Otto marzo: giornata internazionale dei diritti della donna

Ogni 8 marzo, in Italia, a partire da 1922, (America 1909 – altri Paesi 1911) si ricordano le conquiste politiche, economiche e sociali della donna, ma soprattutto le discriminazioni e le violenze che ancora tutt’oggi è costretta a subire.

Nel 1907, durante il congresso della II Internazionale Socialista, in cui vennero trattate anche la questione femminile e la rivendicazione del voto alle donne, si votò  per far sì che i partiti socialisti lottassero per l’introduzione del suffragio universale delle donne, senza però allearsi con le femministe borghesi. Il risultato fu quello di aver ottenuto un ufficio informazione delle donne socialiste in cui Clara Zetkin divenne segretaria e diede vita alla rivista Die Gleichheit (l’uguaglianza) che divenne, da lì a poco, il punto di forza delle donne socialiste. Il 3 maggio del 1908 Corinne Brown organizzò una conferenza che prese il nome di “Woman’s Day”cui parteciparono tutte le donne e in cui si discusse dello sfruttamento della donna nell’ambito lavorativo, delle discriminazioni sessuali e del diritto di voto alle donne. In seguito il partito socialista americano decise di organizzare una manifestazione in favore del diritto di voto femminile dove le delegate socialiste americane proposero, alla seconda conferenza internazionale delle donne socialiste, di istituire una comune giornata dedicata alla rivendicazione dei diritti delle donne.  Alla fine dell’anno cominciò un grande sciopero di ventimila camiciaie.

Secondo alcune tesi, l’8 marzo del 1857, morirono in seguito ad un incendio alcune donne poiché vennero chiuse all’interno di una fabbrica perché il direttore non voleva dare loro il permesso di partecipare a uno sciopero. Ancora, secondo alcuni, l’8 marzo del 1911 a New York, in una fabbrica di camicie persero la vita 134 donne. L’8 marzo del 1917, è rimasto nella storia a indicare l’inizio della rivoluzione russa quando, per rivendicare la fine della guerra, le donne della capitale, organizzarono una grande manifestazione. Il crollo dello zarismo fu causato dalle numerose manifestazioni incoraggiate dalla reazione dei cosacchi che furono inizialmente inviati a reprimere la protesta. Così il 14 giugno del 1921 a Mosca ci fu la Seconda Conferenza Internazionale delle Donne Comuniste, in cui si decise che l’8 marzo sarebbe stata la “Giornata internazionale dell’operaia”. Per iniziativa del partito comunista d’Italia, la giornata internazionale della donna venne celebrata la prima volta nel 1922. Poco tempo dopo fu fondato il periodico quindicinale Compagna. Un articolo di Lenin, che venne riportato il 1° marzo del 1925, ricordava l’8 marzo come Giornata Internazionale della Donna.

La nascita dell’UDI e il significato del simbolo della mimosa per l’8 marzo

L’UDI (Unione Donne Italiane) prese l’iniziativa di celebrare l’8 marzo 1945 la prima giornata della donna in Italia. L’UDI nacque a Roma nel settembre del 1944 per iniziativa di donne appartenenti al PCI al PSI, al Partito d’Azione, alla Sinistra Cristiana e alla Democrazia del Lavoro. L’idea di utilizzare come simbolo la mimosa fu di Teresa Noce (partigiana politica antifascista italiana), di Rita Montagnana (politica italiana, esponente e parlamentare del partito comunista italiano) e di Teresa Mattei (partigiana, politica e pedagogista italiana) essendo, la mimosa, un fiore che fiorisce tra febbraio e marzo.

Dal 1946, con la fine della guerra, l’8 marzo fu celebrato in tutta l’Italia. Ma, purtroppo, per le donne agli inizi degli Anni ‘50, risultava ancora difficile distribuire liberamente le mimose o il mensile dell’UDI senza rischiare di compiere reati contro l’ordine pubblico. Anche la proposta di  legge delle senatrici Luisa Balboni, Giuseppina Palumbo e Giuliana Nenni nel 1959, per rendere la giornata della donna festa nazionale, non venne approvata. Solo quando, negli Anni ‘70, in Italia ci fu finalmente il movimento femminista, che la donna ottenne i suoi diritti: 8 marzo 1972, giornata della donna a Roma, manifestazione a piazza Campo de’ Fiori, decine di donne con cartelli manifestarono per chiedere la legalizzazione dell’aborto e la liberazione omosessuale. Da quel momento fu la donna ad avere il diritto di amministrare l’intero processo della maternità e non più lo stato e la chiesa.

Forse, a questa giornata che ancora tutt’oggi festeggiamo, oltre a regalare fasci di mimosa e cioccolatini e, non solo, organizzare feste nei grandi locali, si dovrebbe attribuire un valore  aggiunto per via delle circostanze storiche a essa legate, si potrebbe sostenere maggiormente e simbolicamente la donna mediante una giornata in sua memoria e al contempo a memoria dell’importanza dei suoi diritti e delle sue condizioni di lavoro.

Alessandra Federico

 Depressione post partum: la felicità di un bambino è il riflesso della serenità della madre

“ Mi sentivo come se mi avessero strappato via la mia vita, la mia libertà. Credevo di non poter mai più occuparmi di me, che sarei diventata una di quelle mamme che si trascurano e finiscono per diventare depresse. Da quel momento in poi capii che non ero più solo io, ma un continuo di me di cui avrei dovuto occuparmi per tutta la vita perché quel frugoletto me la stava totalmente stravolgendo  ed io non ero pronta a lasciarglielo fare”

La depressione post partum si presenta quando la mamma non è pronta ad interpretare il ruolo. Questa mancata prontezza nel divenire madre può suscitare in lei sentimenti quasi di odio nei confronti del piccolo: la forte percezione di rifiuto del proprio figlio dettata dalla paura e dalla sensazione che le stia rubando  la vita, non solo. Questo accade anche e soprattutto quando una donna vive di insoddisfazioni personali: traumi del passato e infelicità potrebbero essere una delle cause per cui, inconsciamente, possa provare questo negativo sentimento, credendo, inoltre, che il bambino sia il motivo dei suoi insuccessi o della fine della sua gioventù.

La realizzazione personale è fondamentale per avere una sana quanto giusta visione delle cose e della vita per poter dare, quanto più possibile, la giusta educazione per assicurare un futuro sereno al proprio figlio. Un altro fattore che potrebbe entrare in gioco per chi non è ancora pronto a prendersi cura di qualcun altro e non più solo di sé stesso, è la difficoltà nel  riuscire a distinguere la voglia di avere un figlio dettata dall’idea piacevole di costruire una famiglia ed essere indipendenti, dalla vera vocazione e desiderio di diventare genitori, in questo caso consapevoli del fatto che, la propria vita dal quel momento in poi subirà un notevole cambiamento. Ma per una donna il semplice fatto di essere riuscita a creare un’altra vita dovrebbe essere sufficiente per provare automaticamente amore incondizionato verso il proprio figlio? Si sa, resterà sempre la più grande gioia che una donna possa provare nella vita, ma alle volte, però, può accadere che non appena partorisce il primogenito, potrebbe iniziare a provare un forte desiderio di evadere lontano dal piccolo rischiando, di conseguenza, di lasciargli seri danni permanenti per la sua crescita.  Diciamo che, per viverla al meglio, non  bisogna affrontarla come una condanna, come un qualcosa che ci toglie la libertà, bisogna, al contrario, prendersi più cura di sé stesse, perché il benessere del proprio figlio è il riflesso della serenità e felicità della madre: una mamma serena, che si prende cura del suo aspetto estetico, che coltiva i propri interessi, una donna soddisfatta di sé sarà una madre maggiormente amorevole, perché bisogna avere tanta cura di sé prima ancora di prendersi cura del prossimo, e ancor di più quando si tratta del proprio bambino. Ricordiamoci, inoltre, che  la vita di una donna non finisce quando diventa mamma. Potrebbe iniziare una seconda quanto piacevole esistenza.

“Stavo rischiando di perdere i momenti più belli della mia vita, col tempo ho finalmente capito che per dare amore devo amare me stessa”. Con queste parole, Milena, una giovane madre di 26  anni napoletana racconta la sua esperienza con la depressione post partum.

Milena, durante o dopo il parto hai iniziato a sentire queste sensazioni negative?

Subito dopo aver partorito. Non riuscivo a tenere mio figlio tra le mie braccia. 9 mesi trascorsi nell’ovatta. Coccolata da mio marito, da tutta la mia famiglia e anche dalla sua. Non eravamo più nella pelle quando i ben 3 test di gravidanza dicevano che aspettavo un bambino da 5 settimane. E così da quel momento non abbiamo fatto altro che comprare tutine, culla e tutto ciò che potesse intrattenere la nostra euforia nell’attesa dell’arrivo di Leonardo. Non vedevo l’ora di tenerlo tra le mie braccia. Però poi come si può arrivare a sentire sentimenti di odio nei confronti dei propri figli una volta venuto al mondo? Eppure lo desideravo come poche cose nella mia vita ho potuto mai desiderare così. Ma una volta partorito mi è crollato il mondo addosso.  Non so spiegare come sia stato possibile ma non riuscivo a tenerlo in braccio ne ad allattarlo. I pensieri che formulava la mia mente erano brutti e negativi nei suoi confronti tanto da farmi spaventare  e farmi arrivare ad odiarlo, ma soprattutto ad odiarmi.

Come hai affrontato tutto questo?

Sono andata via di casa per qualche giorno. Nessuno riusciva a trovarmi e lo so che ho fatto l’errore più grande della mia vita perché mio figlio ne subirà le conseguenze ma per me era l’unica cosa da fare in quel momento altrimenti sarei finita per odiarlo davvero. Non riuscivo a guardarmi allo specchio perché quelle brutte frasi che sentivo uscire dalla mia bocca inconsapevolmente, mi stavano lentamente ammazzando.  Io non solo non riuscivo a dare affetto, ma sentivo un sentimento di odio nei confronti di mio figlio, non lo volevo. Avrei voluto tornare indietro per non concepirlo e più la mia testa pensava questo più stavo male, come se qualcuno pensasse al posto mio.  Pensavo che fosse una delle sensazioni più brutte mai provate e che forse, per tanta gioia provata durante la gravidanza era questo il prezzo da pagare? Non mi riconoscevo perché mai nella vita avevo provato tanto rancore verso qualcuno e mai mi sarei aspettata che se mai l’avessi provato, sarebbe stato verso mio figlio, verso la persona che più avrei dovuto amare al mondo.

 Ti sei fatta aiutare da qualcuno?

Dicono gli psicologi che quando inconsciamente si provano questi sentimenti negativi per il primo figlio, è perché forse non si è pronti a dover dedicare la tua vita ad un’altra persona. Diciamo che, almeno per i primi tempi, o, per i primi anni addirittura, ci si annulla quando si mette al mondo un bambino. La tua priorità diventa lui e sacrificare parecchie cose della tua vita diventa d’obbligo. E forse a questo io non ero pronta, mi piaceva l’idea di un bimbo tutto mio, di una famiglia tutta mia e forse sono stata anche troppo precipitosa e un po’ ancora infantile da non capire che avere un bambino tutto mio non sarebbe stato come quando giocavo a mamma e figlia a 8 anni o come quando ti prendi cura del bambino di tua sorella per qualche ora. Avere un figlio proprio significa prima di tutto riuscire a guardare la vita con altri occhi, attraverso i suoi, magari per comprenderlo al meglio.  Essere pronta a cambiare programma al momento per lui, a stravolgere i tuoi piani da un momento all’altro, perché lui è la cosa che più conta al mondo. Mio figlio è arrivato nel momento in cui avevo deciso di iscrivermi all’università ed è forse per questo che lo vedevo come il ladro della mi vita.

Adesso come vivi il rapporto con tuo figlio?

Ho faticato tanto per arrivare dove sono ora: mi sono avvalsa dell’aiuto di una psicanalista e insieme abbiamo trovato la strada giusta da intraprendere e mi ha accompagnata per parecchi mesi, fino a quando non sono stata pronta ad incamminarmi da sola. Ad oggi l’ho superato alla grande tanto che abbiamo ben 3 bambini e con gli altri due parti non ho vissuto questo dramma. Siamo arrivati alla conclusione che allora non ero pronta a tutto ciò che stavo vivendo e che avrei dovuto contemporaneamente realizzare i miei sogni. Con l’aiuto di mia madre e di mia suocera e non lo nego di una babysitter ho avuto l’opportunità di studiare e tra meno di un anno mi laureo. Credo ci voglia solo tanto coraggio e la forza di capire che nella vita una cosa non esclude l’altra perché una madre può anche essere una donna in carriera.

Alessandra Federico

Twiggy: la prima modella con la minigonna

Lesley Horby, o meglio conosciuta come Twiggy Lawson, è stata la prima modella ad indossare con impeccabile eleganza la fenomenale creazione di Mary Quant negli Anni ‘60: la minigonna.
Un periodo di rinascita per l’Inghilterra quello seguente alla Seconda Guerra Mondiale, infatti la società stava cambiando e con lei anche la moda grazie soprattutto all’invenzione della minigonna fatta da Mary Quant.

La giovane stilista aprì una boutique dove poteva finalmente vendere le sue meravigliose creazioni, acquisendo una velocità immediata nell’apprendere i gusti dei giovani londinesi e a soddisfare quelli che erano le loro esigenze realizzando, con estrema professionalità, capi pratici e alla moda.

Le giovani donne iniziavano a desiderare gonne corte e comode, in sostituzione ai soliti abiti lunghi dalle gonne dai 40 metri di crinolina, perché la comodità stava diventando la priorità, contrariamente a ciò che si diceva in seguito: la minigonna non nasce per allusioni sessuali. Le giovani donne, ormai,  desideravano indossare collant e body dai colori sgargianti che trasmettessero una sensazione di serenità e soprattutto di agiatezza.
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L’artefice del cambiamento della moda è stata la regina delle modelle: Twiggy, l’esile ragazza londinese nasce a Neasden il 19 settembre 1949. La prima modella con la minigonna diventa, nel 1966, una vera icona della moda lanciando il nuovo indumento capo nella Swinging London. Il suo soprannome significa “ramoscello”, non potevano dare nomignolo più appropriato per una ragazza esile dalle slanciate gambe,  dal viso lentigginoso e dagli occhi da cerbiatto che di fatti riuscì a conquistare le copertine di facoltose riviste di moda come Vogue, Elle, Seventeen e Interview.

Il suo carattere peperino insieme alla sua voglia di emergere e rivoluzionare il mondo non le diedero solo la possibilità di diventare la prima modella con la minigonna, ma le permisero di realizzare tutti i suoi sogni:  la sua popolarità non si ferma nel campo  della moda, Twiggy diventa attrice di fama interpretando il ruolo di una giovane cantante nel musical “the boy Friend” di Ken Russel nel 1971.  Nel 1980, insieme con Dan Aykroyd e Jhon Belushi la debutta nel film “The blue brothers” di Jhon Landis. Nel 1988 sostiene un importante ruolo in Madame Sousatza con Shirley MacLaine.

“Puoi essere bella a tutte le età, con la routine beauty giusta, il cibo sano e l’esercizio”. Con queste parole Twiggy ci comunica che proseguirà nella sua carriera anche come modella continuando a posare per diverse riviste, è stata appunto recentemente la protagonista dello speciale Valentino su Vogue Italia di ottobre 2019.  Insomma, la determinazione di Twiggy  e la sua costanza nel voler realizzare i suoi sogni è stato ed è un grande esempio da seguire anche per le giovani modelle emergenti di oggi, considerato che, la prima modella con la minigonna degli Anni ‘60, ha realizzato tutto ciò che desiderava.

Alessandra Federico

 

Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta

 Stefania Prandi, il femminicidio può essere attribuito al caso o è un fenomeno con radici culturali e sociali profonde, tenendo presente che, secondo il rapporto Eures, in Italia viene assassinata una donna ogni sessanta ore?

Come ha dichiarato l’Assemblea generale delle Nazioni unite nel 1993, «La violenza contro le donne è la manifestazione di una disparità storica nei rapporti di forza tra uomo e donna, che ha portato al dominio dell’uomo sulle donne e alla discriminazione contro di loro, e ha impedito un vero progresso nella condizione delle donne». Il femminicidio si inserisce in questa subalternità. In Italia viene assassinata, in media, una donna ogni sessanta ore e mentre il numero degli omicidi diminuisce, quello dei femminicidi, in proporzione, aumenta e rappresenta quasi il 40% del totale. Scrive il magistrato Fabio Roia in “Crimini contro le donne. Politiche, leggi, buone pratiche”: «Il fenomeno della violenza contro le donne è un atteggiamento diffuso, oscuro, antico, tollerato». Ci sono diverse statistiche a disposizione. Nei paesi dell’Unione europea una donna su tre ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita, e una su venti è stata stuprata. I dati sono in linea con l’Italia, stando ai rapporti annuali dell’Istat. Da noi, inoltre, manca una percezione reale del problema: appena un terzo di chi subisce violenza ritiene di essere vittima di reato.

Si reputa che la intimate partner violence si riveli una strategia per “fare il genere”, e per “fare le maschilità”. La polisemia di accezioni (genere linguistico, biologico e sociale) che la lingua sviluppa dimostra quanto la dimensione linguistica emani riecheggiamenti nella maniera in cui si avverte la realtà, si erige l’identità e si calcificano i preconcetti. Reputa che modi di dire, proverbi e battute possano costituire l’anticamera di forme di violenza?

Come scrive giustamente la ricercatrice e studiosa Chiara Cretella nell’introduzione al mio libro, “i processi di nominazione creano il reale”. Certe espressioni o modi di dire sono parte integrante della violenza, sono espressioni della cultura della violenza maschile contro le donne e della violenza di genere che ancora definisce la nostra società.

Chi paga le conseguenze del femminicidio ed in quali forme?

Quando una donna muore per mano di un uomo, non viene distrutta soltanto una vita, si colpiscono intere famiglie. A pagare le conseguenze dei femminicidi – che pesano per generazioni, duecento anni o più – sono madri, padri, sorelle, fratelli, figli . A loro restano i giorni del dopo, i ricordi immobili appesi ai muri, trattenuti dalle cornici, impressi nei vestiti impolverati, le spese legali, i ricorsi, le maldicenze nei tribunali («se l’è cercata», «era una poco di buono»), le giustificazioni: «stavano litigando», «lui era fuori di sé per la gelosia», «era pazzo d’amore», «non accettava di essere lasciato».

I media offrono plurimi e molteplici voci di famiglie che rifiutano di ripiegarsi nella sofferenza ed avviano battaglie giornaliere. Qual è il loro fine?
Sempre più familiari (nella maggioranza dei casi madri), intraprendono battaglie quotidiane, piccole o grandi, a seconda dei casi. C’è chi scrive libri, organizza incontri nelle scuole, lancia petizioni, raccoglie fondi per iniziative di sensibilizzazione e fa attivismo online. Lo scopo è dimostrare che quanto si sono trovati a vivere non è dovuto né alla sfortuna né alla colpa di chi è stata uccisa, ma ha radici culturali ben precise.

Le norme religiose, a cui sono poi seguite le leggi civili, hanno acuito le disparità e le differenze tra maschi e femmine. Qual è ad oggi lo status delle discriminazioni di genere, soventemente preludio a forme di violenza?
Tutti gli indicatori internazionali e nazionali ci dicono che le discriminazioni di genere sono ancora presenti e hanno un peso enorme sulle vite individuali e sulla società.

Stefania Prandi, giornalista, scrittrice e fotografa, ha realizzato reportage e inchieste in Italia, Europa, Africa e Sudamerica. Si occupa di questioni di genere, lavoro, diritti umani, ambiente e cultura. Tra le sue collaborazioni: Il Sole 24 Ore, National Geographic, Azione, Radiotelevisione svizzera, El País, Al Jazeera, Correctiv, BuzzFeed. Nel 2018 ha pubblicato con la casa editrice Settenove Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo. Con l’inchiesta legata al libro ha vinto numerosi riconoscimenti internazionali e premi come Henri Nannen Preis, Otto Brenner Preis, Georg Von Holtzbrinck Preis, Volkart Stiftung Grant, The Pollination Project Grant. A ottobre 2020 ha ricevuto la menzione speciale alla XXIma edizione del Premio di scrittura femminile “Il Paese delle Donne et Donna e Poesia”. Nel 2020 (settembre), sempre con Settenove, ha pubblicato il libro Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta col quale, lo scorso ottobre, ha vinto il premio letterario Essere Donna.

Giuseppina Capone

Annalisa Corrado: Le ragazze salveranno il mondo

Annalisa Corrado, ingegnera meccanica, ha conseguito nel 2005 un Dottorato di Ricerca in Energetica presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Dopo le prime esperienze con le società Ambiente Italia ed Ecobilancio come consulente/analista Life Cycle Assessment, per la valutazione del ciclo di vita di prodotti e servizi, ha ricoperto per 2 anni ruoli di consulenza specializzata presso il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare. Attualmente è responsabile dello sviluppo dei progetti innovativi della società ESCO AzzeroCO2 e referente delle attività tecniche dell’associazione Kyoto Club con le quali collabora stabilmente dal 2007; si occupa principalmente di promuovere e costruire azioni per la mitigazione dei cambiamenti climatici, strategie per la sostenibilità in chiave “agenda 2030 dell’ONU”, percorsi di economia circolare. Ha co-ideato con Alessandro Gassmann la campagna #GreenHeroes, che attualmente coordina. E’ co-portavoce, dal 2014, dell’associazione ecologista Green Italia. Parliamo del suo libro “Le ragazze salveranno il mondo” edito da People.

Per quale ragione, oggidì, sono le donne a scandire la grande lotta del movimento ecologista?

Pur non essendo un’amante delle generalizzazioni, che sono un terreno molto scivoloso, credo che tanti dei talenti e delle attitudini delle donne, abbiano moltissimo a che vedere con l’approccio ecologista alla realtà. Le donne hanno con più facilità uno sguardo sistemico, che non lascia indietro pezzi o persone; sono più spesso attente alle conseguenze delle proprie azioni e non lasciano che un singolo obiettivo possa divenire un alibi per abbandonare ogni remora o sguardo critico. Probabilmente l’ancestrale abitudine a tenere sotto controllo più cose e più persone è diventata un’attitudine preziosissima alla cura, alla condivisione, all’empatia e alla protezione: uno sguardo che invece è stato sistematicamente cancellato e dimenticato dalla mentalità fossile e turbo-capitalistica, che ha sempre considerato la natura un castello pieno di ricchezze da espugnare e saccheggiare, piuttosto che la nostra casa.

Le donne sono riuscite ad abbattere con fiera determinazione le gabbie concettuali in cui abbiamo abitato per lungo tempo. Ebbene in cosa si diversifica il punto di vista muliebre?

Mah, il cammino da fare è lungo. Il patriarcato si è insinuato così profondamente nella nostra società, da risultare molto spesso mimetizzato per molte persone. Ci sono ancora moltissime gabbie in giro e moltissimi fabbri che cercano di costruirne di nuove quando alcune vengono forzate o distrutte. E’ una battaglia continua per molte di noi, anche per alcune delle protagoniste del mio libro.

Un po’ ho risposto a questa domanda nella prima… Posso però aggiungere una riflessione: donne cresciute in una società in cui ai bambini si insegna la determinazione e l’arroganza, mentre alle bambine la remissione e la docilità, seppur portatrici di talenti, competenze e passione, saranno molto probabilmente soggette ad uno scontro durissimo con un senso di inadeguatezza profondo, con una pressione sociale spaventosa, solo perché osano prendere spazio e parola.

Nella mia esperienza, però, il senso di inadeguatezza diviene spinta all’evoluzione, desiderio di continuo apprendimento e consolidamento. E diventa uno strumento prezioso.

Rachel Carson, la donna che sconfisse le multinazionali del DDT, il premio Nobel Wangari Maathai, l’instancabile Jane Fonda, Alexandria Ocasio-Cortez e Greta Thunberg unite in un’alleanza intergenerazionale. Qual è il filo rosso, la traccia che le accomuna, pur nelle ovvie specificità?

Sono donne che hanno mostrato una grandissima determinazione e una profonda dedizione alle cause che hanno identificato come davvero importanti. Sono state capaci di creare reti, comunità, mobilitazioni che sono divenute vere e proprie onde anomale, in grado di scuotere l’opinione pubblica e cambiare, seppur in misura diversa, il corso della storia. Donne che non hanno fatto mistero della propria fragilità, ma hanno saputo renderla una specie di “super potere”, che le ha rese più credibili, più umane, più vicine alle persone che hanno deciso di mettersi in cammino al loro fianco.

Ecologia e democrazia sono un connubio inscindibile?

Lo dimostra chiaramente la storia di Wangari Maathai, che ha rischiato più di una volta la vita per essersi resa invisa al regime keniota, e al suo sommo esponente Moi, proprio per aver difeso i territori del suo Paese dagli scempi, le devastazioni e i veri e propri saccheggi che lo stra-potere di multi-nazionali voraci esercitavano indisturbate a danno di patrimoni di biodiversità inestimabili, della salute delle persone e della loro stessa possibilità di vivere una vita degna. Lo dimostrano anche le storie più recenti, in cui pochissimi detentori di un enorme potere (come le compagnie petrolifere o come le multinazionali della chimica) cercano di condizionare le scelte dei Governi con ogni mezzo, anche montando e alimentando vere campagne anti-scientifiche o nascondendo informazioni preziose, pur di tutelare i propri interessi, a discapito di tutti.

Qual è il futuro prossimo del movimento ecologista?

Credo che di fronte a un sistema di potere fossile così consolidato e pervasivo, di fronte ai grandi sconvolgimenti che l’umanità ha attratto su se stessa con miope auto-lesionismo (dal collasso climatico al COVID19, pandemia annunciata), sia necessaria una mobilitazione mai vista fino ad ora. Globale, intergenerazionale, intersezionale. Una mobilitazione che deve farci sentire tutti convocati, perché abbiamo il dovere di non sprecare questa ennesima crisi e pretendere che non si torni più ad una “normalità” di devastazioni e diseguaglianze, ma ad un nuovo modo di pensare le relazioni sociali ed economiche. Arriveranno molti soldi per aiutare i Paesi a gestire la crisi economica scatenata dalla pandemia. Dobbiamo fare in modo che non un solo euro vada sprecato, perché sono, ancora una volta, risorse prese in prestito dal futuro e al futuro devono essere dedicate. Dobbiamo uscire dall’era delle fossili ed entrare in quella delle energie rinnovabili, dobbiamo pretendere che i Paesi siano coerenti con gli impegni presi a Parigi nel 2015 con la COP21, dove si è deciso di decarbonizzare economia e società entro il 2050 (E, anche da questo punto di vista, la vittoria di Biden/Harris è un’ottima notizia); dobbiamo ricordare che non c’è giustizia climatica o giustizia ambientale senza giustizia sociale, e viceversa. Dobbiamo cambiare tutto, insomma. A partire dall’osare immaginare che il mondo possa diventare davvero un posto diverso.

Giuseppina Capone

 

 

 

Curvy: le difficoltà per la donna oversize

“Non esiste cosa più triste del voler cambiare il proprio aspetto perché convinti del fatto che, per essere belli, per essere accettati, bisogna a tutti i costi somigliare al canone di bellezza che ci mostrano. Io non posso credere che ogni donna voglia davvero essere uguale ad un’altra e che si sottoponga addirittura a una o più chirurgie plastiche per non essere quella diversa, per avere il corpo e il viso che ci impongono di avere. Rendiamoci conto, una volta per tutte, che ancora oggi non siamo liberi di scegliere come vogliamo essere, che ci annientano la personalità e  ci manovrano come marionette, ed è per questo che spesso mi pongo questo quesito: chi stabilisce come debbano essere le donne e qual è il modo giusto di vedere le cose? Io credo sia giusto confrontarsi e ispirarsi a qualcuno o a qualcosa ma senza annientare sé stesse. Il fatto è che noi crediamo di essere liberi di scegliere ma è la società che decide come dobbiamo essere e senza accorgercene obbediamo. Il modo in cui lo fanno non è diretto. In modo subdolo giocano sulla nostra psiche mirando sul nostro punto debole, ovvero sull’aspetto estetico di una donna: pubblicità, social media e tanto altro, per inculcare nelle nostre menti che quelle sono le regole giuste da seguire e che se non le rispetti non sarai accettata e, automaticamente, senza neppure che possiamo accorgere, pur di esserlo, diventiamo un branco di pecore pronte ad obbedire al nostro pastore. Quindi, il messaggio che voglio mandare alle donne,  è quello di riflettere e cercare di uscire da questa trappola che non ci fa vivere una vita felice ne tanto meno indipendente. Siate voi stesse, qualunque corpo voi abbiate, qualunque colore della pelle abbiate e da qualsiasi posto voi veniate”.

Quando una donna non segue tutte le regole per essere esteticamente impeccabile come vorrebbero che fosse, è facile che possa sentirsi derisa, o, addirittura, emarginata, esclusa in diversi ambiti soprattutto quelli lavorativi. Sembra quindi che disobbedire al canone di bellezza che ci viene imposto dalla società sia quasi eresia. Bisognerebbe, dunque,  seguire precisamente ogni regola per essere accettati, per essere considerati: essere sempre alla moda indossando capi d’abbigliamento di tendenza, non solo, anzitutto riuscire ad avere un aspetto esteriore che sia alla pari dello stereotipo di perfezione che ci mostrano, ossia, che  la vera bellezza sia quella di avere un corpo magro. E pare proprio che, non rientrare nella categoria della donna perfetta, chiuda tutte le porte, poiché una donna con un corpo da Barbie viene assunta immediatamente qualsiasi sia il settore lavorativo, per una donna oversize, invece, la probabilità che possa essere assunta è più difficile. Purtroppo chi ci rimette sono coloro che scelgono di vivere la loro vita nel modo indipendente senza sentirsi in  obbligo di dover avere un corpo o un viso chirurgicamente ritoccato come chiede  oggi la società. Ma secondo quale punto di vista di quale persona abbiamo deciso quale debbano essere le cose belle e quali quelle brutte? La vera bellezza è, semplicemente, quella che i nostri occhi riescono a vedere, a percepire nonostante le diverse imperfezioni che possa avere il corpo di una donna o anche di un uomo. Addirittura di un oggetto o di un animale. Ciò che conta è sentirsi a proprio agio nella propria pelle, vedersi belli allo specchio così come si sceglie liberamente di essere a seconda della propria indole, carattere e soprattutto di un personale gusto, a secondo di come si osserva la vita, perché tutto ciò che vedono i nostri occhi può diventare perfetto secondo il modo in cui decidiamo noi di osservarlo e di viverlo. In sostanza, sentirsi liberi di scegliere come voler essere è fondamentale, perché ci si sente, di conseguenza, accettati per quello che realmente si è, e soprattutto si ha la facoltà di condurre la vita che si desidera e non quella che vuole qualcun altro.

Samantha, quarantuno anni, racconta la sua storia da donna oversize.

Samantha, come vivi la relazione con il tuo corpo?

La mia relazione con il mio corpo è ottima, finalmente, dopo quasi trentaquattro anni di conflitto tra me e lui, me e la società. Oggi lo vedo come un alleato e parte di me, cerco di curarlo e tenerlo efficiente (ho 41 anni anche se non li dimostro e diversi traumi sportivi alle spalle) non lo vedo come un biglietto da visita o qualcosa da modificare, so che cambia con il tempo e lo accetto. Mi piace molto essere tonda, mi piace il mio viso e credo di essere fortunata, mi piacciono molto le donne tonde. Certo è normale anche per me ogni tanto essere giù di morale, o insoddisfatta, ma è una cosa passeggera e di certo determinata dall’influenza massiccia dei mass media e dei social (e di photoshop).  Io credo che anche il corpo di una donna in carne possa essere attraente.  Non si tratta, naturalmente, di incitare la donna ad avere a tutti i costi il corpo di una donna curvy, perché fino al momento in cui questo non causa problemi come l’obesità, tutto è lecito e ognuno deve sentirsi libero di stare bene nel proprio corpo senza il timore di essere preso in giro o che ogni giorno possa esserci qualcuno che ti guarda con l’aria disgustata.

Quale consiglio dai alle donne Curvy per far si che accettino il proprio corpo?

Accettare il proprio corpo non è facile, va detto, bisogna lavorare dentro di sé, studiare, mettere in discussione i mass media, la società e le esigenze del ‘business del corpo’ come lo definisco io, darsi molto tempo, riprovare, essere indulgenti con noi stesse e con gli altri corpi e persone, informarsi e non fermarsi alle facili formulette per la perdita di peso. Non solo, chiedere aiuto qualora non si dovesse avere la forza di farcela do soli. Molte donne non sanno nemmeno di essere dismorfofobiche o di soffrire di disturbi della propriocezione e alimentari.  Direi loro, prima di tutto, di ricordare che il cibo è una necessità e avere fame è naturale, rinunciare al cibo non aumenterà il nostro valore, e diventare magre come ci vogliono non aumenterà al nostra autostima perché non sono questi i valori che contano nella vita quanto la persona che scegli di essere. Le direi di non dar retta a chi non sa fare altro che soffermarsi sull’aspetto esteriore perché di quelle persone non ne avrà bisogno perché non faranno parte della sua vita. Provare ad accettare il proprio corpo nonostante diverse imperfezioni vi renderà perfette perché avrete imparato a guardare la vita con semplicità e soprattutto a dare importanza alle cose che contano davvero: l’essenza di una persona. Iniziare a pensare al proprio corpo come a un alleato da amare, coccolare, preservare, mostrare, vestire bene. Non a caso il motto della mia linea è: se ti piace è già l’abito adatto a te. Io mi sentivo divina e ho iniziato a vestirmi da diva. Vi assicuro che ha funzionato. Scegliete di indossare quello che vi fa impazzire non quello che vi camuffa, cercate online: c’è di tutto per qualsiasi taglia. Vestirci come ci piace ha un grande potere, perché l’accettazione parte dalla mente per poi arrivare al cuore e al corpo. Soltanto quando ci sono in ballo problemi di salute legati all’obesità, si dovranno prendere provvedimenti. Ma fin quando si tratta di essere “rotondette” o fuori dal canone di perfezione che impone la società, fregatevene.

Sei mai stata vittima di bullismo?

Oh si, sin da piccola, ovunque, e anche da adulta. Perché ero bimba grassa e bizzarra, da ragazzina ero grassa e non vestivo con abiti firmati, un calvario che però mi ha fortificata non poco. Anche ora che ho quarantuno anni sento battute, raccolgo occhiate, ma è molto diverso, non mi tiro indietro se c’è da difendermi o difendere.

Fatevi aiutare, se sentite di essere troppo oppresse, chiedete aiuto a qualcuno di neutro e autorevole. Ricordate che spesso chi vi discrimina è un poveraccio pieno di problemi che maschera fragilità e insicurezza attaccando voi, proiettando su di voi il mostro che lui vede in sé stesso. Con questo non voglio dire che dobbiate lasciarlo fare, può farvi pena ok, ma voi dovete proteggervi e proteggere le altre vittime d ei bulli.

Hai avuto difficoltà anche a cercare lavoro?

Mentre studiavo cercai anche lavoro in un bar, in diversi ristoranti e pub. Mi sentivo dire continuamente no, fino a quando decisi di domandare il perché: “abbiamo bisogno di clientela, e per averla abbiamo bisogno di u n bel corpo femminile che serve ai tavoli”. Scappai in lacrime, anche perché avevo solo 22 anni. Ad oggi gli avrei fatto una bella risata in faccia. Penso sia una cosa molto triste questa, perché scelgono ragazze belle anche se non sono capaci di servire un caffè. Nel  2014 ho capito che  potevo creare per altre donne abiti come da sempre creavo per me stessa. Sono cresciuta con nonna sarta e magliaia, ha sempre realizzato per me abiti  bellissimi e da lei ho imparato a cucire. Crescendo ho capito che per la mia taglia non c’era nulla di mio gusto quindi ho iniziato presto a cucire per me. Avere un mio stile unico e gusto autonomo nel vestire è stata per me una grande rivincita contro tutte quelle persone che vestono uguali. La mia passione vera non è la moda, ma l’arte: sono laureata in scultura all’accademia di Brera e di Atene. Poco tempo fa mi chiesero se volevo sfilare come modella Curvy ma  rifiutai. Non ho mai pensato di diventare  modella, almeno non nel significato classico del termine, ma essere esempio (role model come direbbero in USA), quello si, vorrei essere una donna esemplare più che una modella. Mi piace usare il mio corpo come mezzo per comunicare e aiutare le altre donne, ma mi piace molto anche fare ricerca e parlare ai convegni\ conferenze. Essere modelle oggi, con tutto il carico di responsabilità nei confronti delle donne e bambine, è un compito difficile, anche per le modelle oversize e curvy, che spesso dimenticano che non basta essere belle, bisogna essere anche esemplari. Attenzione però, a percepire bene il significato messaggio che voglio mandare. Mi spiego: non è incitare le donne ad essere in sovrappeso perché si sa che l’obesità è una malattia, e non è nemmeno un messaggio per dire loro che fanno bene ad esserlo, Ma è, chiaramente e per chi lo riesce a capire, un messaggio di conforto per far capire loro che fanno bene a sentirsi a proprio agio con il proprio corpo nonostante vengano prese in giro. Che poi col tempo possano risolvere, nel caso dovessero averne, problemi di salute, noi glielo auguriamo con tutto il cuore. Inoltre,  auguro loro di sentirsi libere di essere e non di apparire.

Alessandra Federico

Sorelle Fontana:  le prime donne che hanno cambiato la moda italiana

 Il lusso è una delle chiavi interpretative più rilevanti per comprendere la moda occidentale. Il modo di vestire è da sempre stato utilizzato per comunicare anche altri significati che sono cambiati a seconda delle culture, delle situazioni e delle scelte individuali. La moda è stata, a partire dal medioevo, prerogativa di un piccolo gruppo che ha usato le trasformazioni dell’abito per manifestare la preminenza del proprio ruolo gerarchico all’interno di una determinata comunità.  Negli smodati anni 80’, ad  esempio, il Made in Italy fu uno stile innovativo e stravagante. Al termine degli anni 70’ il pret-a-porter italiano debuttò e Milano che in breve tempo assunse un ruolo catalizzatore di tendenza e di stili moderni.  Ma torniamo per un attimo alle origini, le prime stiliste della moda italiana risalgono agli anni 30’: le sorelle Fontana hanno fondato il primo atelier di moda in Italia.

Le sorelle Fontana

“Da grande realizzerò davvero un abito per una principessa”. Presto le parole di Micol Fontana (seconda delle tre sorelle stiliste) si realizzarono. La casa di moda della famiglia Fontana fu fondata a Parma nel 1907. Una volta diventate adulte, le tre sorelle romagnole,  Zoe, Micol e Giovanna, si trasferirono a Roma dove inizialmente furono costrette a lavorare in una sartoria guadagnando il minimo indispensabile per sopravvivere, fino a quando il loro  datore di lavoro si accorse della straordinaria dote di Micol e le affidò il compito di confezionare gli abiti da sera per la cliente più prestigiosa della boutique. Durante la Seconda Guerra Mondiale, con tanta audacia e determinazione riuscirono a realizzare il loro sogno: un atelier tutto loro dove poter creare abiti e organizzare sfilate di moda.

Nel 1958 l’atelier si trasferì a piazza di Spagna dove realizzarono la prima sfilata di moda sulle scale della maestosa piazza. Riuscirono, inoltre, a conquistare la aristocrazia italiana e le celebrità del cinema internazionale. Nel 1949 realizzarono l’abito di nozze per Linda Christian e la stampa internazionale non parlava d’altro. Da allora il Jet- Set di Hollywood si rivolgeva solo alla casa di moda italiana Fontana. Anche Liz Taylor, Ingrid Bergman e Ursula Andress vestivano abiti Fontana. La loro cliente fedele era Ava Garden, che, oltre al guardaroba, chiese loro di realizzare per lei anche abiti di scena tra cui uno  per il film “La contessa scalza”.  Tra le tre sorelle Micol era quella più determinata, aveva grandi sogni, progetti e ambizioni.

Il sogno di Micol

Oltre alle star di Hollywood, le creazioni delle sorelle Fontana erano molto apprezzate anche dalle nobiltà. La principessa Maria Pia di Savoia commissionò loro il suo abito nuziale poiché entusiasta della modifica al suo prezioso abito di cui se ne occupò proprio Micol. Non solo,  nel 48’ la celebre attrice di Hollywood, Myrna Loy acquista dalle Fontana il completo guardaroba per il film “ Il caso di lady Brook”.  Le Fontana iniziarono così a puntare sul mercato americano: Micol Fontana cominciò una serie di viaggi oltre oceano in seguito alle tante richieste per conto di grandi celebrità americane. L’audace Micol, si sposò due volte, il primo marito si rivelò fannullone interessato solo al denaro e ad avere molte donne. Insieme a lui, Micol generò la prima e unica figlia, Maria Paola, deceduta prematuramente per aver contratto il tifo in Calabria. Dopo il tragico avvenimento Micol decise di non voler lavorare più, ma grazie all’aiuto del suo nuovo amore, intraprese un nuovo percorso rinnovando la bottega e confezionando abiti con marchio Sorelle Fontana.  Micol morì il dodici giugno 2015 all’età di centouno anni.

Sorelle Fontana, un marchio che la moda italiana non dimenticherà mai.

Alessandra Federico

Genitori iperprotettivi: quali effetti si ripercuotono sui figli

Quando un genitore è iperprotettivo, lo è solo fin di bene. Lo scopo dei genitori è quello di far crescere i propri figli in un ambiente ovattato per proteggerli anche dai pericoli inesistenti. Vorrebbero, inoltre, che la vita del proprio figlio fosse perfetta e priva di difficoltà e di ostacoli, senza capire che saranno proprio questi ultimi che lo aiuteranno a far sviluppare le proprie capacità e ad acquisire fiducia in se stesso per poi riuscire a cavarsela da solo.

Tutto questo può facilmente provocare l’effetto opposto: timore di uscire dalla propria zona di comfort anche in età adulta, ansia, depressione, e, naturalmente, il bisogno incessante di avere accanto almeno uno dei due genitori per qualsiasi scelta si debba fare, da quella di un abito, fino alla più intima decisione quale quella di un fidanzato/a o di un percorso universitario. Questo, di conseguenza, può far aumentare la paura di crescere e di diventare autonomi e indipendenti. Ancora, potrebbe acquisire grandi difficoltà a gestire la propria vita e a sviluppare una sana autostima, a risolvere le difficoltà da solo e a scoprire il proprio carattere. Nel peggiore dei casi potrebbe divenire una persona molto fragile e facilmente manipolabile dal prossimo.

I bambini hanno bisogno di esplorare il mondo per capire, sin dalla tenera età, chi vorranno essere e quali sono le cose che piacciono o no, per formare il proprio carattere e per iniziare a capire quale potrebbe essere un giorno il proprio posto nel mondo.

Allo stesso tempo, però, una persona cresciuta in un nucleo familiare molto protettivo, può riscontrare anche effetti positivi: essere prudente, riflessivo, giudizioso. Ancora, essere diffidente, che alle volte può portare anche a un giovamento.

Altre volte, invece, potrebbero sentire il bisogno di circondarsi del numero di persone che l’hanno cresciuta e protetta sin dalla nascita.

È giusto che i genitori aiutino i propri figli a superare le difficoltà, ma è ancora più giusto che insegnino loro come si affrontano, intervenendo solo qualora la questione dovesse diventare insormontabile. Ma è fondamentale lasciare loro la giusta libertà per evitare conseguenze poco desiderate.

“Ho trentacinque anni e fino a cinque  anni fa non mi ritenevo una persona particolarmente autonoma e indipendente, avevo ancora bisogno di mia madre per prendere qualsiasi decisione, anche la più banale. I miei genitori sono da sempre stati eccessivamente protettivi con me”.

Benedetta, trentacinque anni, napoletana, racconta la sua esperienza con i suoi genitori iperprotettivi.

Benedetta, in che modo si comportavano con te i tuoi genitori?

Non potevo fare tutto quello che facevano le mie amiche nemmeno quando avevo già ormai venti anni. Se all’età di cinque anni, ad esempio, cadevo e mi sbucciavo le ginocchia, come tutte le bambine della mia età, loro mi medicavano e non mi facevano giocare più nel cortile di casa nostra, fino a quando le mie ferite non si fossero risanate. “Se cadi di nuovo, devi andare all’ospedale perché le ferite non si chiuderanno più”, mi dicevano.

Quali sono state le conseguenze del loro comportamento per te?

Questo loro modo di fare ha fatto si che io crescessi con paure e angosce, con il timore di non essere in grado di andare mai oltre i miei limiti. Avevo paura anche solo di mettere il piede fuori di casa da sola. Paura della vita, di cosa potesse accadermi quando loro non c’erano. Inoltre, ho avuto difficoltà a relazionarmi con le persone. Avevo addirittura paura di attraversare la strada da sola fino a pochi anni fa, avevo vergogna di chiedere un etto di prosciutto al banco salumeria al supermercato. Avevo paura anche della mia stessa ombra. L’unica conseguenza positiva è stata quella di farmi diventare una persona prudente.

Quando hai iniziato a sentire l’esigenza di distaccarti dai tuoi genitori?

Credo che inconsciamente io abbia sempre sentito questo fiato sul collo dei miei, soprattutto di mio padre – la sua unica figlia femmina dopo tre maschi – che anche loro, chi più e chi meno, hanno sempre avuto un atteggiamento maschilista nei miei confronti. “Tu sei femmina, stanne fuori, sei femmina non puoi venire con noi, sei femmina, non lo puoi fare”. Mi dicevano in continuazione. Ho quindi trascorso gran parte della mia esistenza a occuparmi dei miei fratelli, a lavare la loro biancheria, cucinare, stirare e a fare tutto quello che può fare una donna sottomessa da un uomo. Io ne avevo ben quattro di uomini. All’età di trenta anni ho conosciuto una ragazza mentre facevo la spesa al market. Lei era ben vestita e parlava come se avesse il mondo nelle sue mani, ne rimasi affascinata. Da quel momento è come se dentro di me qualcosa fosse cambiato ed era uscita fuori tutta la mia voglia di ribellarmi e vivere la vita come dicevo io. Mi piaceva parlare con lei, volevo essere come lei. Marta aveva ventotto anni ed era all’ultimo anno di architettura. Conviveva con altre sue amiche in una casa al centro storico di Napoli. Marta mi aiutò a trovare un lavoro come commessa e da lì a poco andai a vivere con lei e con le sue coinquiline.

Oggi com’è la tua vita?

Decisamente entusiasmante. Lavoro tanto ma mi piace perché conosco continuamente persone diverse e questo mi ha aiutato tanto a sbloccarmi anche con i ragazzi. Tanto che, in breve tempo, ho iniziato a frequentare quattro uomini nello stesso periodo. La mia amica non riusciva a darsi una spiegazione del come sia stato possibile che io tanto chiusa in me stessa, tanto timida, avessi radicalmente cambiato vita e frequentato più di un uomo. Da lì a poco, scoprimmo, grazie al consulto di uno psicoterapeuta, che questo fenomeno strano per noi, non aveva altro che una spiegazione semplice: i quattro uomini della mia vita (papà e tre fratelli) avevano avuto un atteggiamento morboso nei miei confronti, tanto che, una volta diventata adulta, ho sentito il bisogno di avere quattro ragazzi. Naturalmente l’ho superato e a oggi ho un solo ragazzo e il rapporto con i miei genitori è totalmente cambiato, anche se inizialmente ho dovuto lottare per farmi accettare così come sono.  Adesso sono felice, anche se spesso mi capita di pensare al passato e rammaricarmi del fatto di non essere andata via di casa molto prima. Allo stesso tempo penso che non sia mai troppo tardi per prendere la vita in mano e farne ciò che si vuole.

Alessandra Federico

Contro la violenza sulle donne. Non possiamo fermarci

Ogni lotta contro la violenza maschile sulle donne è lotta contro la discriminazione.

Ed ogni manifestazione in tal senso deve avere come obiettivo la sensibilizzazione contro questa violenza trasversale che travolge il corpo delle donne tra le mura domestiche, sul posto di lavoro e per strada. Nessun luogo è sicuro e non c’è un tempo dedicato alla lotta. Anche in un periodo straordinario e ricco di incertezze come quello attuale, in cui gli spazi si restringono e le piazze non possono accogliere le voci della protesta, non possiamo fermarci e dobbiamo parlare.

La discriminazione si perpetua viscida e sistematica a seconda degli ambiti e delle varie parti del mondo in cui si trovano le femmine e quando sfocia nella violenza fisica lo fa fisiologicamente.

Nel mercato del lavoro queste dinamiche non sono un’eccezione: salari più bassi a parità di mansioni, estrema difficoltà nel rivestire cariche apicali, stalking, mobbing, sfruttamento, in un’escalation di comportamenti aggressivi che mirano ad annientare la vittima in quanto persona rendendola ostaggio del proprio aguzzino. E a volte sono gli Stati ad avallare determinate pratiche che favoriscono discriminazione e violenza di genere.

È il caso del Kafala, parola araba che indica un sistema di garanzia o patrocinio, meglio tradotto in inglese con il termine sponsorship, adottato dai Paesi del Golfo per regolare l’ingresso e la residenza legale nei loro confini dei migranti economici.

Kafala è un sistema di controllo. Nel contesto della migrazione è un modo per i governi di delegare la supervisione e la responsabilità dei migranti a cittadini o aziende privati. Il sistema offre agli sponsor (datori di lavoro) una serie di capacità legali per controllare i lavoratori: senza il permesso del datore di lavoro, i lavoratori non possono cambiare, lasciare un lavoro o lasciare il Paese. Se un lavoratore lascia un lavoro senza permesso, il datore di lavoro ha il potere di annullare il visto di residenza, trasformando automaticamente il lavoratore in un residente illegale nel paese. I lavoratori i cui datori di lavoro annullano i loro visti di residenza spesso devono lasciare il paese attraverso procedure di espulsione e molti devono trascorrere del tempo dietro le sbarre.

Declinato sulla pelle delle donne questo sistema è diventato legittimazione di abusi e torture.

Come sempre tutto comincia con la promessa di una vita migliore. Una volta preso servizio nelle case saudite, le lavoratrici si ritrovano spesso a vivere alla stregua di schiave; costrette dalla necessità a sottostare al volere del loro sponsor molte non riescono ad affrancarsi, non ricevono salario e non possono denunciare qualcosa che è consentito dalla legge.

Il forum bengalese Samajtantrik Mohila denuncia che nei primi otto mesi di quest’anno 859 donne sono rientrate in Bangladesh per sottrarsi a condizioni di vita insopportabili, mentre si calcola intorno a 5000, negli ultimi 3 anni, il numero complessivo delle migranti rientrate in patria a causa delle violenze subite.  Almeno 19 invece si sono tolte la vita dal 2016 a oggi.  Prima di poter ritornare a casa le donne senza passaporto e senza la garanzia dello sponsor devono aspettare mesi, se non anni, alloggiate in strutture gestite dall’Ambasciata del Bangladesh in Arabia Saudita. Una volta rimpatriate, rischiano l’emarginazione sociale a causa delle violenze sessuali che in molti casi hanno subito, non solo da parte dei datori di lavoro sauditi, ma spesso anche nelle agenzie di reclutamento.

Queste ultime ottengono vantaggi cospicui operando da intermediari, arrivando a guadagnare fino a 120 dollari per ogni donna ingaggiata, una cifra consistente in un Paese  con un PIL pro capite ancora estremamente basso.

E tutto accade sembra con la compiacenza del governo di Dacca le cui  relazioni con l’Arabia Saudita si fanno sempre più strette in materia di commercio e investimenti.

Lo scorso anno il Bangladesh è uscito dalla lista dei Paesi meno sviluppati, sia secondo le Nazioni Unite che per la Banca Mondiale e proprio in un’ottica di espansione economica i rapporti con l’Arabia Saudita non possono essere compromessi, per cui su questa situazione si tace.

Al contrario di ciò che accade in altri Stati, come ad esempio in Indonesia o in Pakistan, in cui sono stati introdotti divieti che impediscono alle lavoratrici di recarsi in alcune zone del Golfo in seguito a ripetuti casi di abusi, il governo bangladese continua a promuovere l’emigrazione di lavoratrici domestiche poiché gli introiti derivati dalle rimesse costituiscono una fonte di entrate irrinunciabile.

Sul corpo delle donne passano investimenti e scelte politiche, si costruiscono voci d’incasso per alcuni governi e per tutti si potrebbero basare opportunità di crescita economica e sociale, basterebbe una maggiore considerazione di quei corpi.

Rossella Marchese

Vali per ciò che sei non per ciò che fai

“Io valgo per quello che sono, non per quello che faccio ma la maggior parte delle persone valuta sé stesso e gli altri in base a ciò che hanno realizzato nella propria vita. Credo che si dovrebbe misurare il valore di una persona per quello che ha nel profondo e per come tratta il prossimo, prima di ogni cosa.  Eppure ci si continua a giudicare in base alle scelte personali, che sia per la carriera o per la posizione culturale o economica. Se iniziassimo a osservare il mondo anche col cuore  la nostra vita cambierebbe, vivremmo davvero. Ho trascorso anni avendo una visione della vita sbagliata, superficiale, ora voglio andare oltre.”

Non è mai troppo tardi per cambiare direzione, per osservare la vita da un’altra prospettiva.  Per farlo bisogna adottare l’intelligenza anche nella sfera emotiva oltre in quella razionale. Come sostiene lo psicologo, nonché insegnante ad Harvard e collaboratore scientifico di New York  Times, Daniel Goleman: “Essere intelligenti non consiste solo nel sapere comprendere concetti complessi come la metafisica kantiana o le equazioni differenziali: intelligenza è (anche) le capacità di riconoscere le proprie emozioni, di mettersi nei panni del prossimo, di provarne empatia. È guardar la vita con la mente aperta e comprenderne il significato vero.”

Osservare la vita con la mente aperta può portare giovamenti per ognuno di noi,  al fine di mutare la propria, qualora se ne  abbia una, distolta percezione delle cose e del mondo e, soprattutto, per cogliere la vera essenza di sé e degli altri per poterne poi riconoscere il valore vero. Spesso ci si sente valorosi soltanto per ciò che si fa, ci si sente orgogliosi solo in base ad un buon risultato raggiunto di un obiettivo che ci prefissiamo quale lavorativo o universitario e, di conseguenza, si tende a valutare anche gli altri in base a tali requisiti senza pensare che non bastano per pesarne il valore.  Il valore di una persona si misura per la sua ricchezza d’animo e per come si comporta con il prossimo. D’altronde, sembra che questo vivere di futilità e frivolezze ci abbia portato a giudicare gli altri in modo superficiale. O, addirittura, in modo distolto. Perché spesso si tende  a dimenticare ciò che  davvero conta dando più importanza alle apparenze, senza riuscire ad andare oltre. In sostanza, una persona dotata di una profondità d’animo e che rispetta il prossimo è più rara di quanto si possa immaginare.

Rispettare il prossimo: la prima regola per stare al mondo

Un basilare concetto eppure in pochi lo sanno:  se si rispetta il prossimo si ha già capito come si sta al mondo. È la prima disciplina da imparare e finché non saremo soli sulla terra ci saranno delle regole da rispettare per poter vivere con gli altri.  Iniziamo,  dunque, a considerare ciò che davvero conta: il rispetto.  Una tematica apparentemente banale ma di vitale importanza perché quando quest’ultimo viene a mancare si può già considerare terminato un rapporto, perché sono queste le fondamenta che sostengono ogni tipo di  relazione.  È quindi fondamentale aprire la mente, guardare lontano, andare oltre ogni preconcetto, ogni pensiero di luogo comune, eliminando la presunzione e assumendo una gran dose di umiltà per tenere sempre la porta della nostra mente aperta in modo da lasciar entrare  nella nostra testa ogni nuova esperienza perché se la terremo chiusa ogni situazione nuova che vivremo, anche la più interessante ed entusiasmante, non ci insegnerà nulla.

Sin dalla tenera età

Se si spiega ai bambini che la cosa fondamentale della vita è la profondità d’animo e il rispetto verso il prossimo si avrà già insegnato loro come si sta al mondo e abbasseremo questo stereotipo di perfezione: “sei bravo solo se vai bene a scuola o se diventi qualcuno di importante per la società e guadagnerai tanto”. È questo che spesso diciamo ai nostri bambini.  Studiare e realizzarsi è fondamentale ma non bisogna sentirsi importanti o amati solo per questo.  Questi potrebbero essere alcuni dei motivi per cui tanti bambini, una volta diventate adulti, assumono atteggiamenti quali: egoismo, presunzione,  prepotenza, egocentrismo. Oppure, al contrario, fragilità e insicurezza  perché crede di meritare affetto solo se è bravo nelle cose che fa. Sarà quindi sempre alla continua ricerca della perfezione di sé. Spiegare, dunque, quali sono le cose fondamentali della vita prima di ogni altra cosa, e capiranno, sin dalla tenera età, che il rispetto verso il prossimo è la prima cosa, e conosceranno l’umiltà e il valore di sé stessi e di un qualsiasi tipo di rapporto. E questo, al contrario del pensiero di molti, vale molto di più di qualsiasi altra cosa.

 

“In passato pensavo che le persone si valutassero per ciò che fanno e non per ciò che sono, ma mi sbagliavo.  Ho voluto cambiare modo di vedere vita, ora mi piacciono le persone vere, quelle che ti guardano l’anima.”
Con queste parole Gaia, 28 anni, napoletana. Racconta il suo cambiamento di vita.

Gaia, cos’è che ti ha fatto cambiare modo di vedere la vita?

Provengo da una famiglia benestante. Ho studiato nelle scuole di alto prestigio e le persone che mi circondavano erano tutte in un ceto alto. Sono nata e cresciuta con questa concezione della vita e cioè che valgo solo se raggiungo i miei obiettivi e di conseguenza valutavo le persone solo per quello che fanno. Ad un tratto tutto questo iniziava a farmi stare male e decisi quindi di circondarmi di persone che mai nella mia vita avrei pensato potessi  considerare, persone semplici nell’apparenza ma ricche dentro. Quelle persone alle quali non importa cosa fai ma come sei. A dirla tutta, in passato ne andavo fiera di tutto quello che mi circondava: macchine di lusso, vestiti costosi, mai un capello fuori posto e unghie sempre perfette. Ma da un po’ di tempo stavo iniziando a sentire una sensazione di vuoto nell’anima  e quando stavo con amici non vedevo l’ora di andar via. Come se tutto quello che mi aveva reso felice, improvvisamente mi rendeva infelice, cercavo altro. Qualcosa di vero. Ciò che cercavo era  qualcosa che mio il cuore desiderava, qualcosa che in quella cerchia di gente nessuno avrebbe potuto darmi. Ho allora deciso di provare a cambiare vita allontanandomi da casa e andando a vivere da sola.

Che rapporti hai adesso con la tua famiglia?

Mi hanno criticata e ancora lo fanno, non i miei genitori ma parenti e vecchi amici. Perché il mio abbigliamento è cambiato: niente più abiti firmati, niente macchine di lusso, ne capelli sempre perfettamente in ordine, ne labbra gonfie e questo per loro è eresia. “Hai la possibilità di vivere come una regina e sempre alla moda  e hai scelto di essere una pezzente, quante donne darebbero l’anima  al posto tuo” dice spesso mia zia, sorella di mio padre. Credo che abbiamo un opinione diversa di ricchezza. La ricchezza la si cerca dentro di se, non nelle cose materiali. “Venderebbero l’anima al diavolo per essere ricche soltanto quelle ragazze tremendamente vuote d’animo. Io do valore all’essenza di una persona e questo mi basta per la vita per essere ricca”.  Le rispondo. Il mondo del lusso è ormai un lontano ricordo per me, questo non vuol dire che non mi prendo più cura del mio aspetto estetico ma non ne faccio più un ossessione o l’unico scopo della vita. Adesso vivo a Roma con il m io ragazzo per di più  mio compagno di università e per vivere lavoriamo nel week end, io come barista e lui come cameriere in un pub.  Siamo felici.

Non ti mancano i tuoi vecchi amici e la tua vecchia vita?

No, perché  i miei vecchi amici sono persone che non ti lasciano niente nel profondo. Spesso capita che può mancarti una persona che hai frequentato per pochi mesi e invece non sentire alcuna mancanza per una persona che hai vissuto anni e anni. Ciò che ti regala una persona non equivale al tempo che ci trascorri insieme ma a ciò che ti lascia nel profondo.  I miei nuovi amici sono persone sensibili.  Il mio vecchio stile di vita non mi manca nemmeno un po’. Continuare a Vivere in quel  mondo di apparenze mi avrebbe rovinato la vita e avrei represso tutto ciò che sento e che realmente sono.  Tre mesi fa ho scoperto di essere incinta  e ne sono felice anche se ancora non ho terminato gli studi, ma avere accanto un giusto compagno di vita, giuste amicizie e soprattutto un nuovo quanto giusto modo di vedere la vita, mi fa sentire sicura di me e avere la certezza di potercela fare. E poi non vedo l’ora di stringerla tra le mie braccia e insegnarle le cose importanti della vita.

Quali saranno le prime cose che insegnerai a tua figlia?

Guardare la vita attraverso il cuore. E poi le spiegherò il significato della parola empatia, perché  dovrà  cercare sempre di mettersi nei panni degli altri prima di giudicare; che dovrà  valutare le persone per come sono nel profondo e non solo per ciò che fanno e rispettare il prossimo, chiunque esso sia, qualunque lavoro faccia,  e da qualunque paese venga; che deve fare del bene o che almeno non deve fare del male.  Le dirò che deve tanto a chi merita,  che deve accettare i suoi limiti e non avere paura delle sue debolezze e di apprendere soltanto da chi crede sia migliore di lei, senza provare invidia, perché lei sarà capace di raggiungere ogni obiettivo alla pari di qualsiasi altra persona. Ed ancora di essere responsabile e razionale nelle scelte importanti della vita ma di prenderne qualcuna anche di pancia perché vivere e lasciarsi trasportare dalle emozioni e fare qualche follia certe volte fa bene al cuore e ti fanno sentire viva. Le dirò di raggiungere i suoi obiettivi, qualsiasi essi siano, ma di non farne un dramma qualora non dovesse riuscirci perché se non è brava in una cosa magari lo è in un’altra, m di provarle tutte prima di arrendersi.  E ancora che non è necessario piacere a tutti.  Non per forza.   Di non accontentarsi mai di un’amicizia ne tantomeno di un amore; che una piccola parte di sé rimanga sempre bambina perché a volte la vita diventa pesante e c’è bisogno di un po’ di leggerezza, almeno la giusta dose. Le insegnerò ad essere umile e gentile, ma sveglia e scaltra. E, ancora, ad avere gli occhi aperti su tutto e tutti e se qualora qualcuno dovesse ferirla le spiegherò che dovrà,  in un qual modo, trarre il lato positivo, perché è meglio essere troppo buoni che troppo cattivi. Le dirò che ogni tanto potrà anche vivere fuori dagli schemi, fuori dalle regole che impone la società; che la vita è sua e nessuno deve dirle come deve condurla.  Ma l’unica cosa che non dovrà mai dimenticare è che la sia mamma sarà sempre dalla sua parte.

Te la sentiresti di dare un consiglio a chi vuole cambiare vita?

La prima cosa da capire è che bisogna ignorare il giudizio degli altri altrimenti si finisce per condurre una vita che non sentiamo nostra. È la cosa più sbagliata del mondo. Bisogna essere se stessi e sentirsi a proprio agio prendendo scelte che ci rendono felici. Anche se nella vita ci saranno spesso situazioni difficili da affrontare o cose che faremo con meno piacere, è inevitabile. Ma nessuno deve decidere per noi. Ho l’impressione che molte persone abbiano paura di mostrarsi  per come sono e di parlare col cuore e di lasciarsi andare. Assumono un atteggiamento palesemente ovvio ai fini di volersi proteggere senza rendersi conto che così non vivono davvero.  Per intelligenza nelle sfera sentimentale si intende, oltre ad avere la mente aperta, anche vivere col cuore per vivere realmente ciò che si vuole.  Se si diventa forti e sicuri di sé si può anche mostrare per ciò che si è davvero senza paura di essere distrutti o giudicati da chi vive in un mondo di clichè. Perlomeno questo è quanto ho capito. Basta solo un po’ di coraggio, e non dimenticarci di vivere mentre viviamo.

Alessandra Federico

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