Lazzare e Felici alla Seconda Municipalità

Giovedì 15 marzo  alle ore 10.00 presso la Sala del Consiglio della Municipalità 2 proseguono gli eventi previsti nel calendario “Lazzare e Felici: la creatività delle donne per una città sostenibile” dedicato alle Donne in occasione del mese di marzo.

Aprirà i lavori il saluto di Francesco Chirico, Presidente Municipalità 2, modererà gli interventi l’architetto Giovanna Farina, presidente della Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni di Volontariato della Municipalità.

Seguiranno: “Donne per la città. Il volto femminile e creativo di Partenope” a cura dell’Associazione Culturale Napoli è con l’intervento della giornalista Bianca Desideri. “Il viaggio delle Donne. Focus sulla migrazione femminile a cura dell’Associazione Centro Antiviolenza Teresa Buonocore Onlus con l’intervento dell’avvocato Claudia Esposito. “Passato e presente a confronto” a cura dell’Associazione NOMOS Movimento Forense con l’intervento dell’avvocato Argia di Donato.

Alessandra Desideri

Marzo Donna della Seconda Municipalità

Un calendario ricco di eventi quello della Municipalità 2 presieduta da Francesco Chirico per il Marzo napoletano dedicato alle Donne. L’evento dello scorso 9 marzo organizzato a cura della Consigliera Maria Alifuoco e della Commissione Scuola e Pari Opportunità, ha trattato un tema importante, a partire dal documentario della bravissima Simona Cappiello per ripercorrere insieme una storia eroica, emozionante, una pagina sociale, prima ancora che politica, davvero poco nota, eppure esemplare: Una nazione in difficoltà l’Italia del secondo dopoguerra che si mobilita incondizionatamente per proteggere i figli di tutti!
Grazie allo sforzo di tante di donne che si attivarono anche politicamente nell’intento comune di dare una speranza alla parte più indifesa della popolazione.
Il documentario è ricco di testimonianze tra le quali  quella dell’ex sindaco di Napoli, il Senatore Maurizio Valenzi, e della moglie Litza Cittanova e la discussione è stata arricchita dalla presenza di Lucia Valenzi.

La provocazione dietro il quadro preraffaellita del museo di Manchester

 Lo scorso 2 febbraio è accaduto un evento alquanto insolito, che non tutti, compresi media internazionali e opinione pubblica di mezzo mondo hanno letto in maniera univoca: all’Art Gallery di Manchester, sotto disposizione della curatrice della collezione d’arte contemporanea del museo, mrs Clare Gannaway, è stato rimosso il dipinto del pittore preraffaellita John William Waterhouse, Hylas and the Nymphs, perché veicolatore di messaggi in contrasto con la campagna #metoo.

Inutile dire che la scelta ha provocato un dibattito di tale portata che non solo il dipinto è stato rimesso al suo posto, ma la Gannaway si è dovuta affrettare a spiegare quella che chiaramente voleva essere una provocazione e che, invece, è risultata un’azione poco riuscita e palesemente fraintesa.

Innanzitutto l’opera: Hylas and the Nymphs fu dipinto dal dotato Waterhouse nel 1896, una fantasia vittoriana frutto del clima artistico e letterario di quei tempi, tra romanticismo e decadentismo, che rappresenta il mito di Ila, il giovane amato da Eracle rapito e ucciso dalle bellissime Ninfe che lo trascinano nel fiume con loro.

Facendo riferimento ai sensuali ed adolescenziali corpi nudi delle giovanissime Ninfe ritratte, Clare Gannaway ha fatto tirare giù il quadro dalla parete ed al suo posto ha fatto esporre un avviso che spiegava dell’intento non di promuovere la censura ma di stimolare il dibattito; ma che tipo di dibattito? Forse una provocazione attorno ad una più generale visione del corpo delle donne nell’arte, degli artisti maschi e di coloro che di quell’arte hanno fruito, per lo più maschi.

Eppure si avverte qualcosa di difficilmente tollerabile nel gesto comunque quasi oscurantista della Gannaway; censurare un’opera d’arte che potrebbe offendere il moderno pudore di chi battaglia per la parità di genere apre, effettivamente, degli scenari quanto meno perturbanti e nuovi quesiti morali. È opportuno parlare di oscenità dei corpi, sempre, anche nell’arte? Fino a che punto si può rifiutare un’immagine?

C’è da rifletterci su.

Intanto, il caso di Manchester non è il solo; già in precedenza era stato censurato un dipinto di Balthus, Thérèse dreaming, che raffigura una ragazzina, pare, in atteggiamenti provocanti, esposto al Metropolitan Museum di New York, e contro il quale era stata lanciata una petizione da più di 8mila firme per la quale l’opera, realizzata nel 1938 dall’artista franco-polacco, doveva essere rimossa in quanto “promotrice di pedofilia”.

Si spera che questi atteggiamenti non diventino apparati specificamente preposti a prendere tali iniziative, ma rimangano appannaggio di singoli, e non trovino appoggio in professionisti inquadrati nelle istituzioni, più o meno compiacenti nel farsi pubblicità, che decidono di provvedere, per convinzione o opportunismo, in nome di un popolo in buona e cattiva fede.

Rossella Marchese

La libertà secondo Françoise Giroud

Françoise Giroud (1916-2003) è stata giornalista, scrittrice e attivista politica di origine ebrea. È stata vice-presidente del Parti radical-socialiste e due volte Segretario di stato; ha fondato Elle, nel 1945, e L’Express, nel 1953, con il collega e compagno Jean-Jacques Servan Schreiber. Senza dubbio una guerriera, o, come direbbero i francesi suoi compaesani, una vera maniaca dell’allure.

A 15 anni dalla sua morte, le sue parole e il suo stile giornalistico asciutto ed incisivo, rimangono l’eredità più grande.

La sua biografia, scritta nel 1960, ma uscita postuma nel 2013, inizia con questa frase: “Io sono una donna libera. Sono stata, e dunque posso essere, una donna felice… Esiste qualcosa di più raro al mondo?

Ma come può parlare di felicità una donna che ha sofferto la separazione intollerabile dall’uomo della sua vita, il collega Jean-Jacques Servan-Schreiber, per il quale ebbe anche a tentare il suicidio? Una donna costretta a lasciare il settimanale L’Express, il primo periodico innovativo europeo che lei stessa aveva fondato assieme al compagno; una donna devastata dalla depressione dopo la fuga forzata da Parigi verso la Provenza e poi verso Capri? Può farlo perché, come dice lei stessa: “essere libera vuol dire anche accettare di perdere”.

La Giroud non è stata mai afflitta da mediocrità o disinteresse. Immigrata, partigiana, cineasta e soprattutto giornalista della femminilità prima ancora che giornalista del femminismo, fu sempre divorata da un’autentica passione per la liberazione della donna, tant’è che il combattere è stata la componente fondamentale della sua personalità. Crebbe allevata nel principio che nulla è mai facile, niente è scontato e tutto è da conquistarsi e da difendersi. In effetti non si può comprendere la scrittura fatta di frasi brevi, di paragrafi snelli e ricchi di citazioni letterarie di Françoise Giroud se si trascura il fatto che il suo ambiente, la sua famiglia (di media borghesia), il suo sesso e le sue origini erano da lei considerati degli ostacoli. Perciò bisognava essere la migliore per entrare di merito in quegli ambienti mondani della Tout-Paris, come lei li definiva ironicamente, e che tante volte descrisse e recensì dalle pagine dei suoi settimanali in modo enigmatico e polemico, combattuta tra il volerne far parte e riuscire ad emergerne completamente.

Alla fine della sua vita dichiarò apertamente la necessità che le donne dovessero poter accedere a tutte le più alte cariche di responsabilità, specificando che non si doveva sperare che rendessero meglio degli uomini: non è la donna che trasformerà il potere; è il potere che trasformerà tutto.

Un’autentica manifestazione di pensiero libero e anche di pari opportunità.

Rossella Marchese

Storia di un riscatto: un bistrot per ricominciare a vivere e riprendersi la libertà

A Poggiomarino, a pochi chilometri da Napoli, c’è un bistrot molto particolare,con un nome molto particolare, Viva, perché, come ha dichiarato una delle protagoniste di questa storia: “Viva è il nome di donne che hanno avuto un passato difficile”.

Sembra quasi l’inizio di una fiaba, ma Viva è, piuttosto, la costruzione del più lieto finale possibile per un incubo.

Viva Bistrot è il locale aperto dalla cooperativa Viola, composta da donne vittime di violenza coniugale, che hanno deciso di uscire dal buio, fuggendo dalle aggressioni dei loro compagni per riprendersi la loro vita, a cominciare dall’indipendenza economica.

Le tre artefici di questo piccolo miracolo etico ed economico si chiamano Antonella, Maria e Raffaella hanno prima creato la cooperativa Viola e poi hanno aperto un’impresa, senza conoscersi, all’inizio, ma con il forte legame di voler buttare il passato violento che le ha unite per una nuova vita, che le unirà per sempre.

Sono stati i loro avvocati a metterle in contatto e a convincerle. “Le donne come noi non hanno amiche”, dice Maria; “non abbiamo nulla. Da anni non parlo con nessuno, non esco di casa, non riesco nemmeno ad accompagnare i miei due figli a scuola. Mio marito mi segue ovunque, nonostante il divieto di avvicinamento. Ma ora voglio essere più forte di lui. Anche se ho paura di uscire, sono contenta di andare a lavorare e i miei figli sono più felici di me per questo. Affronterò le mie paure per uscire da quest’incubo”.

Lo scorso settembre Maria ha rischiato di essere bruciata viva dal marito.

Antonella, dal canto suo, ha dovuto combattere contro un marito nullafacente ed alcolizzato: “A Reggio Emilia, dove ho vissuto per 5 anni, sono stata costretta a chiedere l’elemosina in strada, a mendicare latte e pane dai vicini. Lavoravo 12 ore al giorno per 33 euro. Una miseria, e una notte lui mi stava ammazzando per 20 euro nascosti nella mia camicia da notte. Un giorno i miei figli mi hanno detto: “Mamma, non ce la facciamo più”. E io ho capito che era il momento per scappare. Loro sono la mia forza”.

Poi c’è Raffaela, con una laurea in Economia alla Federico II di Napoli, un bimbo di 2 anni e tanti sogni infranti per colpa di un compagno paranoico e geloso: “Ingiurie, percosse, non potevo nemmeno uscire a stendere il bucato. Lui vedeva amanti immaginari dappertutto. Ma ora riprendo finalmente in mano la mia vita; aumenta anche la mia autostima che lui ha praticamente ridotto a zero. Paura? Certo, ne ho. Ma qui siamo tutte donne con lo stesso problema e questo dà una carica in più”.

Adesso c’è Viva Bistrot nelle loro vite, che occupa tempo, energie e fatiche, rendendole indipendenti,padrone del loro tempo e del loro denaro, ma anche consapevoli del loro ruolo sociale, nonché dell’importanza della loro esperienza per le altre donne vittime di violenza domestica.

Adesso c’è da consolidare il progetto e sostenerlo nel tempo, con continuità. Che se ne parli, perché può essere un modello da esportare e riproporre, in un ambiente così delicato dove fare rete è vitale per le donne.

Ci sono farfalle dappertutto da Viva. E c’è il 1522, numero antiviolenza, scritto ovunque, fin sulle porte dei bagni. C’è la parete con le fotografie di donne simbolo dell’emancipazione: Frida Kahlo, Rita Levi Montalcini, Margherita Hack, Nilde Iotti. E ci sono loro, Antonella, Raffaela e Maria, con il loro coraggio. E poi c’è una frase di Seneca sulla parete d’ingresso del locale:

“Non è perché le cose sono difficili che non osiamo, è perché non osiamo che sono difficili”.

Rossella Marchese

La “questione Rohingya”, donne utilizzate come arma di guerra

I sistematici soprusi sopportati dalla minoranza etnica Rohingya si perdono nelle nebbie polverose della storia, tant’è che forse l’inizio della spinosa questione può farsi retroagire a  quando lo Stato di Rakhine, dove i Rohingya vivono da secoli, fu conquistato e annesso al Myanmar nel 1784, diventando prima  dominio dell’impero britannico e rimanendo, poi, parte dell’allora Birmania dopo l’indipendenza del 1948. E pure le origini del popolo Rohingya  sono piuttosto incerte così che la teoria più accreditata, di paternità birmana, li vuole discendenti di un gruppo di mercanti musulmani originari dell’allora Bengala emigrati in loco durante il periodo coloniale e, pertanto, sostanzialmente, stranieri senza possibilità di integrazione.

Sulla fragile base di questa presunta estraneità della popolazione Rohingya al territorio birmano si poggia da sempre la politica del governo di Naypyidaw, oggi guidato dal Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi: mai riconosciuti cittadini birmani, i Rohingya sono stati confinati in Rakhine, non fanno parte dei 135 gruppi etnici che vivono all’interno del paese e sono soggetti di campagne persecutorie dal carattere di pulizia etnica, con moschee distrutte, terre confiscate, stupri etnici e omicidi di massa; tutto ciò ha costretto la popolazione ad abbandonare il paese e rifugiarsi all’estero, per lo più in Bangladesh, già dalla fine degli anni Settanta.

Ed è proprio in Bangladesh, nella inumana miseria degli sconfinati e fangosi campi profughi, che Onu ed alcune associazioni umanitarie, tra cui Amnesty International, dal 2011 raccolgono le testimonianze delle donne musulmane rohingya, vittime delle violenze sistematiche da parte dell’esercito buddista birmano. Ultimo, solo in ordine di tempo, il rapporto di novembre della Associated Press, che ha dato voce a 29 donne e ragazzine tra i 13 ed i 55 anni, tutte scampate non senza danno, alla rappresaglia posta in atto dal governo birmano dopo l’attacco ad un posto di blocco dell’esercito, lo scorso ottobre, da parte del gruppo estremista jihadista locale Arsa.

Quei racconti dell’orrore parlano di stupri di gruppo, ripetuti sistematicamente più volte tra ufficiali e soldati semplici, di percosse fino alla morte su donne incinte e di esposizione dei poveri corpi vituperati e dati alle fiamme come monito nei villaggi di Rakhine dove, ormai da mesi, è impossibile entrare sia per le organizzazioni umanitarie che per i media.

Le parole di queste sopravvissute sono tutto ciò di cui la Comunità Internazionale ha bisogno per fare pressione ed esigere spiegazioni da Naypyidaw  e, affinché la campagna di violenze contro le donne e più in generale contro la minoranza Rohingya possa condurre al riconoscimento di crimine contro l’umanità.

Rossella Marchese

UNISIN: gli studenti dell’I.S. G. Marconi realizzano un corto per dire NO alla violenza contro le Donne

La forte sinergia e la collaborazione che si è instaurata da tempo tra Unità Sindacale Falcri Silcea Sinfub (UNISIN), sindacato autonomo del settore bancario e l’Istituto Superiore “G. Marconi” di Giugliano in Campania, dirigente scolastica professoressa Giovanna Mugione, ha portato alla realizzazione di un corto per dire NO alla violenza contro le Donne, presentato in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le Donne, istituita nel 1999 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Il corto dal titolo La violenza non va giustificata è stato realizzato dagli studenti della IV A produzioni audiovisive dell’Istituto Superiore “G. Marconi” di Giugliano in Campania coordinati dai professori Antonello Picciano e Lino Nolo. Il corto è pubblicato sul giornale on line di UNISIN – Professione Bancario www.professionebancario.it”.

Il Sindacato, in occasione del 25 novembre, ha ribadito,il suo NO, fermo e deciso, contro la violenza sulle donne e contro la violenza di genere in tutte le sue forme. “E’ necessario – ha evidenziato Emilio Contrasto, Segretario Generale di Unità Sindacale Falcri Silcea Sinfub – che le tutte le vittime denuncino immediatamente ogni tipo di violenza in qualunque luogo subita senza paura, non cadendo nella spirale della giustificazione della violenza come arma di auto difesa psicologica che impedisce anche la messa in campo dei necessari strumenti a tutela delle stesse vittime e volti a punire i colpevoli”.

Alessandra Desideri

Eletta la nuova Miss Mondo è l’indiana Manushi Chhillar

Alta 1 metro e 75, capelli e occhi castani, nata il 14 maggio 1997 nello Stato di Haryana, in India, Manushi Chhillar ha sbaragliato le altre 107 donne più belle di ogni luogo del pianeta e si è aggiudicata il titolo di Miss Mondo 2017 davanti alla messicana Alma Andrea Meza Carmona e all’inglese Stephanie Jayne Hill. L’incoronazione, che come da tradizione ha “officiato” la Miss uscente, la portoricana Stephania Del Valle, è avvenuta nella cornice di Sanya, la città capoluogo dell’isola cinese di Hainan, l’unica destinazione marina e tropicale del Paese da anni sinonimo di lusso estremo, è infatti una delle più alte densità di hotel 5 stelle del pianeta.

Manushi Chhillar divenendo la nuova Miss Mondo, riporta il premio all’India dopo 17 anni. L’ultima vincitrice del suo paese infatti, era stata Priyanka Chopra nel 2000. Dopo essere stata giudicata la donna più bella esistente in natura, la giovanissima si è commossa ed ha stretto in un abbraccio le altre ragazze sconfitte che concorrevano insieme a lei alla conquista dell’ambitissimo primato di bellezza. Poi le primissime dichiarazioni ufficiali: “Voglio ringraziare i miei genitori e tutti quelli che mi hanno aiutato a raggiungere questo obiettivo”. A colpire i giurati, che hanno avuto modo di assistere e votare la competizione di beltà suprema, sono stati i 175 centimetri dell’indiana, oltre agli occhi di un castano molto intenso e il suo fisico che si avvicina molto all’assoluta perfezione umana. Chhillar è riuscita a staccare le candidate alla vittoria finale, giunte da ben 121 paesi diversi. In gara per l’ambito titolo, c’era anche la nostra Conny Notarstefano, che rappresentava l’Italia. Chhillar, appassionata di danza classica e pittura, succede alla portoricana Stephanie Del Valle. “Grazie a tutti per il vostro appoggio. Dedico questa vittoria all’India”, le sue prime parole. La giovane ha detto di volersi impegnare per progetto umanitari. Il suo sogno è quella di aprire una catena di ospedali per le aree più povere del suo paese.

Nicola Massaro

Un ponte tra due ricorrenze: la campagna ONU contro la violenza sulle donne

Inizia il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, la campagna dell’Onu contro le sopraffazioni di genere in tutto il mondo, per concludersi in un’altra data simbolo, il 10 dicembre, la Giornata internazionale per i diritti umani.

Un ponte di attivismo ed iniziative di ogni genere di 16 giorni che ha come comune denominatore quello di diffondere la cultura del rispetto e della dignità verso il genere femminile: una battaglia sociale e culturale per i diritti di tutte le donne, che quest’anno mette in moto i social media in maniera massiccia, per comunicare il messaggio più velocemente e capillarmente in ogni angolo del globo.

Si può aderire alla campagna attraverso i canali di Facebook (https://www.facebook.com/SayNO.UNiTE/) e Twitter (https://twitter.com/sayno_unite), ma si può condividere anche attraverso gli hastag #16days e #orangetheworld, postando foto e video riguardanti il proprio contributo in questa battaglia culturale.

Da segnalare tra le celebrazioni internazionali di questo 2017 contro la violenza sulle donne, il movimento One Billion Rising dell’attivista e drammaturga americana Eve Ensler, autrice del celebre I Monologhi della vagina, che lancia la campagna Solidarietà che culminerà il 14 febbraio 2018, coinvolgendo un miliardo di persone, per celebrare insieme in modo gioioso irriverente e libero, la volontà di fermare ogni forma di abuso sulle donne e sulle bambine.

Solidarietà, Creatività e  Unione sono le parole che si ritrovano anche nel documentario City of Joy, scritto e diretto da Madeleine Gavin, che il 25 novembre arriva in Italia come prima europea, al We World Festival che si tiene a Milano. L’opera che narra della storia del centro per le donne fondato in Congo dalla drammaturga Eve Ensler, insieme a il dottor Denis Mukwege (tra i nominati per il premio Nobel per la pace nel 2016) e all’attivista per i diritti umani Christine Schuler- Deschryver, è la manifestazione dell’obiettivo di accrescere la consapevolezza sulla condizione femminile utilizzando il linguaggio immediato e coinvolgente del cinema.

L’arancione che tinge il 25 novembre dal 2008, diventando il colore delle campagne dell’Onu contro la violenza di genere, scelto come simbolo positivo di calore ed ottimismo per un futuro in cui le donne si saranno liberate della violenza degli uomini, anche quest’anno illuminerà i monumenti italiani da Nord a Sud, nei comuni di Roma, Milano, Caserta, Napoli, Venezia, Torino, Firenze, Genova, Matera, Cagliari, Perugia Pisa, Assisi, Ancona, Bari, Massa Carrara, Parma, Orvieto, Siena, Lecco, Pordenone Brescia e Prato.

Rossella Marchese

Violenza sulle Donne: se ne discute alla Fondazione Casa dello Scugnizzo

Un’occasione importante quella del 25 novembre per gridare NO alla violenza contro le Donne. Tantissime le iniziative in tutto il mondo per quella che è la giornata dedicata alla lotta a ogni violenza di genere, piaga della nostra società che vede coinvolte le donne senza alcuna distinzione di razza, cultura, posizione professionale o sociale. Quelli che dovrebbero essere i luoghi protetti, i luoghi degli affetti e dell’amore, sono invece i luoghi del dolore e del terrore per quelle giovani o per quelle donne che vengono maltrattate, picchiate e a volte, troppe volte, uccise da padri, mariti, partner, ex partner, fratelli, fidanzati. Moltissime non denunciano i maltrattamenti per paura, perchè sono costrette a continuare a vivere nel loro ambiente familiare. Un altro aspetto della violenza è quella nei luoghi di lavoro dove diventa fattore ancor più complesso.

Di alcuni di questi aspetti e delle possibili tutele si discuterà venerdì 24 novembre alle ore 10.00, proprio in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle Donne organizzata dall’Associazione “Spazio Donna” e dalla Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus , in piazzetta San Gennaro a Materdei n. 3, Napoli, nel corso della mattinata di riflessione e confronto dal titolo dal titolo “Violenza contro le Donne: quali tutele?”.

“L’iniziativa – evidenzia Antonio Lanzaro, presidente della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus –  vuole essere un contributo concreto al dibattito su questa piaga che affligge la nostra società e che spesso si tramuta in vera e propria tragedia. L’incontro rappresenta, inoltre, un momento di riflessione per fornire risposte alle tante domande alle quali le vittime di violenza non trovano risposta non disponendo delle necessarie informazioni per poter affrontare il dramma in cui si trovano coinvolte”.

Interverranno: Antonio Lanzaro, presidente della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Maria Aprile, presidente dell’Associazione “Spazio Donna”; Antonella Verde, avvocato giuslavorista e consigliera FOCS; Assunta Landri, psicologa – psicoterapeuta.

Modera l’incontro la giornalista Bianca Desideri.

Salvatore Adinolfi

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