Il piano Macron e il reddito universale

Il Piano Macron contro la povertà presentato il 13 settembre  prevede il cosiddetto reddito universale, approccio simile al reddito di cittadinanza proposto in Italia.

Lo strumento di Macron è denominato universale non perché sarà distribuito a tutti, ma perché raggruppa in un unico strumento diverse azioni, come il reddito di solidarietà attiva, gli aiuti per la casa, i bonus per la ripresa dell’occupazione ed altre. Ma il successo di queste offerte non si percepisce perché in Francia le procedure amministrative sono lunghe e complicate e in parte perché i beneficiari temono la stigmatizzazione prodotta dalle prestazioni sociali, in una società che tende sempre più a vivere la povertà come una “colpa”.

Tale scelta del governo francese è scaturita dall’aver constatato che l’aumento delle spese sociali non era bastato a contrastare la povertà. In uno dei Paesi più ricchi al mondo e con il sistema di welfare più generoso, i poveri rappresentano il 14,2% del totale della popolazione. Inoltre, secondo i dati OCSE di giugno 2018, in Francia la povertà passa dai genitori ai figli con una mobilità sociale perfino inferiore a quella italiana. Il governo francese ha stimato in 8,5 miliardi di euro (0,4 per cento del Pil) il costo totale del piano, ma funzionerà? Il progetto è ambizioso e simili tentativi del passato non hanno dato i risultati attesi. Si spera che i francesi oggi si comportino da homines economici,  rispondendo così alle attese degli incentivi proposti dal piano progettato dal governo.

Al momento il piano francese è una lista di intenti e non ha ancora un preciso articolato di leggi, ma sicuramente è da ritenere sia stata un’utile fonte di ispirazione  in Italia, riguardo all’attivazione del cosiddetto reddito di cittadinanza.

Danilo Turco

Fine di una battaglia fra Comcast e Disney

La battaglia tra Comcast e Disney per la conquista dell’impero audiovisivo di Rupert Murdoch, si è conclusa.

Come molti si aspettavano dalla competizione fra i due colossi si è ottenuto che la Disney ha acquistato Fox per oltre 70 miliardi di dollari e Comcast, dopo una serie di rilanci e un falso ritiro, ha comprato Sky per 40 miliardi. Acquistare tutto risultava una cifra esagerata, che la potente società di Topolino non poteva sostenere. Così oggi Rupert Murdoch non è più l’indiscusso protagonista e, con il suo 39 per cento di Sky, si avvia ad accettare l’offerta di Comcast che che gli consente di ottenere  comunque profitti miliardari, pur uscendo definitivamente dal settore.

Lo scenario sta cambiando e ormai Disney, At&t e Comcast,  in tutto o in parte integrati verticalmente, hanno ulteriormente accresciuto le dimensioni e ampliato i confini geografici, diventando società globali, operando oltre gli Usa e l’Europa e risultano ben attrezzate per il confronto con i nuovi rivali in una sfida planetaria.

Appare comunque evidente come la questione non sia semplice se si pensa come Disney sia contro Netflix, che si manifesta sia in Italia che in Europa, ponendo in discussione le scelte dell’attuale management Sky, che invece risultano positive per l’azienda, per l’accresciuta centralità nel sistema televisivo e la convergenza tra reti e contenuti proprio nel nostro paese.

A Sky è da riconoscere il suo successo, dovuto dal fatto che è l’unico operatore a pagamento e, in prospettiva, potrà essere considerato anche il punto di accesso essenziale per ogni tipo di servizio nelle abitazioni dei privati.

Danilo Turco

La chiusura domenicale dei negozi, quali i vantaggi

La chiusura dei negozi la domenica favorisce i piccoli commercianti e una parte dei lavoratori. I consumatori possono risentirne e sono una vasta platea. Il governo dovrebbe considerare le conseguenze sul benessere collettivo e trovare il giusto equilibrio in una realtà multiculturale e varia quale del nostro Paese.

L’obiettivo dichiarato di questa riforma sull’apertura di domenica dei negozi, sta nel far ottenere un beneficio ai dipendenti degli esercizi commerciali che pare siano “costretti” a lavorare di domenica a scapito dell’armonia familiare.

A riguardo va ricordato che il lavoro domenicale garantisce un supplemento salariale previsto dai contratti collettivi e si potrebbe stabilire un sistema volontario da parte dei lavoratori e quindi, già oggi i lavoratori di tale settore hanno  l’opzione di scambiare parte del loro tempo libero per un maggiore introito. Infatti, per alcuni di loro, lavorare la domenica può essere una scelta e non una costrizione e  il maggior reddito che ne scaturisce serve proprio a preservare la loro serenità familiare. Occorre quindi maggiormente valorizzare la scelta individuale da parte del lavoratore.

Inoltre, considerando i dati Istat,si osserva che il commercio al dettaglio conta 1 milione e 800 mila addetti. Non tutti i negozi sono aperti la domenica e alcuni fanno orario ridotto. Presupponendo che la domenica lavorino la metà delle persone di un giorno feriale, di questi, un quarto lavorerebbe comunque se i negozi rimanessero aperti il 25 per cento del tempo. In base alla riforma, il limite massimo di riduzione dei posti di lavoro è di circa 100 mila e, molti di questi addetti verrebbero riutilizzati nei giorni feriali, specie il sabato. Quale potrebbe essere la quota riallocata è difficile dire. Assumendo che vari da un minimo del 50 per cento a un massimo del 90 per cento, i posti di lavoro persi potrebbero collocarsi fra i 50 mila e i 10 mila.  Dal punto di vista degli esercizi, la riforma aiuta i piccoli commercianti che si avvalgono di minore personale e hanno maggiori difficoltà a garantire l’apertura domenicale e penalizza la grande distribuzione, che si vede privata della possibilità di fare ampi affari in una giornata in cui molte famiglie sono libere da obblighi lavorativi e più disponibili a recarsi nei grandi outlet. Infine, si può anche immaginare che una frazione dei consumatori che oggi scelgono di destinare parte del loro giorno di riposo allo shopping, potranno comunque continuare a farlo on line,visitando una pagina web invece che un centro commerciale.

Danilo Turco

L’Italia anello debole del sistema finanziario internazionale

Debito alto e sfiducia dei mercati alla base della persistente crisi economico-finanziaria dell’Italia. Necessario rispettare le regole per scongiurare il peggio.

I commentatori internazionali ritengono che l’Italia sia uno degli anelli più deboli del sistema finanziario internazionale. Per questo l’attenzione nei confronti del nostro Paese rimane molto alta e la crescita dello spread sul debito pubblico italiano verificatasi per la nuova formazione del governo ne è dimostrazione.

La causa scatenante di una crisi in Italia potrebbe essere un evento quasi insignificante, ma le ragioni profonde e da ricercare nella sfiducia da parte dei mercati nelle politiche del governo, unita a un alto e incontrollato debito pubblico. La regola del 3 per cento di deficit pubblico può sembrare stupida in condizioni normali, ma è fondamentale per il nostro Paese che ha un debito fuori controllo da trent’anni.  La crisi in Italia potrebbe scoppiare qualora una qualsiasi asta sul debito andasse non sottoscritta, anche solo parzialmente. In tal caso la raccolta delle banche si prosciugherebbe rapidamente e il costo aumenterebbe sostanzialmente e, oltre un certo livello, anche la Banca centrale europea avrebbe problemi a rifinanziarle. Non a caso negli ultimi tre mesi gli istituti di credito italiani hanno perso oltre un terzo del loro valore in borsa.

In un tale scenario gli effetti della carenza di liquidità e gli alti tassi d’interesse, che imprese e famiglie dovrebbero ulteriormente pagare, aggiunti all’incertezza che si abbatterebbe sul sistema, ridurrebbero significativamente gli investimenti, la domanda interna e il Pil. Tutto questo creerebbe il circolo vizioso tipico di tutte le crisi: alti tassi d’interesse, riduzione del Pil, aumento del debito, che a sua volta richiede tassi più alti e maggiori tasse per essere finanziato. Solo una ristrutturazione del debito pubblico e un salvataggio del sistema bancario potrebbero interrompere tale circolo vizioso.

Tutto questo in Italia può essere evitato, ad avviso di chi scrive, non negoziando furiosamente maggiori margini di flessibilità con l’Europa, ma rispettando le regole del mercato e i suoi principali protagonisti, sia privati che pubblici. In tal caso è essenziale che i mercati devono essere severamente regolati e occorre avere nei confronti dei nostri partner un atteggiamento non di subalternità, ma di rispetto delle leggi e non solo economiche, per ricevere pari rispetto.

Danilo Turco

Settembre 2008 – Settembre 2018: dieci anni dalla crisi finanziaria più nera

Era il 15 settembre 2008, quando la quarta banca americana, la Lehman Brothers, dichiarò la bancarotta, dando inizio formalmente al periodo di recessione più buio vissuto dai mercati dalla crisi del 1929, e non solo per gli Stati Uniti, ma per tutti i Paesi ad essi connessi finanziariamente, fino ad espandersi, naturalmente, come un effetto domino, a tutto il globo.

Tuttavia le avvisaglie di questa crisi erano già visibili almeno dal 2007, accumulatesi in una serie di comportamenti spregiudicati tenuti dagli enti finanziari americani, con il silenzio complice delle agenzie di rating. All’origine della tempesta, infatti, ci fu la “soluzione” trovata per fare fronte alla stagnazione dell’economia americana e alla politica di bassi salari: un ricorso indiscriminato alla finanziarizzazione e al credito. Le banche avevano concesso troppi mutui senza alcuna garanzia sul denaro prestato, i cosiddetti subprime (i crediti ad alto rischio), concessi a soggetti non in grado di fornire solide garanzie di restituzione; l’assunto base era che, comunque, il valore degli immobili avrebbe permesso alle banche di recuperare il credito in caso di insolvenza. La cartolarizzazione dei mutui (dunque lo spacchettamento e l’inserimento in titoli di credito) che ne seguì, protrattasi per un periodo di tempo troppo lungo perla finanza, finì per foraggiare un’immensa bolla finanziaria, una economia di carta che nel 2007 era pari a quattro volte il Pil mondiale: 240mila miliardi di dollari. Inquantificabili per un comune mortale. Quando i debitori non furono più in grado di pagare i mutui e lo scoppio della bolla immobiliare fece  crollare il valore degli immobili, era già agosto 2007, e la spirale della recessione si era già messa in moto, per esplodere circa un anno dopo.

Ma in quel 2007 ancora si sperava di poter contenere i danni; la Fed, aveva provato con il  taglio dei tassi di interesse dal 6,25 al 5,75%, ma non servì a nulla.

Nel febbraio successivo fu nazionalizzata nel Regno unito la Northern Bank. La Morgan Stanley annunciò perdite per 8 mld di dollari. Iniziò un frenetico giro di acquisizioni di banche da parte dei principali istituti di credito per evitarne il tracollo. Nel luglio 2008 i due colossi del credito Freddie Mac a Fannie Mae, che insieme gestivano il 55% dei mutui negli Usa furono salvati, di fatto nazionalizzati, dalla Fed a suon di miliardi.

Il peggio però doveva ancora arrivare. L’11 settembre 2008 la banca d’affari Lehman Brothers annunciò perdite per 4 mld di dollari e conseguente ricerca di nuovi acquirenti. Pochi giorni prima le agenzie di rating ne avevano garantito la solidità con giudizi positivi e rassicuranti.  La quantità di titoli tossici che la Lehman aveva in pancia, però, era talmente proibitiva che nessuno si fece avanti. Il 15 settembre la banca dichiarò bancarotta. Da lì, il rischio di un crollo dell’intero sistema economico- finanziario fu reale. La Fed dovette intervenire con 85 mld per nazionalizzare il colosso assicurativo Aig; la Merryl Linch fu assorbita dalla Bank of America ma il salvataggio non salvò 35mila dipendenti licenziati. Quand il congresso bocciò il poderoso piano di aiuti statali alle banche, pari a 700 mld di dollari, le borse rischiarono di nuovo il collasso, evitato solo da una seconda votazione,stavolta positiva del Congresso, con cui si diede il via libera ad un maxi- stanziamento di 700 mld prima e 250 mld dopo poco.

Tra novembre e dicembre 2008 entrarono in recessione sia i Paesi dell’Eurozona che gli Usa. Il resto è storia nota.

Oggi, a dieci anni dal disastro la crisi, negli Usa, è un ricordo; nella UE, invece, la ripresa è arrivata tardi e molto più debolmente che dall’altra parte dell’Atlantico. A marcare la differenza non sono state tanto le risposte, quanto la tempistica e le dimensioni.

Sia la Fed che la Bce ha fronteggiato la crisi con forti immissioni di liquidità, ma la Bce è arrivata con tre anni di ritardo, dopo aver troppo battuto la strada del massimo rigore.

A pagare la crisi sono stati dunque fondamentalmente i cittadini, le banche essendo “Too Big To Fail”, troppo grandi per fallire, troppo grandi non essere salvate costi quel che costi. Una regola che, dopo la  Lehman Brothers, nessuno oserà mai più trasgredire.

Rossella Marchese

La crisi che non ha fine

I soldi non valgono più nulla. L’inflazione sfiora il 1mln% in un anno. La gente muore di fame e anche l’acqua deve essere razionata. Questa è la situazione attuale del Venezuela nell’anno del Signore 2018.

Con una crisi finanziaria spaventosa, che si protrae ormai da quttro anni, il quarto produttore mondiale di petrolio non può più neppure vendere le sue preziose risorse.

In tutta questa situazione, il Presidente Nicolas Maduro ha annunciato che a partire dal 20 agosto in Venezuela circolerà una nuova moneta, il bolívar soberano (bolívar sovrano), che avrà cinque zeri in meno rispetto al bolívar fuerte (bolívar forte), la valuta usata oggi e rimasta praticamente senza valore. La decisione è stata presa per provare a tenere il passo con l’iperinflazione che secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale raggiungerà il milione per cento su base annua entro dicembre.

Il governo di Maduro aveva già previsto una riforma della sua moneta nel giugno scorso, allora l’idea era quella di togliere solo tre zeri, ma l’applicazione del piano fu rimandata due volte.

Il bolívar soberano sarà legato al petro, la criptovaluta controllata dallo stato e introdotta dal governo lo scorso febbraio per aggirare le sanzioni finanziarie imposte al Venezuela. In teoria il valore del petro è basato sulle riserve petrolifere nazionali, quindi su un petrolio di fatto non ancora estratto. A tale proposito alcune dichiarazioni di esperti del settore, tra cui Francisco Rodríguez, economista presso la banca di investimenti Torino Capital a New York, ha detto al Financial Times: “Visto che non c’è mercato [per il petro], non c’è nemmeno un prezzo di mercato, quindi è difficile capire cosa significhi ancorarlo a qualcosa. Il governo venezuelano mantiene la capacità di stampare petro. Questo rende il fatto di legare il bolívar al petro non tanto diverso dal legare il bolívar a sé stesso”.

A giugno l’Assemblea nazionale, ovvero il Parlamento venezuelano controllato dalle opposizioni e rimasto praticamente senza poteri, ha stimato il tasso di inflazione al 46.305 per cento annuo. Ha sostenuto che la banconota più grande, quella da 500 bolívar (50.000.000 di bolívar attuali), varrà solo 6 dollari alla fine di agosto, e 20 centesimi alla fine dell’anno. La banconota da 500 bolívar sarà di colore marrone e avrà stampata l’immagine di Simón Bolívar introdotta dal chavismo nel 2012 e criticata dalle opposizioni per la sua leggera somiglianza all’ex presidente venezuelano Hugo Chávez, il predecessore di Maduro.

Con l’iperinflazione attuale, non funziona praticamente più nulla e sono necessari molti giorni di lavoro al salario minimo anche solo per comprare una dozzina di uova, inoltre, negli ultimi due anni centinaia di migliaia di venezuelani sono scappati dal loro paese e dalla miseria per una crisi che ha le dimensioni di quella dei profughi siriani in Europa.

Rossella Marchese

L’Alitalia… Una storia infinita…

Il commissariamento di quattordici mesi ha permesso ad Alitalia di migliorare i suoi conti. Ora occorre decidere quale delle offerte proposte bisogna accettare.

Finora nessuno ha saputo trovare una strategia che permettesse all’Alitalia di stare a galla. Il commissariamento a partire da maggio 2017 scaturisce dalla legge Marzano sulle crisi aziendali, che aveva trovato applicazione anche in altri casi di grandi imprese in difficoltà. I commissari, operando non di liquidatori, ma da amministratori a tutti gli effetti, sono riusciti a far andare avanti l’impresa comunque, tagliando parecchi dirigenti e molti dipendenti, usando il potere dell’amministrazione straordinaria per rinegoziare diversi contratti. Tutto questo ha reso possibile di passare da una perdita annuale precedente di circa 700 milioni ad una molto più contenuta, di circa 250 milioni.

L’Alitalia oggi si è un po’ rimessa in piedi ma non è a posto. Sicuramente serve un piano strategico, forse che  possa proseguire la linea tracciata dai commissari, ma di certo occorrono nuovi azionisti, cioè nuovi investimenti, senza violare le regole europee, che prevedono che un prestito debba espandere la capacità produttiva.

Per rilanciarsi l’Alitalia non potrà tornare nell’alveo pubblico e per il suo rilancio reale occorrerebbe che la politica stesse lontana dall’Alitalia e che invece le scelte siano imprenditoriali, le più affidabili e serie sul serio.

Danilo Turco

Marchionne… nemo profeta in patria

Grazie a Marchionne la Fiat, che era un’impresa sull’orlo del fallimento, si è trasformata in una solida multinazionale, vincendo le sfide della globalizzazione. Ma l’Italia non l’ha accettato.

La guida di Sergio Marchionne della Fiat-Fca ha rappresentato una vera sfida alla globalizzazione, senza sostegno pubblico e senza contare troppo su un mercato domestico e operando con strumenti gestionali alla pari con una concorrenza agguerrita. Per Fca tale sfida è stata vinta, ma il nostro Paese l’ha invece percepita come una minaccia e, qualche rara eccezione, l’ha rigettata. In questi giorni, dopo la sua inaspettata scomparsa, decine di articoli hanno ripercorso i suoi 14 anni alla guida del gruppo. Marchionne ebbe carta bianca nelle scelte gestionali e così iniziò riconoscendo che un’impresa che compete su mercati internazionali non può permettersi di avere impianti strutturalmente in perdita. Una logica semplice ma che rappresentò una rottura epocale nei rapporti fra politica e impresa. La Fiat in tal modo decise di non contare più sull’aiuto “pubblico” e di farsi carico di obiettivi pubblici, come quelli di promuovere lo sviluppo in certe aree del Paese. Tutto questo è stato uno shock e la sua importanza è ancora poco compresa. Anche perché ha previsto l’uscita dal sistema di contrattazione collettiva con la stipula dei contratti aziendali. Tale scelta consentiva la governabilità degli impianti con la Fca si andava a rinnovare le fabbriche, adottando tecniche gestionali all’avanguardia, che d’altro canto hanno richiesto nuovi rapporti con i lavoratori. Marchionne ha dimostrato coi fatti che la sfida si può vincere. Un’impresa allora sull’orlo del fallimento è oggi una multinazionale solida e ben posizionata sulle due sponde dell’Atlantico, Il Paese Italia ha rigettato la “filosofia Marchionne”, perché il suo obiettivo non è stato il voler modernizzare l’Italia,ma solo rilanciare Fiat.

Danilo Turco

L’Italia virtuosa nella gestione dei Fondi Ue, così dichiara il rapporto dell’Olaf

Il rapporto annuale del’Olaf, organismo antifrode dell’Unione Europea, ha fatto il punto sulla gestione dei fondi UE tra il 2013 e il 2017 riportando tutte le irregolarità emerse nella gestione degli stessi per l’agricoltura e lo sviluppo regionale. Le anomalie sono state pari all’1,27% del totale dei pagamenti, su circa 4000 operazioni di finanziamento segnalate come frodi ed irregolarità; una percentuale ben al di sotto della media europea, pari all’1,83%, meno della metà rispetto al 3,13% della Spagna, dove i casi di frode sono stati più di11mila.

I dati dell’Olaf smontano clamorosamente la vulgata che associa spesso e ingiustamente i fondi europei al malaffare nel nostro Paese.

Il confronto premia l’Italia rispetto a molti illustri membri, oltre alla Spagna, anche alla Polonia, all’Olanda, all’Irlanda e a tutti i paesi dell’Est, dove fa scalpore l’oltre 11% di frodi e irregolarità della Slovacchia.

I dati dell’Olaf si riferiscono alle indagini condotte dagli Stati membri che, avverte l’organismo, potrebbero in alcuni casi anche non trasmettere tutti i dati a Bruxelles. Tuttavia le indagini condotte direttamente dall’Olaf, sempre sui fondi strutturali e sui fondi agricoli, concluse con le raccomandazioni alle autorità nazionali di recuperare 3 miliardi di fondi erogati, hanno comunque messo in evidenza come il paese più a rischio sia ancora la Slovacchia.

Il rapporto dell’Olaf, inoltre, ha consentito anche di correggere una recente analisi del Servizio studi del Senato, elaborata su dati della Guardia di Finanza, secondo cui la percentuale di frodi sarebbe stata superiore al 60% sia nel settore agricolo che in quello dello sviluppo regionale, ma il riferimento era sul totale delle operazioni sospette denunciate alla GdF dalle autorità regionali e dai ministeri, piuttosto che sull’effettività delle anomalie.

In linea con quanto da tempo certifica l’Olaf, le frodi ci sono anche in Italia, ma in percentuale nettamente inferiore rispetto alla media europea.

Rossella Marchese

Istat: l’inflazione al +1,3%

Secondo i dati dell’Istat il tasso di inflazione a giugno è sceso a +1,3% su base annua (dal +1,4% annunciato nella stima preliminare).

Tasso che desta comunque preoccupazione. L’incidenza dell’aumento dei prezzi, secondo l’Istituto di ricerca,  pesa in misura notevolmente maggiore sui redditi medio-bassi.

L’accelerazione del tasso di inflazione – secondo l’Istat  – è trainata dai prezzi dei prodotti ad alta frequenza di acquisto (soprattutto carburanti, frutta fresca e vegetali freschi).

Quello che più interessa alle famiglie è il tasso relativo al “carrello della spesa” che  aumenta del +2,2%.

“Un contributo inflazionistico deriva anche dai prezzi dei trasporti, che da inizio anno mostrano tensioni crescenti” – prosegue l’Istituto di statistica.

Federconsumatori interviene affermando  che “si tratta di “un classico”, in vista dell’estate. Non appena il traffico sulle strade aumenta in vista delle vacanze o dei brevi soggiorni fuori casa, ecco che i prezzi dei carburanti subiscono una impennata. Tutto ciò non farà altro che incidere negativamente sull’andamento, già tiepido, della domanda turistica”.

Prosegue sottolineando che con l’inflazione a questo livello “gli aggravi a carico di ogni famiglia ammontano a +384,80 Euro annui”.

Federconsumatori sottolinea che questi aumenti risultano insostenibili per le famiglie, che devono affrontare spese non proporzionate alle retribuzioni percepite.

Il risultato atteso è quello di una contrazione contrazione e contenimento della domanda interna.

“A fronte di tali dati si rendono sempre più urgenti e necessari interventi in grado di imprimere una svolta radicale a tale andamento, attraverso un serio il rilancio dell’occupazione ed una attenta redistribuzione dei redditi” – dichiara Emilio Viafora, Presidente di Federconsumatori Nazionale. “Si tratta di un’operazione fondamentale per gettare basi solide per una crescita equilibrata e sostenibile.”

Alessandra Desideri

 

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