Diritto per l’impresa, la nuova pubblicazione di Antonella Batà

Il volume “Diritto per l’impresa” di Antonella Batà, ricercatore confermato presso la Scuola Politecnica e delle Scienze di Base dell’Università degli studi di Napoli Federico II pubblicato dalle Edizioni Scientifiche Italiane, oltre ad essere destinato agli studenti dei Corsi di Laurea in Ingegneria gestionale è anche un utile strumento di consultazione per coloro che studiano il settore industriale e per coloro che svolgono un’attività professionale nell’ambito imprenditoriale.

Il volume si sviluppa in otto capitoli. Aprono la pubblicazione le presentazioni di Giuseppe Bruno, ordinario di Gestione dello Sviluppo Imprenditoriale presso l’Università degli Studi Federico II e Mario Raffa, ordinario di Gestione dello Sviluppo Imprenditoriale presso l’Università degli Studi  di Napoli Federico II. L’Autrice, nello sviluppo dei capitoli, tratta: i concetti introduttivi, le obbligazioni e i contratti,  l’imprenditore e l’imprese, l’impresa collettiva: le società, le aggregazioni di imprese,  l’azienda, l’impresa ed il mercato, la contrattazione di impresa. In un unico volume Antonella Batà riesce a fornire tutti gli strumenti utili ad un ingegnere, anche se appartenenti a diverse branche del diritto. Il volume e le tematiche sono trattate con una “esposizione sintetica, ma non semplicistica” che utilizza “un linguaggio essenziale, depurato da n eccessivo ricorso ai tecnicismi giuridici che necessariamente caratterizzano la manualistica del diritto” per dirla con le parole del professor Giuseppe Bruno. E ancora “il lavoro riesce ad assolvere alla duplica funzione che è alla base della “missione” di un libro universitario. Essere, cioè, uno strumento  di supporto all’attività didattica in cui si evidenziano gli aspetti di collegamento interdisciplinare, ed essere un oggetto di consultazione per chi, non più studente, abbi ala necessità di accedere, senza particolari propedeuticità culturali, ad argomenti che sempre più frequentemente e significativamente intervengono nell’attività professionale.

Il lavoro di Antonella Batà per il professor Mario Raffa ha un grande merito “fornisce all’ingegnere una serie di conoscenze sul diritto d’impresa quasi mai familiari nelle scuole di ingegneria. Il tutto fatto con un metodo che mette insieme la tradizione umanistica con quella tecnica e tecnologica.  Si produce così una strumentazione interpretativa che aiuta a capire la complessità dell’impresa attuale, nonché il suo ruolo nelle reti nazionali ed internazionali alla luc del fenomeno della globalizzazione”.

Salvatore Adinolfi

Le guerre commerciali con i loro risultati

Usa e Cina, con la controversia innescata fra i due Paesi, con le sanzioni minacciate, darebbero vita a un gioco pericoloso sia per i due Paesi e sia, per gli scambi internazionali.
Si paventa che le mosse del presidente Trump in materia di politica commerciale potrebbero sfociare in una disputa fuori controllo (Financial Times), visto che gli Stati Uniti colpiscono i settori strategici in cui la Cina sta cercando di crescere, sia in termini di quota di mercato globale che nel livello tecnologico, seguendo la dottrina “Manufacturing 2025” voluta da Xi Jing Ping. Una strategia questa che a stretto giro potrebbe non portare bene, visto che a novembre negli Stati Uniti si vota per il rinnovo di metà Camera e Senato, per cui alcune industrie e stati americani potrebbero essere particolarmente colpiti dalla ritorsione cinese. Quindi, appare difficile trovare spazi di ottimismo per una risoluzione consensuale della suddetta controversia.
Nel momento in cui le sanzioni minacciate dovessero attivarsi, la posta in gioco appare troppo alta per entrambi i paesi per cui anche nel commercio internazionale sembra valga il detto “se vuoi la pace, prepara la guerra” e attualmente si è in attesa dell’annuncio di una nuova rappresaglia cinese, senza comprendere dove questa insensata guerra commerciale condurrà il sistema degli scambi commerciali internazionali, il principale motore della crescita economica mondiale.
Danilo Turco

Il reddito di cittadinanza: in Finlandia e… in Italia

Il governo Finlandese non proseguirà l’esperimento di un assegno mensile di circa 560 euro ai disoccupati, ritenendo i sussidi alti e non stimolanti a cercare lavoro. In Italia si discute sulla proposta del M5Stelle.
In Finlandia, già a dicembre 2017, il Parlamento aveva approvato una nuova legge che condizionava il mantenimento degli assegni a un’attività lavorativa pari ad almeno 18 ore ogni tre mesi, senza le quali i versamenti sarebbero stati ridotti, proprio per invogliare i cittadini al lavoro. Nel 2019 il governo della Finlandia avrebbe dovuto avviare la seconda fase dell’esperimento, versando il sussidio anche ad alcuni occupati, ma questa proposta del progetto non si realizzerà, considerati i risultati raggiunti da tale sperimentazione, risultati che saranno pubblicati il prossimo anno, ma il ministro delle Finanze di Helsinki, Petteri Orpo, in una sua intervista al quotidiano Hufvudstadsbladet, ha anticipato che i sussidi risultavano alti e questo fatto non incentivava il disoccupato a cercare un lavoro. D’altra parte, appaiono delusi gli esperti che avevano sostenuto l’iniziativa, osservando che due anni di osservazione sull’esperimento sono da ritenere troppo brevi per poter trarre conclusioni attendibili. Secondo loro si sarebbe dovuto concedere al progetto più tempo e più denaro per ottenere risultati affidabili, è l’opinione del professor Olli Kangasin una sua intervista all’emittente televisiva finlandese YLE.
Cosa accade oggi in Italia? La proposta del reddito di cittadinanza (Rdc) è stata presentata dal M5s e prevede un reddito di disoccupazione, ma che risulta condizionato alla partecipazione attiva al mercato del lavoro. Cioè il meccanismo funzionerebbe in tal modo: il lavoratore scoraggiato si iscrive al centro per l’impiego (Cpi). La suddetta iscrizione comporta lo sforzo attivo di ricerca di un lavoro (coadiuvato dal Cpi), remunerato dal Rdc. L’erogazione del reddito è condizionata a non rifiutare più di tre offerte di lavoro (se “consone”), pena la perdita del beneficio. In tal caso il Rdc è in realtà un reddito di disoccupazione che risulta però condizionato alla partecipazione attiva al mercato del lavoro, che richiama alcuni aspetti della teoria sul lavoro e la disoccupazione di Keynes. I critici sulla proposta ritengono che i finanziamenti al Rdc produrrebbero un forte incremento del deficit e poi, in generale, effetti minimi su occupazione e reddito.
Danilo Turco

Il Sud e l’Italia per uno sviluppo sostenibile

Anche se ancora elevato il divario di sviluppo del Sud con le regioni del Centro-Nord, oggi lo Stato sta attuando misure che pare abbiano innescato  una inversione di tendenza.

Il divario economico fra Sud e Centro-Nord dagli anni Ottanta, si è ampliato sempre più.   Una peculiarità storica che ha reso unica nel suo genere la questione meridionale in Europa, rendendo lo sviluppo del Mezzogiorno una grande questione nazionale italiana: il modello fondato sulla delega alle regioni da parte dello stato, finanziatore/arbitro, non ha generato i risultati sperati in termini di sviluppo economico, e di crescita delle capacità amministrative.

Al Sud  la struttura dimensionale delle imprese è meno adeguata a recepire il tipo di misura di Industria 4.0  con i suoi incentivi, per cui il primo obiettivo è quello di rafforzare il tessuto di imprese sane e in grado di crescere, con fondi e il credito d’imposta Sud.  Inoltre la questione dimensionale è centrale per sviluppare le capacità adeguate ad inserirsi nelle catene globali, le zone economiche speciali (Zes), aree con una struttura di governo agile, una normativa semplificata e poche incentivazioni fiscali, che possono coinvolgere aree portuali, retroportuali o industriali. Dal 2008 al 2014 il Mezzogiorno d’Italia ha perso più di 13 punti di Pil, quasi il doppio del resto del paese e negli ultimi due anni è ripartito a tassi maggiori del Centro-Nord, seppur di poco. Infatti, nel biennio 2015-2016 il Sud è cresciuto del 2,1 per cento , il Centro-Nord dell’1,5 per cento, una inversione di tendenza che fa ben sperare, ma insufficiente a riconoscere un recupero stabile del divario. Non bisogna abbassare la guardia, occorre continuare ha operare in termini innovativi con costanza e rafforzando e consolidando in contemporanea, quanto viene costruito nel tempo.

Danilo Turco

Tagliare l’irpef può realmente incentivare le nascite?

Appare essere una buona idea contrastare la bassa natalità in Italia attraverso  la riduzione della tassa IRPEF e rappresenta una misura che potrebbe favorire la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Un intervento sull’Irpef a favore del secondo figlio è un modo di ridurre la tassazione sul reddito da lavoro delle donne, incoraggiando così la loro partecipazione al mercato e quindi di favorire la scelta delle madri di continuare a lavorare dopo la nascita dei figli. Questo rappresenterebbe una condizione concreta e fattibile e consentirebbe alle coppie di decidere di avere  anche un secondo, se non un terzo figlio. Solo l’occupazione di entrambi i coniugi può infatti assicurare quelle risorse necessarie per poter crescere i bambini. Questo intervento  non ha vizi di incostituzionalità, come la tassazione differenziata per genere o la tassazione familiare, implicita nel quoziente familiare.

La relazione tra natalità e tassazione è un fatto non analizzato perché per sua natura non appare immediato, ma di certo nella società contemporanea merita una riflessione. Le politiche a sostengo della natalità richiedono oggi una corretta rappresentazione della relazione che esiste non solo tra tassazione del reddito e occupazione femminile, ma anche tra quest’ultima e la fecondità.

Infatti, se nel 1980 la relazione era negativa, oggi appare positiva e inversa rispetto ad allora. Cioè, nel 1980 il numero medio di figli per donna era più alto nei paesi dove si registravano bassi tassi di occupazione femminile, mentre negli anni Duemila la relazione risulta opposta, il numero medio di figli per donna è più alto laddove  il tasso di occupazione femminile è più alto.  A riguardo confermano gli ultimi dati Oecd (2014) mostrano che in Europa i paesi con tasso di occupazione delle madri tra il 72 e l’83 per cento, registrano tassi di fecondità tra l’1,7 e il 2 e sono  Svezia, Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio, Finlandia, Francia. All’estremo opposto si trovano paesi come Polonia, Italia, Grecia, Spagna, Malta, Cipro e Ungheria con tassi di occupazione femminile delle madri tra il 50 e il 70 per cento, che sono associati a tassi di fecondità tra l’1,3 e l’1,4.

Nel nostro Paese,  si ottiene lo stesso risultato se si osservano i dati regionali su partecipazione femminile al mercato del lavoro e fecondità: sono le regioni del Sud che registrano i valori più bassi di ambedue gli indicatori.

E’ quindi necessario oggi saper ben definire le politiche da intraprendere, con obiettivi precisi e fondati su una corretta conoscenza dei fenomeni sociali sottostanti e che fanno tutti riferimento al generale contrasto alla povertà.

Danilo Turco

Industria 4.0 e i dottorati universitari

“Imparare facendo” rappresenta lo strumento per svolgere ricerca e studi innovativi per l’industria di oggi.

I cambiamenti che stanno oggi avvenendo nel mercato del lavoro fanno tornare in auge il concetto di “disoccupazione tecnologica” di John Maynard Keynes, che presentò negli anni Trenta del secolo scorso per spiegare gran parte della crisi di Wall Street.

Ecco allora che paure e conflitti antichi tornano alla ribalta (uomo contro macchina, materiale contro immateriale) procurati dalla innovazione che è comunque inarrestabile.

Ogni epoca ha avuto le sue rivoluzioni (industriali, intellettuali, scientifiche, tecnologiche e sociali) la moneta, la macchina a vapore, l’elettricità, l’iperuranio, il Pc e Internet, lo smartphone, novità ha abolito il passato aprendo una finestra sul futuro e nel fare questo produce disagi alla vita dell’uomo.  Come può difendersi l’uomo da questo malessere?

Rispondere che in un mondo “liquido” occorre imparare a nuotare non basta, è solo una risposta teorica… Occorre ad esempio un approccio alla formazione nuovo, il learning by doing (imparare facendo), che coinvolga più soggetti e istituzioni, dove imprese e università operino assieme, a favore dell’industria 4.0, trasferendo lo studio dalle aule scolastiche e universitarie, alle imprese e in tal modo l’alternanza scuola lavoro è da ritenere solo un primo passo ad esso si aggiunge l’apprendistato scolastico da realizzare e gli istituti tecnici superiori da rinforzare.

A riguardo il presente Governo italiano ha predisposto delle misure e dei fondi indirizzati anche ai cosiddetti dottorati industriali e intersettoriali, nell’ambito della Strategia nazionale di specializzazione intelligente 2014-2020 e del piano Industria 4.0 del “Piano Calenda”.

A riguardo già nel 2011 la Commissione europea intendeva promuovere azioni formative innovative nei Principi per una formazione dottorale innovativa per un approccio europeo, con percorsi innovativi, interdisciplinari, che offrissero ai dottorandi competenze trasversali, coinvolgendo anche le imprese.

Le linee guida del MIUR richiamano questi principi comunitari e chiariscono che i corsi accreditati con la dicitura “dottorati industriali” potranno essere: i corsi in convenzione con le imprese (articolo 11, comma 1, del Dm 45/2013) con la possibilità anche di riservare un numero di posti ai dipendenti di una o più aziende (articolo 11, comma 2, del Dm 45/2013) (tipo 1); i corsi di dottorato convenzionale che hanno, al proprio interno, dei curricula realizzati in collaborazione con le imprese (tipo 2). Tra i temi di ricerca, una priorità sarà data proprio a Industria 4.0.Il Miur ha quindi predisposto il nuovo bando del Pon Ricerca e innovazione 2014-2020 per il finanziamento di dottorati innovativi a caratterizzazione industriale nelle regioni meno sviluppate (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) e in transizione (Abruzzo, Molise, Sardegna). Alcune università si son già attivate, ma altre ancora non rispondono all’appello. La logica da attivare deve essere di ecosistema, Stato, Università e Industrie, una logica giusta per attuare un rinnovamento creativo, con la collaborazione fra queste tre sfere istituzionali e complementari, proprio per far ripartire il motore dell’innovazione che risulta fermo da un po’ di tempo e per non arretrare come paese europeo.

Danilo Turco

Continuare a riflettere sulla riforma fiscale di Trump

La riforma fiscale di Trump non può essere interpretata come un’azione contro l’Unione Europea. Molte delle sue misure sono già adottate da tempo nelle legislazioni europee. È un intervento finalizzato a far riguadagnare competitività.

Attualmente i paesi europei Francia, Olanda, Gran Bretagna, Spagna, Italia già adottano regimi di patent box, la tassazione agevolata dei proventi derivanti dall’utilizzo di beni immateriali (intangibles), per cui, l’aliquota ridotta dell’Usa sulle cessioni all’estero di proprietà intellettuali non può essere considerata una violazione delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio sui sussidi all’esportazione, così come accade per la web tax europea che si intende applicare in UE, sui ricavi delle multinazionali americane, che costituirebbe dal canto suo una realtà di dazi all’importazione, anch’essi vietati dal Wto.  Di fatto, l’aliquota corporate deliberata dal Congresso Usa  allinea il sistema americano allo standard internazionale, che prevede  un’aliquota societaria flat (dal 35 al 21 per cento ), così come non va poi trascurato che negli Usa anche i singoli stati applicano di solito un’imposta sul reddito societario, che, secondo la media Ocse, per i 50 stati americani è pari al 6 per cento. Petanto, più che un attacco all’UE, la riforma della fiscalità societaria Usa andrebbe ritenuta un ammodernamento dei meccanismi della tassazione e un legittimo tentativo di riguadagnare la competitività del passato.

Danilo Turco

Lavoro e contratti a tempo determinato

Le azioni messe in atto per ridurre i contratti a tempo determinato sembra che non bastino. Il mercato del lavoro presenta “lavori” temporanei che per loro natura non scompaiono.

Secondo Istat-Rfl e gli Osservatori Inps, il numero di lavoratori che nel corso di un anno (dati 2016) sperimenta almeno un rapporto di lavoro a termine è alto e ha riguardato 3,1 milioni, per cui ci si chiede è possibile ridurre la dimensione assoluta e quindi l’incidenza del lavoro a termine? Come risposta a tale richiesta diverse misure sono state attivate sino ad ora per incentivare i rapporti di lavoro a tempo indeterminato (decontribuzione in varie forme previste dalle leggi di stabilità 2014, 2015 e 2017; introduzione con il Jobs act del contratto a tutele crescenti, per eliminare nel tempo i contratti a termine).

Tutti questi interventi obbligano le imprese a intensificare il turnover dei lavoratori temporanei, ma di per sé non ne vincolano l’utilizzo. Per cui l’efficacia di ciascuna misura dipende dalla semplicità e capillarità dei controlli, che devono diventare tempestivi, non solo puntuali e non sporadici, per garantire che non vi siano applicazioni della norma discrezionali. Per questo occorre provare a individuare quanti posti fissi potenziali le aziende “omettono” con contratti temporanei, facendo ruotare nel corso del tempo diversi lavoratori sulla medesima posizione. Si tratta quindi di distinguere tra occupati con contratti a termine impiegati in posizioni di lavoro effettivamente temporanei (come accade per un commesso stagionale in un negozio) e occupati a termine che “occupano” invece posizioni lavorative che per natura risulterebbero stabili.

Un esempio di questa analisi è quella di Veneto lavoro da cui risulta che su circa 60 mila imprese utilizzatrici di lavoro a tempo determinato nel corso dell’anno 2016, circa (10 mila) risultano aver posti di lavoro a termine in tutti i dodici mesi, corrispondenti a circa 40 mila unità di lavoro full year equivalent, pari a meno di un terzo del valore corrispondente calcolato per tutti i contratti a termine. Simili stime approdano a risultati analoghii dati nazionali. Da questo si evince che una riduzione dei contratti a tempo determinato – qualora le norme riescano a centrare il bersaglio – è importante azione, ma non risolutiva, in quanto  gran parte dei posti di lavoro temporanei sono per loro natura tai e non possono essere trasformati a tempo indeterminato.

Danilo Turco

Gli effetti della diffusione delle presunte  monete virtuali

Le criptovalute pretendono di essere più sicure rispetto alla moneta tradizionale e di non richiedere intermediari.

Alcune potenze occidentali come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno mostrato un atteggiamento generalmente positivo verso le nuove tecnologie che abilitano le monete virtuali, altri come il Canada e l’Australia stanno ancora decidendo il da farsi.

Gli Usa sono pronti a regolare la moneta virtuale bitcoin. A dare un nuovo colpo alle quotazioni delle criptovalute sono state indiscrezioni di stampa secondo cui i vertici della Sec, l’organo di vigilanza delle Borsa Usa, e della Commodity Futures Trading Commission chiederanno al Congresso americano di prendere in considerazione l’ipotesi di un controllo a livello federale delle piattaforme per gli scambi di monete digitali. Secondo quanto riferisce Bloomberg, i presidenti della Sec e della Commodity Futures Trading Commission saranno in audizione alla Commissione banche del Senato Usa per discutere di criptovalute e potenziale regolazione. Tutto questo da farsi dipende dal fatto che un terzo delle piattaforme di scambio di bitcoin è stato hackerato fra il 2009 e il 2015. Ed è sorta una pletora di intermediari. E’ infatti accaduto che ammonta a più di mezzo miliardo di dollari l’enorme somma di criptovaluta che, nella notte fra il 25 e il 26 gennaio, è stato sottratto a Coincheck, la più grande piattaforma di scambio di criptovalute del Giappone. Il quale, a sua volta, costituisce una delle piazze più importanti al mondo per le monete virtuali, tanto da arrivare ad accentrare fino al 40 per cento delle contrattazioni, secondo il Financial Times.  Il giorno dopo, l’annuncio del furto è stato dato in diretta televisiva dall’amministratore delegato, Koichiro Wada e ha chiesto scusa agli investitori. Cosa possa accadere ancora lo ha spiegato in un’intervista Jeff McDonald, vicepresidente della Fondazione Nem che emette la criptovaluta, evidenziando che il denaro virtuale sottratto ha un contrassegno, come il numero di serie di una banconota, per cui  l’hacker che se ne è impossessato potrebbe non riuscire a utilizzarlo senza essere smascherato, per cui il bottino resterebbe come sepolto o addirittura distrutto, senza consentire alcun guadagno al  criptoscassinatore.  Poi, aggiunge come anche le vittime non ci perderebbero per il fatto che la diminuzione della quantità complessiva di Xem in circolazione ne farebbe aumentare il valore, forse fino a colmare completamente la perdita (almeno in aggregato, al netto di drastiche quanto casuali sperequazioni fra chi guadagna e chi perde).  Anche nel caso Mt Gox,  la più grande piattaforma al mondo per lo scambio di bitcoin, quando a febbraio 2014 ha ammesso di avere perso traccia di bitcoin per un valore di 450 milioni di dollari. Nel giro di pochi mesi è fallita e il bitcoin  deprezzato del 30 per cento, ha poi ha ricominciato a risalire. È possibile che succeda anche questa volta  il rialzo delle criptovalute, in quanto nessun disastro reale può arrestare un’ascesa puramente virtuale. Essendo le criptovalute sono un fenomeno puramente speculativo,si può ammettere che non possono essere toccate da eventi terreni come il fallimento di una piattaforma. Ma se il loro apprezzamento si ritiene dipenda dalle loro qualità oggettive, tecniche , che il loro prezzo rifletta il loro valore effettivo di un mezzo di pagamento del futuro, allora non si può pensare che eventi come il furto di Xem siano da ritenere irrilevanti. Le criptovalute, a cominciare da bitcoin, pretendono di avere due vantaggi rispetto alla moneta tradizionale: di essere più sicure e di non richiedere intermediarima  la vicenda di Coincheck mostra che nessuna delle due pretese è vera.  Bitcoin è nata come sfida al sistema bancario oligopolistico, come moneta elettronica peer-to-peer, trasferibile fra privati senza il ricorso a intermediari, ma la realtà è un’altra, e il mondo delle criptovalute ha visto sorgere una pletora di intermediari non regolamentati.   Se i bitcoin hanno  lo scopo di sostenere l’economia attraverso la creazione di ricchezza virtuale, nella speranza che un giorno si trasformi in ricchezza reale, non sarebbe più equo e solidale  assegnare qualche miliardo di moneta tradizionale ai cittadini più poveri? Ai posteri l’ardua sentenza.

Danilo Turco

 Il futuro della sanità in Italia

Non sono chiare le proposte politiche sui finanziamenti alla sanità in Italia.

Nell’attuale campagna elettorale il confronto fra le parti sulla questione sanità in Italia presenta contraddizioni e dichiarazioni contraddittorie che senz’altro disorientano il cittadino, per questo, per fare chiarezza, occorre riflettere partendo dai dati oggettivi pubblicati sul sito del Ministero della salute.

Il Servizio sanitario nazionale, gestito dalle regioni come stabilito dalla Costituzione, è finanziato da tre voci:entrate proprie delle aziende del Servizio sanitario nazionale (in particolare grazie al ticket);fiscalità generale delle Regioni, tramite l’Irap e l’addizionale regionale dell’Irpef; bilancio dello Stato, che finanzia il fabbisogno sanitario attraverso la compartecipazione all’Iva, le accise sui carburanti e il Fondo sanitario nazionale. Nel 14 aprile 2016 l’intesa tra Stato e regioni ha stabilito che le fonti del finanziamento del fabbisogno giungessero per un terzo dai contributi delle regioni (A+B) e per circa il 60 per cento dall’intervento statale, mentre risulta residuale l’intervento delle regioni a statuto speciale. Ma il finanziamento del sistema ha subito numerose modifiche e interventi a partire dal 2014, come descrive la Camera dei deputati e sintetizza il ministero delle Finanze , che attualmente fa rilevare come il finanziamento sia aumentato di circa 7 miliardi e mezzo nel corso di questa legislatura (+6,4 per cento), crescita che inizialmente già prevista di 30 miliardi e che poi è stata ridotta grazie a tagli di circa 22 miliardi in quattro anni. La spesa è dunque cresciuta, ma non di quanto previsto. Infatti, ci sono state numerose ricontrattazioni degli accordi presi tra stato e regioni nel 2014, in occasione della firma delPatto della salute 2014-2016 e poi formalizzati dalla legge di stabilità 2015 (comma 556), quando, già allora si erano gettate le basi per le future riduzioni così come è realmente accaduto a partire dalla successiva intesa stato regioni del 2015 e con le leggi di stabilità 2016,2017 e con il decreto del ministero delle Finanze del 5 giugno 2017, con tagli che superano la quota 20 miliardi, ma che ancora una volta dà un saldo positivo. Affrontando la questione da un altro punto di vista è doveroso osservare come in un mondo in cui sono i numeri a farla da padroni, non le persone, con le loro ansie, le malattie, i dolori, le paure e dove i medici e gli infermieri non sono solo bravi, ma addirittura straordinari e costituiscono eccellenze assolute, quotidianamente mortificate da chi la salute pubblica dovrebbe amministrarla,  a livello nazionale al regionale. Una salute guardata solo dal punto di vista della spesa, mai dell’investimento alimenta il paradigma della cattiva sanità. Quella amministrata con criteri che non tengono conto che per gestire la sanità occorre far riferimento costante alla qualità dei professionisti che operano: medici, ricercatori, scienziati, ai quali andrebbe proposta una sanità pubblica capace di riconoscere il proprio ruolo alla luce di quelle “humanities” tanto care alla cultura anglosassone.

Danilo Turco

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