, Filippini, Indonesiani, Thai, Giapponesi e visi occidentali intrecciati; agnosticismo, ateismo, chiese anglicane e cattoliche fuse con templi buddisti.

Alto livello di libertà civili e mano pesante con i manifestanti.

Siamo proprio lì, ne respiriamo l’atmosfera contraddittoria, antitetica, discordante, antinomica; ne gustiamo l’antichità, catapultati nel futuro più avveniristico. Immaginiamo, vestiti di magia.

Ci scopriamo inquieti, turbati, molestati nelle certezze codificate. Siamo su un binario in corsa e con lo sguardo perso in uno spazio verticale.

Piglio da fotoreporter, afflato giornalistico, narrazione da scrittore consentono al lettore di percepirsi emotivamente coinvolto dalle righe pittoriche rapide ed incisive; indiscretamente immischiato in un’analisi lucidissima del rapporto complesso e dubbio con la madrepatria cinese e dello scontro di due visioni dissimili di capitalismo.

Marco Lupis ci trasporta con passione implacabile in un mondo di mezzo, ci traina senza fatica su un crocevia tra mondi e culture differenti, ci incoraggia ad attraversare con vibrante emozione l’immobilismo culturale.

Marco Lupis Macedonio Palermo di Santa Margherita (Roma, 1960), giornalista, fotoreporter e scrittore, è stato il corrispondente de La Repubblica da Hong Kong. Nato a Roma nel 1960, ha lavorato come corrispondente e inviato speciale in tutto il mondo, in particolare in America Latina e in Estremo Oriente, per le maggiori testate giornalistiche italiane (Panorama, Il Tempo, Il Corriere della Sera, L’Espresso e La Repubblica) e per la RAI (Mixer, Format, TG2 e TG3). Lavorando spesso in zona di guerra, è stato fra i pochi giornalisti a seguire i massacri seguiti alla dichiarazione di indipendenza a Timor Est, gli scontri sanguinosi tra cristiani e islamici nelle Molucche, la strage di Bali e l’epidemia di SARS in Cina. Con le sue corrispondenze ha coperto negli ultimi 25 anni l’intera area Asia-Pacifico, spingendosi fino alle isole Hawaii e all’Antartide. Ha intervistato molti protagonisti della politica mondiale e specialmente asiatica, come la premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi e la premier pakistana Benazir Bhutto, denunciando spesso nei suoi articoli le violazioni dei diritti umani. I suoi reportage sono stati pubblicati anche da quotidiani spagnoli, argentini e americani. Oggi scrive sull’Huffington Post. Quando non è in viaggio in Oriente, vive nella Casa di famiglia in Calabria, con Silvia, Caterina, Alessandro, otto gatti, diverse migliaia di libri, alcuni antenati e molti trenini. “I cannibali di Mao” ha vinto l’edizione 2019 del Premio Internazionale di letteratura “Città di Como” come “Miglior libro di giornalismo di viaggio dell’anno” ed è stato finalista all’edizione 2020 del Premio Estense. “Il Male Inutile” è stato finalista all’edizione 2018 del Premio Cerruglio Ha pubblicato: “Interviste del Scolo Breve” (Del Drago, 2017) tradotto in otto lingue; “Il male Inutile” (Rubbettino 2018) tradotto in Spagna: “El Mal Inútil” (Dauro, 2020);”I Cannibali di Mao” (Rubbettino, 2019) e Hong Kong – Racconto di una città sospesa (il Mulino, 2021).

Giuseppina Capone

1 35 36 37 38 39 61
seers cmp badge