Coronavirus, aumento della violenza sulle donne. Come riconoscere un uomo violento

Aumentano i casi di violenza sulle donne durante il periodo Coronavirus. Centodiciassette le vittime di violenza in Italia durante la quarantena e il 90% sono donne. La convivenza forzata è stata una complice per questi uomini violenti. Non è facile riconoscere l’uomo aggressivo e manipolatore poiché bravo a raccontare una storia perfetta di sé e diventa difficile, per chi subisce violenza, trovare il coraggio di lasciarlo o di denunciarlo.

L’uomo violento, però, manda segnali ben evidenti sin dal primo approccio, bisogna quindi imparare a riconoscerlo per evitarlo: quando la sua va oltre la semplice gelosia, quando vuole possedere anziché amare perché l’uomo aggressivo, violento e narcisista vuole solo manipolare la sua donna. Liberarsene non è semplice soprattutto quando decide di perseguitare la sua vittima recitando la parte dell’uomo affranto per ricevere perdono e ottenere ciò che si era prefissato:gestire la vita della sua preda. Esistono però metodi per riconoscere un uomo violento sin dal primo contatto.

Come riconoscere un uomo narcisista e violento

Non è facile, per chi lo vive, uscire da questo incubo, soprattutto quando si ha a che fare con un uomo manipolatore. Quest’ultimo prende il nome di narcisista, colui che danneggia la vita della propria donna in tutte le tipologie di rapporto, sminuendola e non permettendole di percepire il suo valore. Assorbe le sue energie vitali per appropriarsene ed utilizzarle a proprio vantaggio. Il narcisista si crea un’altra identità, mostrandosi, rispetto agli altri uomini, gentile, rispettoso, premuroso. Parla tanto di se raccontando storie positive sul suo conto e di quanto sia una persona impeccabile, in modo da poter conquistare la totale fiducia della sua preda e deviare ogni ipotetico sospetto. Ha un solo obiettivo: diventare insostituibile, in modo tale da essere indispensabile per la sua vittima, tanto da togliere a lei ogni capacità di muoversi da sola, fino ad arrivare a manovrarla come un burattino muovendo i fili a suo piacimento. Una recita perfetta quella che esegue, e quando è davvero sicuro di avere la situazione sotto controllo, inizia a gestire la relazione imponendo regole, diventando offensivo fino ad arrivare alla violenza fisica, alcune volte arrivando ad ucciderla.

L’amore verso se stessi

Il narcisista non è il solo a non provare affetto, ma chi subisce violenza è una persona fragile trovatasi in un periodo della vita in cui si ama e si stima ben poco, ma quando l’amore verso se stessi raggiunge un livello alto, nasce l’esigenza di amare solo chi ci fa del bene e si da il permesso di far entrare nella propria vita solo persone all’altezza di ciò che si merita.

Amare se stessi non significa peccare di presunzione cercando di sminuire gli altri per sentirsi importanti o ripetere in continuazione quanto si è perfetti, come fa un narcisista, perché questo non fa altro che trasmettere a chi abbiamo accanto di essere persone insicure e deboli in continua ricerca della approvazione degli altri.

Amarsi e rispettarsi

Amarsi significa essere consapevoli del proprio valore, al di là della posizione economica o culturale, significa conoscere il valore del proprio animo. Se questo non avviene, può portare ad assumere atteggiamenti di vittimismo e avere complessi di inferiorità diventando una persona fragile o crudele a seconda del proprio carattere, della propria indole. Inoltre, cosa fondamentale, non bisogna dare valore alla propria persona secondo un fallimento o un successo: il tuo lavoro o la tua posizione economica non fanno la persona che sei. Non permettere che i giudizi degli altri possano in qualche modo far oscillare il pensiero che si ha di se stessi.

Un’alta autostima si costruisce quando si è consapevoli delle proprie capacità. Inizia ad amare te stessa viziandoti un po’: prenditi cura del tuo aspetto e della tua salute, premia i tuoi sforzi, realizza i tuoi sogni, non badare mai al giudizio degli altri se non lo ritieni costruttivo per il tuo percorso, apprezzati, perdonati.

Come liberarsi di un uomo violento

Quando Narciso è sicuro che la preda sia di sua proprietà arriva ad assumere un atteggiamento poco equilibrato, perché sa ormai che può gestire la situazione e passerà poco prima che arrivi al primo schiaffo per poi perdere completamente il senno della ragione.

L’unico modo per liberarsene non è andargli contro ma fingere di assecondarlo. Contraddirlo potrebbe suscitare in lui la paura di non avere più il controllo sulla vita della vittima e arrivare a compiere atti davvero pericolosi. Mantenere la calma, continuare ad elogiarlo e allontanarsi con una scusa banale come quella di andare a comprare qualcosa per la cena è l’unica soluzione, anche se molto coraggiosa, per uscire e rivolgersi alla polizia.

Via dall’incubo: intervista a una ragazza vittima di violenza

“Perché queste donne non scappano?”. Questa è la domanda che molte persone pongono quando una donna è vittima di violenza. Dove c’è maltrattamento, dove c’è inganno, dove si vive nel terrore non c’è amore. Quando un uomo è aggressivo, qualsiasi atteggiamento può indurlo alla violenza e nel momento in cui accade lui non conosce limiti.

 “Non riuscivo a liberarmene, ogni volta che lo lasciavo mi perseguitava”.
Con queste parole Sveva, 26 anni, napoletana, racconta la sua esperienza con un uomo violento.

Qual è stato il primo segnale che ti ha fatto percepire di avere accanto una persona violenta?

Avevo 17 anni quando l’ho conosciuto. Mi trovavo a Ostuni, in Puglia, con la mia famiglia per le vacanza estive e Marco era il classico ragazzo della porta accanto, anche se solo per due settimane. Ogni sera, alla stessa ora, si sedeva sul secondo gradino della scalinata di legno che portava al mare e una volta passando di li mi domandò: ‘che abiti indossi quando esci sola con le amiche?’. Ecco, per me questo è stato il primo segnale. In quel momento non diedi peso a ciò che mi stava domandando, ero solo felice perché mi aveva notata e per me voleva significare che apprezzava il mio corpo. Ma ad oggi molti dei suoi comportamenti mi sono del tutto chiari, stavo avendo a che fare con un uomo aggressivo e manipolatore: un narcisista.

Quando ha iniziato a manipolarti e a diventare aggressivo?

Era il 15 agosto e davano una festa in spiaggia con tanto di chitarra e falò. Io indossavo il mio solito costume da bagno: un due pezzi rosa ricamato a uncinetto. ‘Non ti permettere più di farti vedere dai miei amici con questo costume!’. Pensavo che le parole di Marco fossero dette per amore. Mi sbagliavo. E da quel momento schiaffi, calci, pugni, almeno una volta alla settimana. Decideva lui quale abito dovevo indossare, chi dovevo frequentare e mi accompagnava a scuola la mattina, e a casa dopo la scuola, così come per la danza o per qualsiasi altra cosa io dovessi fare. Era diventato un incubo. Un incubo dal quale non riuscivo a uscirne. Non avevo il coraggio di lasciarlo: è stato il mio primo amore, se tale si può definire.

Quanto tempo è durata la vostra storia?

Un anno, dopodiché i miei genitori iniziarono a rendersi conto della situazione perché tornavo a casa con lividi e graffi sul corpo e la cosa si ripeteva ogni settimana. Decisi di lasciarlo ma non mi lasciava in pace. Me lo ritrovavo ovunque, in qualsiasi posto che frequentavo: fuori scuola,sotto casa, fuori scuola di danza.

Cosa ti impediva di scappare?

Credevo di amarlo. E quando credi di amare qualcuno saresti capace di perdonare tutto, anche l’imperdonabile e andare avanti, ma non è così. Con il tempo ho capito che per colpa sua avevo smesso di amare me stessa e che era tutto un suo piano strategico per avere il comando della mia vita. Credo che bisogna amare se stessi prima di amare un’altra persona, in modo da non permettere a nessuno di trattarti cosi, altrimenti si finisce a non riconoscere l’amore e a confonderlo con l’ossessione.

Hai mai pensato di denunciarlo?

Sì, ma non ne ho mai avuto il coraggio né la forza mentale per farlo, non avevo più energie per fare nulla. Mi aveva rubato tutto, anche la voglia di vivere. Per fortuna al mio posto ci hanno pensato mia madre e mio padre, che vedendomi tornare a casa per l’ennesima volta con lividi sulle braccia, hanno deciso di incontrare i suoi genitori e raccontare loro tutto, dicendogli che se Marco si fosse riavvicinato a me avrebbero chiamato la polizia. Non ne ebbi più alcuna traccia. Non ricevevo più quei messaggi minacciosi, né una lettera, né una telefonata. Potevo sentirmi libera di uscire con le mie amiche, andare a danza o a scuola senza vivere con il terrore di poter incontrare la persona che mi stava annullando l’esistenza.

Ti va di dare un consiglio alle donne che come te hanno subito violenza?

Al primo gesto di prepotenza, alle prime parole offensive, scappate via. La violenza psicologica è anche più pericolosa di quella fisica, alle volte. Non aspettate che vi facciano del male fisico, perché se arrivano a criticarvi e ad utilizzare parole offensive nei vostri confronti qualunque cosa voi facciate, non passerà molto tempo che arrivino alla violenza fisica. Non vi amano.

 

Aiuta te e le altre donne ad uscire da questo incubo

Per aiutare le donne vittime di violenza, il 9 e 10 marzo scorso si è svolto un percorso esperienziale dal nome “Il labirinto“, organizzato dalla Fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, in cui hanno insegnato a molte donne a riconoscere un uomo violento in soli 10 minuti. Ci sono tanti percorsi da poter fare per riuscire a liberarsi di un uomo violento e trasformando la propria esperienza in risorsa: Aiuta te e tutte le donne ad uscire da questo incubo.

Il Centro Antiviolenza del Comune di Venezia, dal 2013 ogni anno mette a bando parte delle sue attività. La cooperativa Novamedia Onlus offre un percorso di formazione che promuove la rielaborazione e trasformazione dell’esperienza negativa per loro stesse e per altre donne. Percorso formativo per le donne che vogliono aiutare altre donne ad uscire dalla violenza. Tutti dovrebbero comprendere il terribile calvario delle vittime di violenza, l’oppressione che subiscono e di cui sono prigioniere, la morte alla quale è condannata una donna.

La violenza domestica colpisce una donna su tre nel corso della propria vita. Centosedici donne all’anno muoiono in Italia. Otto donne su dieci non sporgono denuncia.

L’amore deve far gioire. L’amore non è sofferenza.

Alessandra Federico

Il Benessere delle Donne, se ne parla con Napoli è

Domani pomeriggio 26 marzo alle ore 16, si terrà presso la Fondazione Casa dello Scugnizzo in Napoli (piazzetta San Gennaro a Materdei, 3), l’incontro dal titolo “Il Benessere delle Donne” iniziativa organizzata dall’Associazione Culturale Napoli è, presieduta dal giornalista Giuseppe Desideri, ed inserita nel programma “8 marzo 2019 Non solo Mimose” promosso dalla Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Napoli.

E sarà proprio Isabella Bonfiglio, Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Napoli, ad aprire i lavori dell’incontro. Seguiranno i saluti di Antonio Lanzaro, Presidente Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus e Giuseppe Desideri, Presidente Associazione Culturale Napoli è.

Interverranno: Assunta Landri, Psicologa-psicoterapeuta; Antonella Verde, Avvocato – Consigliera FoCS; Raffele Picardi, Presidente Associazione Italia PER il Mondo; Enzo Grano, Massmediologo; Maria Aprile, Presidente Associazione Donne a confronto; Matilde Colombrino, Assistente sociale, Spazio Donna FoCS; Pina Canestrelli, Artista.

Saranno presenti gli Amici dell’Associazione Rinascita Artistica Partenopea e gli Amici del Cenacolo “Napoli è”.

A moderare gli interventi la giornalista ed esperta di politiche di genere e pari opportunità a livello nazionale, Bianca Desideri.

Un momento di interessante confronto per parlare delle Donne e promuovere una sana cultura perché il benessere e la salute psico-fisica delle Donne sia al centro delle azioni concrete nella nostra società.

 

Marzo Donna 2019: prima edizione di  “Felice di Essere…” alla Municipalità 2

Nell’ambito della rassegna ideata e promossa dal Comune di Napoli Marzo Donna 2019 – Se tutte le donne del mondo…”, la Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni di Volontariato della Municipalità 2 di Napoli presenta la prima edizione di “Felice di essere…”, incontro aperto al pubblico per omaggiare la donna ed esaltare il ruolo della stessa all’interno della società.

L’evento, patrocinato dalla Municipalità 2 del Comune di Napoli, si svolgerà mercoledì 27 marzo dalle ore 10:00 alle ore 13:00, presso la Sala della Pace e della Solidarietà della Municipalità 2 (Piazza Dante, 93 Napoli) e vedrà – in uno all’adesione delle scuole I.C. VI Circolo Fava-Gioia e I.I.S.G. Marconi di Giugliano in Campania – l’intervento delle associazioni presenti sul territorio e la partecipazione della cittadinanza al dibattito/confronto, attraverso le arti e il “dialogo”.

Programma

Porteranno i saluti, Francesco Chirico, Presidente della Municipalità 2 di Napoli, Giovanna Farina, Presidente della Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni di Volontariato, Municipalità 2, Assunta Bottone, Dirigente scolastico del I.C. VI°circolo Fava – Gioia, Giovanna Mugione, Dirigente Scolastico I.I.S. G. Marconi di Giugliano in Campania eAssunta Cimminiello, assessore alla Scuola e Welfare Municipalità 2.

La manifestazione si aprirà con la video proiezione del brano musicale “Mi sento bene”, a seguire l’Associazione Psicologi in Contatto Onlus, con il Dott. Salvatore Rotondi, Presidente e la dott.ssa Alice Carella, psicologa psicoterapeuta psicodrammaticista, proporrà “Le forme archetipali del Femminile”, drammatizzazione di eventi recitati e narrati sulla capacità creativa e generatrice femminile in generale e della donna in particolare.

Gli alunni della III F dell’I.I.S. “G. Marconi” di Giugliano in Campania si confronteranno con “Felici di essere… protagonisti del nostro tempo”, reading poetico ispirato al personaggio di Frida Kahlo con la presentazione di alcune creazioni di moda realizzate durante il percorso formativo in un dialogo confronto con l’Associazione Napoli è e con la dott.ssa Bianca Desideri, la dott.ssa Assunta Landri, l’avv. Antonella Verde, la prof.ssa Paola Boggi ed il prof. Francesco Marsicano.

Il dibattito proseguirà con la video proiezione de “L’Arte dei laureati”, storytelling con Sara Montenera e Fabiana D’Iglio de l’Arte dei Laureati – laboratorio artigianale di ceramiche e con l’Associazione Donne Architetto – Napoli che esporrà “In salute e in Sicurezza”, riflessioni pratiche sostenibili con l’arch. Emma Buondonno presidente, l’arch. Giovanna Farina e l’arch. Rossella Russo.

Il terzo momento della manifestazione vedrà l’intervento dell’Associazione NomoƩ Movimento Forense con “Le voci delle donne”, reading poetico/letterario e body painting partecipativo/simbolico a cura dell’avv. Argia di Donato, Presidente, “Donne a colori” performance poetica a cura degli studenti della VE dell’I.C. VI°circolo Fava – Gioia con la prof.ssa Elena Varriale, poeta (referente Area didattica) e “La felicità delle donne: una vittoria di squadra” con l’avv. Emanuela Monaco, Segretario.

Chiuderà l’incontro, la performance a cura della sinergia tra l’Associazione Ritual Project Procida e l’Associazione Centro Antiviolenza Teresa Buonocore OnlusBalliamo sul mondo”, danza  tradizionale del sud del mondo con l’avv. Claudia Esposito, Presidente.

Sono previsti gli interventi della dott.ssa Sabrina Acampora psicologa, della dott.ssa Maria Alifuococonsigliera Commissione Scuola Municipalità 2,  di Chiara Carlomagnoeducatrice, di Lino Cavallaroartista presidente emerito dell’Associazione Rinascita Artistica Partenopea,  della dott.ssa Clara Capraro – Coordinatrice GPA Municipalità 2, di Francesco Grandullo –Presidente Commissione Scuola e Pari Opportunità Municipalità 2, della prof.ssa Cristina Morone, del Prof. Antonello Picciano, del Dott. Federico Ponepsicologo, degli Amici del Cenacolo Poetico Napoli è, del prof. Livio Severino e del prof. Carlo Valledocente I.I.S. “G. Marconi” di Giugliano in Campania.

 

 

 

 

Il trauma erotico affettivo. A Porto Torres l’otto marzo con Pier Pietro Brunelli

“E quando tutto sembra perduto, quando il dolore diventa insopportabile e ci si sente di impazzire, di essere precipitati in un inferno dal quale non si uscirà mai più, bisogna ricordarsi che quello che si sta vivendo nella carne della propria anima, sono le spine di rovi che presto potranno trasformarsi in rose.”

La chiosa di Eliana Loi fa sua una citazione intrisa di poesia e speranza che termina un otto marzo da ricordare e rilanciare a Porto Torres come in tutto il Paese.

I versi scelti sono tratti da un altro libro dell’ospite arrivato da Milano nel profondo e sempre più isolato nord Sardegna, nel giorno dedicato alla donna.   “Amori distruttivi e vampirizzati”, il titolo di uno dei saggi più indicativi nella ricerca e nella professione di Pier Pietro Brunelli.

Psicologo e psicoterapeuta, iscritto all’ordine degli Psicoterapeuti della Lombardia, Brunelli da molti anni lavora sulla diagnosi e la cura dei traumi amorosi.  Dopo la prima laurea conseguita al DAMS di Bologna con il professor Umberto Eco e una specializzazione all’Università Cattolica in Comunicazioni Sociali, gli studi e la laurea in Psicologia approfondiscono la Psicoterapia analitica junghiana che mettono lo studioso come un referente di primo piano in Europa.

I percorsi di auto analisi condotti da Brunelli approdano in situazioni socio-terapeutiche che, attraverso la ricerca e la conoscenza di se stessi, favoriscono l’approfondimento animista grazie all’interazione con altre discipline artistiche dei linguaggi umani, con uno sguardo privilegiato al teatro e alla musica. Esperienze maturate con gruppi laboratori ali arricchiti dal confronto con alcuni profili di scuola internazionale. La prima attrice del Teatr Laborarium fondato da Jerzy Grotowsky in Polonia, Rena Mirecka ad esempio, assurge a stella polare.

Pier Pietro Brunelli, a suo agio in Sardegna dove coniuga l’attività professionale con meditazioni individuali nelle brevi escursioni vacanziere, fa il suo debutto a Porto Torres, ospite nel progetto PASSARE OLTRE… promosso dall’associazione A.G.D’H.O.S  diretta da Eliana Loi e Cristina Barletta.  L’incontro con il terapeuta, presidente del Collettivo culturale Albedo, chiude una trilogia d’appuntamenti pertinenti le dinamiche relazionali, inaugurati il 3 dicembre 2017 con la professoressa Flavia Dragani e proseguiti lo scorso trentuno agosto con la partecipazione della criminologa Cinzia Mammoliti.

La conferenza intitolata “Il trauma erotico – affettivo” si consuma nella serata dell’otto marzo presso le Tenute Li Lioni, sponsor dell’iniziativa insieme alla struttura alberghiera Il Melo di Porto Torres.  La coincidenza della data sdogana o prova a farlo, una serie di stereotipi che ricorrono puntuali non solo in coincidenza dell’otto marzo quanto nella cronaca quotidiana, macchiata irreversibilmente dal rosso del sangue femminile versato (in troppi eventi di maltrattamenti, vessazioni sino ai più efferati femminicidi), rispetto a tante sfumature o disquisizioni in rosa sul ruolo della donna. Davanti ad una platea di circa settanta persone in larga maggioranza donne (a conferma del radicamento culturale stereotipato), Brunelli affronta il nucleo delle criticità affettive nei rapporti di coppia come in qualsiasi altro nucleo familiare.  “Se la donna ha acquistato la sua liberazione sessuale, la liberazione del cuore è il programma per i prossimi cinquanta anni.” Da questa enunciazione il confine labile con la sfera delle relazioni sentimentali squilibrate è varcato con una narrazione fluida che intercetta la concentrazione unanime dei presenti. I concetti di “vampirizzazione” enunciati nello stesso libro citato in apertura, fanno il paio con efficaci metafore della mitologia greco romana richiamate nell’ultimo pamphlet di Andrea Camilleri (Conversazioni su Tiresia, Sellerio Editore).

Analizzando le fasi e i comportamenti tipici, ben noti in un’ampia percentuale della società italiana, sale l’attenzione in sala sulle definizioni codificate nel DSA, spesso svalutate in una vulgata non sempre adeguata anche e soprattutto dai media.  In particolare Brunelli destruttura l’archetipo del “narcisista” dimensionandolo su un profilo molto diverso secondo i casi trattati. Molti quelli con situazioni complesse dove i “mostri” o le “vittime” non appaiono con norme definite. Una “questione idiopatica” nel pensiero di Brunelli che racchiude una serie di esperienze vissute con alcuni dei suoi pazienti nel suo ultimo libro, “Se l’amore diventa un inferno” (Rizzoli 2016).  Il testo si rivela come uno strumento utile a riconoscere e prevenire dinamiche disturbate e relazioni tossiche. Una serie di testimonianze emerse anche nel forum online moderato dallo stesso Brunelli attraverso il suo blog http://www.albedoimagination.com/ si dissolvono rapidamente oltre tre ore dove il dibattito è sostenuto da molte domande dei partecipanti. Emerge l’approccio Junghiano proposto dal relatore dove l’elemento sentimentale e animista dell’individuo esercita una percentuale decisiva nel processo di riabilitazione e guarigione del soggetto. Altra storia per i trattamenti terapeutici e l’impiego dei relativi operatori in un sistema di salute pubblica italiana inevitabilmente distante dagli standard di altri paesi occidentali.  I canali informativi circa l’approccio con queste patologie dell’anima sono sempre più importanti e necessari.

“Se un sorriso è neutralizzatore dell’aggressività, il vero antidoto è l’amore.”

La dichiarazione di Brunelli appare una certezza, in ogni caso un auspicio da perseguire.

Luigi Coppola

La “nave asilo” Caracciolo e l’esperienza di Giulia Civita Franceschini  

Un esperimento educativo del tutto particolare nacque a Napoli nel 1913, negli stessi anni in cui in Italia si andava diffondendo la navigazione a vapore e, assieme ad essa, una tradizione di scuole nautiche e formazione di figure specifiche che avrebbero dato lustro all’intera Nazione.

In quel contesto storico l’esperienza della nave asilo Caracciolo fu un unicum.

Grazie all’educatrice Giulia Civita Franceschini, quello che poteva rimanere un semplice tentativo di togliere piccoli scugnizzi dalle strade e farne manovalanza per i cantieri marittimi di Castellammare di Stabia e per le navi, si trasformò in un’impresa pedagogica unica che attirò l’attenzione e i complimenti, tra gli altri, di Maria Montessori, Enrico Ferri, Edouard Claparède.

La memoria di questa esperienza scolare è oggi conservata in un ricco archivio costituito da molte  foto e lettere, materiale a stampa, documenti ufficiali, materiale relativo all’istituzione, all’amministrazione e alla gestione della nave, nonché appunti personali e minute di Giulia Civita e testi di interventi pronunciati in manifestazioni pubbliche; tutto materiale preziosissimo di proprietà di Ornella Labriola, deceduta nel 1991, e per sua volontà pervenuto al Museo del Mare di Napoli attraverso i discendenti di un “caracciolino”, Gennaro Aubry, legato alla signora Giulia Civita Franceschini da un rapporto filiale.

Il progetto, ispirato dal principio del “mare redentore” che influenzò la Franceschini, si svolse dal 1913 al 1928 e consentì alla donna di salvare dalla delinquenza e dall’abbandono più di 700 bambini che sulla Caracciolo vivevano come in una comunità a se stante ed autonoma.

La Caracciolo si distaccava da un comune istituto di ricovero e si configurava piuttosto come una particolare modalità di adozione. Gli accolti infatti erano considerati i figli adottivi di una famiglia culturale, non biologica. In tal modo Giulia volle rovesciare lo statuto del bambino orfano o abbandonato, privo di una rete di protezione familiare, predisponendo intorno a questo soggetto debolissimo un ambiente protettivo, vicario della famiglia, il più possibile lontano dalle atmosfere del riformatorio e dell’orfanotrofio.

La prova più efficace del successo di questo modello sta nelle parole della stessa Giulia che a distanza di anni, ripensando ai suoi “caracciolini” e al legame affettivo che continuava a mantenersi vivo tra loro, scriveva:  “moltissimi hanno famiglia, qualcuno ha persino nipoti; eppure ancora, con affetto immutato, rammentano me e tutti coloro che con me collaborarono e che spianarono ad essi la via. […] Resta ancora tra loro, vivissimo, il senso di stretta fratellanza che, dopo tanti lustri, ancora prova che io ottenni quello che volli”.

Ciò che appare ancora attualissimo è la qualità della sperimentazione educativa che si attuò a bordo della nave. Essa si basava su principi avanzatissimi, soprattutto perché praticati in una realtà sociale in cui un intervento di tipo assistenzialistico era generalmente ritenuto più che sufficiente. Al contrario, Giulia Civita non si accontentò di una mera forma di assistenza né di un esclusivo addestramento ai lavori marinareschi: i ragazzi venivano lasciati liberi di scegliere i compiti da svolgere, seguendo le proprie inclinazioni; a tutti i marinaretti, poi, non appena in grado di scrivere, veniva chiesto di mettere per iscritto un racconto della propria vita, anticipando il modo in cui oggi viene intesa la narrazione autobiografica nei percorsi di crescita, ed ancora, il rapporto con gli animali, di cui prendersi cura, aveva un ruolo importante nel percorso educativo sulla Caracciolo.

Questi elementi, assieme ad altri, fecero del progetto di Giulia Civita Franceschini un unicum irripetuto nella storia italiana, che l’avvento del Fascismo interruppe, purtroppo, bruscamente, assimilando gli sforzi della donna nel sistema educativo corporativo.

Rossella Marchese

 

 

 

Contro la Violenza sulle donne

Organizzato da Cinzia Del Giudice, Valentina Barberio, Anna Cigliano e Giorgio Cinquegrana, oggi, al Vomero, alle 10,30, nella Sala “Silvia Ruotolo” della Municipalità, convegno dal titolo “Violenza sulle donne: la rete territoriale e la costruzione di percorsi integrati”.
Copiosi gli interventi previsti, dal presidente della V Municipalità, Paolo De Luca, al direttore dell’Azienda Ospedaliera Cardarelli, Ciro Verdoliva, ad Elvira Reale, di Centro Dafne, Fiorella Palladino e Flora Verde, di Percorso Rosa, Simona Marino e Roberta Gaeta, del Comune di Napoli, il fondatore dell’associazione “Maschile Plurale”, Alberto Leiss, e, delle Forze dell’Ordine, il vice commissario Lidia Pastore ed i comandanti Luca Mercadante e Gaetano Frattini.

Fernana: la capitale delle bambine domestiche

 

In Tunisia circa il 10% dei minori tra i 5 e i 17 anni, lavora, nonostante la legge lo vieti; mentre i bambini vengono impiegati generalmente nel commercio e nell’agricoltura, alle bambine tocca una sorte diversa, impiegate come domestiche presso ricche famiglie alle quali vengono vendute in cambio di soldi sicuri e costanti.

Fernana, una città di 5mila abitanti, nel nord-ovest del Paese, è considerata la capitale di questa tratta; lì avvengono le trattative e lo scambio delle “merci”. Questo è un altro volto della Tunisia: povero e marginalizzato, dove i più deboli, in questo caso bambine tra i 9 e i 10 anni (questa è la fascia di età preferita dai padroni), vengono brutalizzate a colpi di legnate per imparare a pulire o a badare ad altri bambini, figli più fortunati di loro, ma anche seviziate e violentate. Alcune di queste bambine non riescono a superare il trauma e si suicidano.

Il problema esiste, anche se le autorità che prima tolleravano oggi cercano di attrezzarsi per combatterlo, ma la questione è ancora sentita come un enorme tabù. Quasi sempre sono le famiglie a tacere ed insabbiare, anche se è risaputo che le bambine vendute per fare le domestiche subiscono di tutto nelle case che le accolgono.

Lo scorso anno, però diversi casi hanno rotto il silenzio. Proprio a Fernana è stato fondato un gruppo di attivisti che si occupa di monitorare il territorio e denunciare casi sospetti di sparizione di minori; una decina di abitanti, inoltre, si sono riuniti e hanno organizzato una manifestazione per denunciare il lavoro domestico delle bambine: era la prima volta che Fernana vedeva una tale iniziativa.

Slah Hyadri, il commissario regionale per la donna, il bambino, la famiglia e gli anziani, nella regione di Jenduba, ha preso molto sul serio il problema, parlando con le madri delle bambine ed integrandole in  un programma per impedire che le figlie siano costrette a lavorare.

A luglio 2017 il Parlamento ha votato all’unanimità una legge contro le violenze sulle donne, una parte è dedicata specificamente al lavoro delle minorenni.

Il problema è storico, come ammette anche Neziha Labidi, la Ministra della Donna, della Famiglia e dell’Infanzia: «la sfida più grande che abbiamo è sensibilizzare i genitori che pensano solo a guadagnare soldi ma anche gli intermediari e questo per noi è un modo di lottare contro la violenza e la corruzione».
Nel febbraio 2017, la Tunisia si è dotata della sua prima piattaforma nazionale contro la tratta degli esseri umani. Il caso delle lavoratrici domestiche è uno dei più classici che gestisce.

Due numeri verdi e un sito internet ricevono le segnalazione che ogni cittadino può fare.

Nel 2016, al livello nazionale, i servizi di protezione dei minorenni hanno ricevuto 141 segnalazioni di bambini sfruttati lavorativamente, una cifra stabile, mentre sarebbero più di 200mila i minorenni che lavorano nel paese.

Rossella Marchese

La House of Sharing a Seoul, per non dimenticare

Si tratta di una casa di riposo a tutti gli effetti, ma le sue ospiti sono davvero particolari. Sono le superstiti della Seconda Guerra Mondiale, le comfort women che l’esercito nipponico utilizzò come schiave del sesso al fronte per soddisfare i propri soldati.

Una ospite della struttura, ad esempio, nacque da una famiglia di umili origini. Non poté studiare e appena adolescente venne messa a servizio presso una famiglia abbiente. Nel 1942, mentre camminava per strada, venne rapita da due uomini, un coreano e un giapponese, e portata a Yanji, nel nordest della Cina, dove venne impiegata in una comfort station e costretta a prostituirsi per l’esercito giapponese, allora di stanza in Manciuria. Lavorò nel bordello di Yanji per tre anni e, a causa delle ripetute iniezioni di medicine contro la sifilide, divenne sterile. Liberata dalle truppe americane, alla fine della guerra rimase in Cina, dove si sposò con un coreano conosciuto a Yanji, anch’egli costretto dai giapponesi a servire nell’esercito. Si stabilì con lui a Baodaozhen, nella provincia dello Jilin, ma allo scoppio della guerra di Corea il marito venne di nuovo arruolato e scomparve nel nulla. Si risposò di nuovo dopo dieci anni e nel 2000, alla morte del secondo marito, rientrò finalmente in Corea del Sud andando a vivere nella House of Sharing, tirata su nel 1992 attraverso una raccolta fondi di gruppi civici e diverse organizzazioni buddiste che accoglie le halmoni (nonne), come affettuosamente vengono oggi chiamate in Corea del Sud le comfort women.

Anche le altre donne della House of Sharing hanno alle spalle una storia di deportazione ed orrore, ma rappresentano la parte delle favorite dalla sorte che, scampate al conflitto mondiale sono riuscite, pur fortunosamente, a fare ritorno nella loro terra natia; molte altre, la maggior parte, finita la guerra e con essa la loro utilità, dovettero continuare a prostituirsi per poter sopravvivere, oppure si uccisero per la vergogna o, semplicemente sparirono, inghiottite dall’indifferenza generale.

Si parla di circa 300mila donne, taiwanesi, thailandesi, filippine, indonesiane, ma soprattutto coreane,   rapite e deportate con la forza in Cina, dove l’esercito nipponico aveva necessità di consolidare la propria posizione durante la guerra, e impiegate come schiave del sesso nei bordelli gestiti direttamente dal governo di Tokyo. Il governo giapponese, infatti, impegnato nella conquista della Cina, pensò all’epoca di creare una rete di bordelli militari allo scopo di arginare il problema degli stupri contro la popolazione civile dei territori occupati, che causava non solo una perdita di immagine, preziosa per un paese che aveva come scopo il controllo di tutta l’Asia orientale, ma anche un fastidioso aumento delle malattie veneree tra i soldati stessi. La quotidianità nelle comfort station era scandita dalle visite: soldati semplici al mattino, graduati al pomeriggio e ufficiali la sera.

Per le superstiti di questo orrore, dunque, è stata creata una apposita struttura, una rete che protegge queste donne e tiene alta la memoria, visto che nella House of Sharing c’è anche un museo, The Museum of Sexual Slavery by Japanese Military, che racconta la storia di queste donne. Inoltre è proprio dalla House of Sharing che si rinnova ogni mercoledì, dal gennaio del 1992, la protesta davanti all’ambasciata giapponese a Seoul per chiedere le scuse ufficiali dal governo nipponico, che ancora tergiversa riguardo al suo coinvolgimento nella vicenda delle comfort women.

Rossella Marchese

L’emancipazione della donna nel mondo orientale

 Il tema è quanto mai complesso, ricco di sfaccettature che possono apparire anche poco comprensibili agli occhi dell’occidentale che legge la questione interamente sotto il lume dei movimenti femministi del Novecento, eppure il tema esiste, perché esiste la questione dell’emancipazione femminile per le donne  del medio e dell’estremo Oriente.

Prendiamo la storia dell’eroina baha’i Tahirih, nata da radici azere, simbolo ed ispirazione dell’Azerbaijan: è stata una campionessa per l’uguaglianza tra uomo e donna nel XIX secolo.

Fátimih Zarrín Táj Baragháni, o Táhirih, “la Pura” in persiano, fu una influente poetessa ed intellettuale, menzionata e riconosciuta come esempio di coraggio nella lotta per i diritti delle donne.

Lo scorso 25 gennaio, il Museo di storia nazionale dell’Azerbaigian ha tenuto una celebrazione per l’istruzione femminile nei secoli XIX e XX durante la quale sono stati riconosciuti la dedizione e i contributi di Tahirih all’avanzamento delle donne. “Tahirih è tenuta in grande considerazione. Non è famosa solo all’interno della Fede baha’i, ma è anche molto conosciuta e rispettata in tutto l’Oriente”, ha spiegato Azer Jafarov, professore dell’Università di Baku.

La poetessa che ha influenzato la letteratura moderna, perorato l’emancipazione delle donne e ha avuto un profondo impatto sulla coscienza pubblica oggi è studiata nelle scuole di tutto il Medio Oriente e la sua vita è portata come esempio di espressione del libero pensiero. La sua grande personalità, che le costò in vita la persecuzione e l’arresto per essersi battuta per vedere riconosciuta l’autonomia della fede baha’i rispetto all’Islam, di cui riconosceva il Corano ma rifiutava la Sharì’a, è stata omaggiata da scrittori cristiani, atei e musulmani. Ed oggi, non solo le donne dell’Est, ma tutte le donne possono imparare dal suo carattere e dalla sua vita cosa sia la libertà di pensiero, l’emancipazione delle donne e l’atteggiamento di ricerca indipendente della verità.

Oggi, infatti, la statua di una donna che si toglie il velo è stata eretta nel centro di Baku, una rappresentazione della storia di Tahirih.

Il monumento, noto come “la statua di una donna emancipata”, è stato creato nel 1960 dallo scultore Fuad Abdurrahmanov.

Rossella Marchese

 

Phyllis Omido, eroina keniota per i diritti civili, in Italia per la prima volta

In prima linea nella lotta contro l’inquinamento e lo sfruttamento di uomini e territori nel grande continente africano, questa è la missione di Phyllis Omido che nel 2012 ebbe il coraggio di denunciare la Metal Refineries Epz Ldt di Mombasa, che scaricava i suoi veleni industriali nei pressi della grande città costiera, favorita da un sistema di collusione tra politica e multinazionali.

Pur lavorando come impiegata della fonderia, nello slum Owino Uhuru di Mombasa, svolgendo  le proprie mansioni in ufficio e non a diretto contatto con i processi produttivi, il latte con cui allattava suo figlio risultò avvelenato dal piombo. Riuscì a salvare la vita al piccolo solo grazie a un’immediata assistenza medica, dopo che gli esami avevano riscontrato nel suo sangue una percentuale di piombo 35 volte superiore al limite stabilito dall’OMS. Così iniziarono le sue indagini alla ricerca della verità dietro quel male, rischiando più volte l’arresto e scampando ad un tentativo di rapimento; finché emerse che nel piccolo corso d’acqua che attraversava lo slum, l’azienda scaricava i rifiuti tossici prodotti dalle proprie lavorazioni. Da lì, l’impegno di Phyllis Omido contro gli avvelenatori della sua terra è diventato totale, coinvolgendo oltre 3.000 concittadini, vittime come lei, in una class action senza precedenti in Africa e fondando l’Ong “Center for Justice, Governance and Environmental Action”, diventata presto nota in tutta l’Africa, per i suoi sit-in e per le manifestazioni contro l’inquinamento che distrugge la terra e le genti del continente.

I media e le organizzazioni internazionali si sono interessati al suo caso, poi è venuto l’impegno dell’Onu e delle associazioni per i diritti umani. Phyllis Omido ha ricevuto nel 2015 il Goldenman Prize, il cosiddetto “Green Nobel”, destinato a coloro che si battono strenuamente per la difesa dei diritti umani, eppure, nonostante il risalto internazionale della sua opera,  rimane ancora bersaglio di minacce e intimidazioni che la costringono a cambiare casa continuamente per proteggere la propria incolumità e quella del figlio.

In questi giorni la Omido è in Italia, su invito del Consiglio Nazionale Forense, per raccontare la sua storia ed il suo impegno, e per ricevere il tesserino honoris causa direttamente dalle mani del Presidente Mascherin. Incontrerà, poi, alla Camera dei Deputati il Presidente Fico, con il vertice del CNF, prova che il riconoscimento e il sostegno per il suo operato arrivano anche dal nostro Paese.

Rossella Marchese

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