Le pensioni d’oro in Italia

Le pensioni d’oro rappresentano un vero problema oppure occorre mettere in discussione il concetto di diritto acquisito quando le condizioni economico sociali necessitano di cambiamenti innovativi e di equità sociale sul piano dei diritti?

Il provvedimento di tagliare le pensioni d’oro è senz’altro eticamente condivisibile, ma si scontra con due ordini di problemi: quello giuridico-costituzionale che impedisce di aggredire i cosiddetti “diritti acquisiti”  e quello che riguarda l’entità del possibile risparmio per le casse previdenziali. Per conoscere la realtà bisogna osservare gli ultimi dati resi disponibili da Inps e Istat – le fonti primarie di statistiche previdenziali – che rilevano come nel 2015 il 6,7 per cento del totale dei pensionati, poco più di 1 milione di individui abbia ricevuto un assegno mensile superiore ai 3 mila euro lordi (il valore medio è di 4.354 euro mensili lordi per 12 mensilità) costando 54,8 miliardi di euro (il 20 per cento della spesa pensionistica totale).  Poi, i più ricchi, quelli con un reddito annuale superiore ai 300 mila euro, erano 7.884 (il reddito medio è di 542 mila euro). Quindi, la pensione incide mediamente per il 40 per cento del reddito totale, ma per i più ricchi è il 13 per cento delle entrate complessive. Allora, se si ipotizza di fissare un tetto massimo mensile di 5 mila euro lordi per l’assegno pensionistico, tagliando l’eccedenza ai pensionati che hanno un reddito complessivo superiore ai 100 mila euro, si otterrebbe un risparmio stimabile in 490 milioni di euro, che a sua volta produrrebbe una riduzione della tassazione Irpef, riducendo così il risparmio netto a 280 milioni di euro, poco più dell’1 per cento della manovra di bilancio approvata a dicembre 2017. Questo calcolo evidenzia come l’entità del taglio produca un maggiore o un minore risparmio e che poi, non garantirebbe una cifra tale da dare grande respiro ai conti pubblici (vale lo 0,016 per cento del Pil) e neanche alla  politica redistributiva.

Attualmente il Presidente dell’Inps evidenzia come  “l’abolizione della pensione anticipata e il ritorno all’anzianità con 40 anni di contributi o con il meccanismo delle quote avrebbe un costo aggiuntivo attorno ai 15 miliardi l’anno, con un’incidenza sul debito pensionistico implicito di 85 miliardi, vale a dire cinque punti di Pil, che finirebbero sulle spalle delle generazioni più giovani”. Inoltre, il presidente Boeri ha anche evidenziato come il costo di una pensione da mille euro per le casalinghe, che hanno tra i 60 e i 65 anni, producendo in 5 anni la spesa di circa 10 miliardi di euro. Infine, se in futuro si decidesse di bloccare l’adeguamento dei requisiti pensionistici all’aspettativa di vita, allora ci sarebbero altri costi importanti da sostenere.

Danilo Turco

Wall Street e i nuovi modelli di sviluppo

Spazi e tempi minimi per accelerare la ripresa in Italia, se si prosegue e si accelera la strada del recupero del debito.

L’attuale calo di Wall Street con l’aumento dei tassi è notizia non gradita a Donald Trump che si era attribuito i meriti del rialzo. E’ anche una notizia ancora peggiore per un Paese indebitato come l’Italia, specie se iniziasse una guerra commerciale tra Europa e Usa, il cui vero bersaglio di Trump è la Germania. Intanto Berlino, varato il nuovo governo, si appresta a effettuare una virata storica: passare da un modello di sviluppo basato sull’export a un paradigma fondato sulle infrastrutture e la crescita dei consumi interni, affidato alla regia del nuovo ministro delle Finanze, il socialdemocratico Olav Scholz, già ministro del Lavoro al tempo delle riforme di inizio millennio , quando è stato garantito il rilancio dell’industria d’oltre Reno. Questa può essere una buona notizia per l’Italia, se si riesce ad accelerare la strada della ripresa, come è stato per il Portogallo, ottenendo un forte recupero della stabilità finanziaria senza incidere fortemente con i sacrifici dell’austerità. Infatti, al momento l’Italia ha fatto meglio delle previsioni, con un Pil salito dell’1,5%, mezzo punto in più rispetto alle stime elaborate a inizio anno dagli economisti, condizione favorevole per poter accelerare la ripresa.

Su questo, l’ ex direttore esecutivo per l’Italia al Fmi ed ex commissario alla spending review, ritiene che se si riuscisse a congelare la spesa primaria in termini reali per tre anni (limitando cioè l’aumento delle spese sotto il tasso di inflazione entro il 2020) l’Italia “pareggerebbe i conti pubblici”. Si tratterebbe di uno sforzo sopportabile e necessario, dal momento che la crescita si avvicina a un punto e mezzo percentuale e perché se si diffonderà nel mondo la recessione, la mancanza di  riduzione del nostro debito italiano ci porterà ad affrontare una salita impervia, che vedrà il debito pubblico alto e in salita in una economia che non cresce, azzoppata dagli oneri finanziari. La crisi delle Borse ci ammonisce che il bel tempo non dura all’infinito e quindi non bisogna perdere l’occasione. Quindi, le Borse tornano a perdere terreno, con il mercato dei Bond (i rendimenti sono saliti su nuovi massimi pluriennali in paesi virtuosi come Usa, Germania e Canada) e l’attuale fase di correzione dei mercati non viene ritenuta un crollo maggiore, dettato dal panico, bensì viene giudicata un ripiegamento salutare e fisiologico dalla maggior parte degli analisti e dei gestori. Questo non fa prevedere che le Borse sono pronte a tornare a crescere come è accaduto nel 2017 e a gennaio 2018. Oggi l’azionario si trova penalizzato proprio dal timore di un ritorno dell’inflazione e di un rialzo dei tassi e, paradossalmente sono le notizie economiche positive (report occupazionale USA) che fanno innervosire gli investitori, dopo la pubblicazione dei dati macro sussidi di disoccupazione Usa settimanali, che oggi risultano aver raggiunto i record minimi.

Nel frattempo, accade che mentre le banche centrali stanno attuando una strategia di rientro delle politiche espansive, la Banca d’Inghilterra non ha alzato i tassi di interesse, ma potrebbe assumere una posizione più aggressiva nel prossimo marzo e durante tutto l’anno, con una stretta che potrebbe imporre sino a quattro rialzi dei tassi.

Danilo Turco

La Data Economy investe Facebook con i suoi risvolti “nefasti”

Sulla copertina del mensile statunitense Wired, per questo mese è ritratto un mesto Zuckerberg, con il viso tumefatto e l’espressione dolorante, come se fosse stato preso a pugni. Ed in effetti è accaduto più o meno questo; è di qualche giorno fa la sentenza di un giudice tedesco che, di fatto, ha assestato un bel colpo all’attuale politica sui dati personali attuata da Facebook.

Dopo le richieste di un’associazione di consumatori (la Vzbv), il Tribunale ha stabilito non solo  che sarà possibile iscriversi al social network di Mark Zuckerberg anche senza alcun obbligo di fornire i propri dati personali autentici, ma, inoltre, che non sarà più considerata valida la clausola, contenuta nelle condizioni generali del social network, secondo cui l’azienda con sede a Menlo Park può cedere ad aziende terze i dati personali e l’immagine del profilo. La sentenza  berlinese ha dichiarato non valide 8 clausole delle condizioni generali e 5 impostazioni predefinite. Attualmente non è ancora passata in giudicato e il colosso del web ha già annunciato di voler ricorrere in appello contro questa decisione. Ma l’impressione è che a Berlino tiri una brutta aria per Facebook.

Facebook nasconde le preferenze che non favoriscono la tutela della privacy nel suo centro privato, senza dare informazione di questo durante la registrazione in modo sufficiente”, ha affermato il referente giuridico dell’Associazione dei consumatori, Heiko Duenkel. Un portavoce dell’azienda di Zuckerberg ha invece ribadito il massimo impegno a rispettare le regole, anche in virtù del nuovo dettame europeo in materia, in arrivo per la primavera: “stiamo lavorando per garantire che le nostre linee guida siano facili da capire e che i servizi offerti da Facebook siano conformi alle leggi” ha detto all’agenzia Reuters. Cosa che risulta un po’ difficile da credere, dati gli ultimi scandali riguardanti il commercio fuori controllo di dati sensibili sulla rete, o la bufera delle fake news, in cui sembra essere stato coinvolto anche il social network in questione e che gli ha procurato un richiamo pesantissimo dalla multinazionale Unilever, il secondo inserzionista a livello mondiale, la quale ha detto che smetterà di investire in piattaforme o ambienti che non proteggono i minori o creano divisioni nella società e promuovono rabbia e odio, prediligendo investimenti solo in piattaforme responsabili impegnate a creare un impatto positivo sulla società.

A quanto pare i 9 miliardi di dollari investiti da Unilever su Facebook, lo scorso anno, saranno solo un lontano ricordo.

Rossella Marchese

LINEAPELLE 2018: Londra e New York protagoniste

 

Appuntamento atteso quello di Linepelle Milano, la più importante rassegna fieristica per l’area pelle.

Un giro d’affari superiore ai 150 miliardi di dollari. Le preview internazionali sono quelle di Londra (23 gennaio) e New York (31 gennaio/1° febbraio). Oltre  1.200 gli espositori di Lineapelle Milano, in calendario dal 20 al 22 febbraio a Fieramilano Rho

LINEAPELLE è, come sottolineano gli organizzatori “il più importante network fieristico per la fornitura del fashion & luxury system (concerie, accessori e componenti, tessuti e sintetici)”.
Primo appuntamento quello tenuto il 23 gennaio, nella sede dell’Ham Yard Hotel di Londra, con LINEAPELLE London che costituisce un evento di forte attrattiva per il mercato britannico sia “per i brand (visitatori di riferimento della rassegna) e i suoi stilisti, sempre orientati alla ricerca dei materiali migliori e più adatti ad esprimere la loro tradizionali estrosità e capacità di rompere gli schemi”. 49 gli espositori. Nata a febbraio 2009, Lineapelle London, è una fiera di “nicchia”, che  a gennaio e luglio di ogni anno rappresenta un appuntamento di sicuro interesse per gli operatori del settore.
Il 31 gennaio e il 1° febbraio, presso il Metropolitan Pavilion, protagonista LINEAPELLE New York.  Questo rappresenta un “riferimento fieristico d’alta gamma per il mercato nordamericano”, 123 i selezionati espositori di fascia alta, numero superiore a quello presente l’anno precedente.

Con i due appuntamenti di Londra e New York vengono presentate in anteprima le collezioni ispirate a Emphaty, tema stilistico sviluppato dal Comitato Moda per la stagione estiva 2019 in attesa dell’evento clou per l’area pelle globale: LINEAPELLE94 in programma a Milano (Fieramilano Rho) dal 20 al 22 febbraio.

Alessandra Desideri

 

Mercato del lavoro e quarta rivoluzione industriale

La quarta rivoluzione industriale rischia di dividere il mercato del lavoro tra privilegiati con un lavoro adeguato e stipendio commisurato e  precari in percorsi di carriera discontinui e mansioni dequalificate con bassi salari.

Sono per questo giunte da più parti proposte per attenuare gli effetti negativi di questa rivoluzione tecnologica. Tassare l’innovazione o i robot (come proposto da Bill Gates) o trasformare il mondo fatto da persone che vivono di sussidi (reddito di cittadinanza), sarebbe meglio aiutare i lavoratori a rimanere tali (proposta di Obama). Da qui l’importanza di misure attive per la prevenzione o la compensazione del reddito come programmi di formazione permanente, prestiti a lungo termine a fini di riqualificazione professionale con programmi di assicurazione sui salari.

La U.S. Bureau of the Census Displaced Workers Survey mostra che nel 2013-15 i lavoratori Usa spiazzati da globalizzazione e tecnologia sono stati 3,2 milioni, più del 2 per cento degli occupati americani. Due terzi di questi hanno ritrovato un lavoro nel gennaio 2016  (53%) e guadagna più o meno lo stesso reddito di una volta, mentre il 47% si è trovato a guadagnare di meno. Se la disoccupazione è causata dalla tecnologia e riguarda lavoratori esperti, occorrono strumenti di compensazione di reddito che durino nel tempo, più dell’indennità di disoccupazione, operando come strumento di assicurazione/rassicurazione sociale.

Il governo italiano sembra prendere sul serio queste idee. Nella legge di bilancio 2018 ci sono due articoli che destinano risorse a piani di integrazione salariale per accompagnare ristrutturazioni aziendali e la ricollocazione di lavoratori presso altre aziende. Nell’articolo 19 si stanziano fino a 100 milioni di euro annui per prorogare l’intervento straordinario di integrazione salariale nel caso di processi di riorganizzazione aziendale particolarmente complessi per gli investimenti richiesti e per le scelte di reintegro occupazionale. Nell’articolo 20 (comma 4) il lavoratore che accetta l’offerta di un contratto di lavoro con un’altra impresa viene esentato dal pagamento dell’Irpef sul Tfr, oltre al diritto a ricevere un contributo mensile pari a metà del trattamento straordinario di integrazione salariale che gli sarebbe stato altrimenti corrisposto con l’articolo 19. Per il datore di lavoro è previsto il dimezzamento dei contributi previdenziali (fino a 4.030 euro su base annua). Sono i primi passi nella direzione giusta ed equa.

Danilo Turco

Riforme fiscali Usa e EU

Molti si chiedono se la riforma fiscale di Trump avrà conseguenze anche in Europa. Diverse sono le misure che l’UE potrebbe adottare per mitigare/annullare il vantaggio competitivo USA, fatto che genererà di certo la concorrenza fiscale fra i Paesi.

La riforma fiscale americana prevede la deducibilità immediata, non in più periodi d’imposta, del costo di determinati beni strumentali per i prossimi cinque anni, con l’effetto di escludere da tassazione il rendimento normale del capitale investito; un’altra disposizione introduce anche un regime agevolativo di tassazione (il cosiddetto patent box) per i redditi derivanti dall’utilizzo di beni immateriali, al 13,125%. Conseguenza di questo è che la deduzione immediata dei componenti negativi di reddito può attrarre investimenti esteri in immobilizzazioni materiali negli Usa; d’altro canto, il patent box può incoraggiare lo spostamento dei profitti derivanti dallo sfruttamento delle opere di ingegno negli Stati Uniti. Ambedue le suddette disposizioni possono preoccupare i principali Paesi dell’UE, per la eventuale perdita di posti di lavoro e di gettito fiscale. A questo, una possibile reazione potrebbe essere un allineamento al ribasso, l’adozione di regole simili. Per esempio, il Regno Unito ha già annunciato la riduzione dell’aliquota dell’imposta sulle società dall’attuale 19 al 17 per cento entro l’aprile del 2020 e il patent box al 10 per cento.

Alcuni partner commerciali degli Stati Uniti, come Francia, Germania e Italia, potrebbero applicare la disciplina delle Controlled Foreign Companies alle controllate estere domiciliate negli Stati Uniti. Il regime statunitense prevede un sussidio (aliquota del 13,125 invece del 21%) che è direttamente legato al reddito dalle esportazioni ed è quindi incompatibile con le disposizioni dell’Organizzazione mondiale del commercio in materia di sussidi vincolati alle esportazioni. Come già avvenuto in passato, la UE impugnerà tali disposizioni in seno all’Omc e, probabilmente, vincerà. Di conseguenza, sotto la minaccia di sanzioni, gli Stati Uniti saranno costretti ad abbandonare il patent box e si inasprirà l’attuale livello di concorrenza fiscale internazionale, producendo il rimpatrio degli utili delle controllate estere esentasse delle multinazionali Usa, per spostarli in paesi con un’aliquota inferiore al 21%. A tutto questo potrebbe seguire un incentivo a localizzare investimenti e lavoro nei Paesi europei a bassa tassazione.

Danilo Turco

Nigeria, tra petrolio e Boko Haram si muove la prima economia africana

I World Development Indicators della Banca Mondiale relativi alla Repubblica Federale della Nigeria certificano come con i suoi circa 180 milioni di abitanti essa sia lo Stato più popoloso del continente e, a partire dal 2014, a seguito della revisione del metodo di calcolo del PIL, ormai anche la prima economia superando il Sudafrica.

Una terra ricca di materie prime e realtà tra le più privilegiate in un continente, però, spesso vittima della maledizione delle risorse. La rapida industrializzazione e l’urbanizzazione realizzata negli ultimi decenni è stata garantita e finanziata principalmente dal petrolio, che rappresenta oltre i 2/3 delle entrate dello Stato, e dall’afflusso di investimenti diretti esteri. La scoperta dell’oro nero nel 1956 da parte di Shell nello stato di Bayelsa ha reso il Delta del Niger un’area strategica a livello globale, e la città di Port Harcourt il principale hub petrolifero del Paese. Mentre solo recentemente è stato annunciato l’avvio dell’estrazione di petrolio anche al largo della capitale economica nigeriana Lagos, megalopoli da oltre 16 milioni di abitanti e settima città al mondo per velocità di crescita demografica. Di rilievo è anche l’estrazione di gas naturale, di cui la Nigeria possiede i più ricchi giacimenti del continente.

Eppure le difficoltà dovute ai sabotaggi agli impianti petroliferi  e la minaccia intermittente di Boko Haram a nord del Paese, ne fanno una realtà economica ancora poco stabile.

L’Italia, però, è da anni tra i sostenitori della necessità di rafforzare le relazioni con il continente africano. In questo quadro la Nigeria rappresenta un interlocutore imprescindibile e l’azione diplomatica del governo italiano negli ultimi anni in Africa lo ha dimostrato.

Dal 2014, infatti, l’attività diplomatica italiana nel continente africano è stata intensa, con missioni in Angola, Mozambico, Congo-Brazaville, Kenya ed Etiopia. Mentre nel febbraio del 2016 la terza missione africana del governo è partita proprio da Abuja per fare tappa successivamente in Ghana e Senegal.

Questa nuova attenzione per l’Africa da parte dell’Italia risponde alla convinzione strategica che per il nostro Paese è di fondamentale importanza rafforzare la cooperazione economica e politica non solo con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, storicamente e culturalmente a noi più vicini, ma anche in quell’Africa Sub-Sahariana ricca di opportunità quanto di contraddizioni. Anche per far fronte a nuove ed incisive politiche migratorie.

I settori di interesse sono molteplici non solo nell’ottica dello sviluppo del know-how e dell’industria locale e nell’ammodernamento e ricostruzione delle infrastrutture (idrocarburi, industria estrattiva, meccanizzazione agricola, costruzioni, infrastrutture, servizi portuali e ingegneristica), ma opportunità interessanti esistono per l’esportazione di beni di consumo (arredamento, agroalimentare, abbigliamento) e di lusso. L’obiettivo è intercettare i tanti ricchi nigeriani. Basti pensare che in una città come Lagos, secondo le stime di un recente studio di SACE e ISPI, sono circa 10.000 i milionari che possono permettersi tutte le eccellenze del Made in Italy.

La sfida, in Nigeria così come in tutto il continente africano, passa dalla capacità di convertire un “boom economico” decennale, garantito dal super ciclo delle commodities e dai prezzi del petrolio lontani anni luce da quelli attuali, in una traiettoria di crescita di lungo termine sostenibile che ne dispieghi appieno il potenziale, dando a queste realtà i mezzi per affrontare un futuro sempre più complesso. Una sfida difficile ma indubbiamente giusta.

E l’Italia in questa sfida può, vuole e deve avere un ruolo.

Rossella Marchese

Storica vittoria dell’Uruguay contro la multinazionale Philip Morris

La Philip Morris ha perso la causa che aveva presentato contro l’Uruguay presso l’organismo della Banca Mondiale per l’arbitraggio sugli investimenti, in quella che il Presidente del Paese sudamericano, Tabaré Vazquez, ha definito un successo nella lotta contro l’industria del tabacco.

È necessaria una precisazione, la giustizia internazionale, nel caso di specie un tribunale di fronte al quale possono presentarsi le imprese multinazionali che ritengono di essere state danneggiate da un determinato governo, si è occupata del caso ed ha respinto la richiesta di risarcimento da 25 mln di dollari avanzata da Philip Morris dichiarandosi incompetente sulla materia.

Vazquez in merito ha annunciato, in un breve discorso televisivo alla nazione, che il Tribunale di arbitraggio internazionale per il regolamento delle controversie relative ad investimenti (Icsid) ha respinto totalmente le pretese delle industrie del tabacco.

La Philip Morris, infatti, aveva denunciato Montevideo per violazione delle convenzioni internazionali sugli investimenti, ricorrendo al meccanismo della disputa internazionale investitore-stato (Isds), dopo che il governo di Vazquez aveva imposto condizioni molto restrittive per la vendita di sigarette in Uruguay, riducendo il numero di marche commercializzate dall’azienda e fissando regole drastiche per il packaging e la pubblicità dei suoi prodotti: il piccolo Paese sudamericano, infatti, ha approvato una legge che assegna l’80% della superficie dei pacchetti di sigarette agli avvisi scritti e visivi legati ai danni del fumo.

Il Presidente, non solo dirigente socialista, quanto piuttosto noto oncologo, ha sostenuto la sua personale battaglia contro le dipendenze create dal tabagismo e dall’utilizzo di marijuana, molto diffuse in Uruguay, e la sentenza del Tribunale arbitrale gli ha riconosciuto la vittoria, decidendo in favore delle misure adottate in funzione del potere sovrano della repubblica uruguayana: “d’ora in poi, qualora le industrie del tabacco cerchino di moderare le regolamentazioni degli accordi sui loro investimenti usando la minaccia di una causa, avranno a che fare con il nostro precedente”, ha sottolineato Vazquez. Ed in effetti, il carattere intimidatorio dell’azione presentata (e poi persa) dalla Philip Morris è apparso alquanto evidente.

In sostanza, una giustizia commerciale, parallela ai canali degli ordinamenti giuridici nazionali, davanti alla quale gli stati e i privati hanno lo stesso peso, ha stabilito con tale sentenza, per la prima volta a livello internazionale, la prevalenza dell’interesse pubblico, in questo caso della salute pubblica, rispetto agli interessi commerciali. Un risultato che conferma che sul tema della salute è stato toccato il limite rispetto alla libertà d’impresa.

Rossella Marchese

Lo scenario Ryanair sta cambiando

Ryanair ha riconosciuto i sindacati e accettato di dialogare con loro, ma in realtà non è altro che un tentativo di calmare le acque. Infatti, sono già state inventate le auto a guida autonoma e sono in fase di sperimentazione anche se non possono ancora sostituirsi a quelle a guida umana e per far volare gli aeromobili occorrono ancora piloti ed equipaggi. La verità è che per formare piloti occorre sostenere costi onerosi e impegnare molto tempo. Per questo, la domanda di piloti, in un mercato del trasporto aereo in accelerazione, risulta essere più dinamica rispetto all’entrata sul mercato del lavoro di nuovi piloti formati e va a generare scarsità e tendenza alla crescita dei loro salari.

E’ stata questa recente accelerazione del mercato che ha influenzato i cambiamenti di scenario, cogliendo Ryanair di sorpresa.

Nell’immediato futuro è evidente come le condizioni di utilizzo dei piloti di Ryanair e la loro remunerazione economica siano destinate ad avvicinarsi a quelle dei vettori tradizionali. Va quindi osservato come non sia l’aumento di stipendio ai piloti a minare la competitività di Ryanair, per questo la soluzione risulterebbe semplice: basta aumentare lievemente il costo dei biglietti e apportare una piccola riduzione dei profitti. Invece, occorre che Rayaner investa di più per affrontare lo scenario futuro di accelerazione di mercato.

Danilo Turco

La nuova via della seta verso la Cina

Oggi ci si chiede quale effetto produrrà la Belt and Road Initiative (Bri),  nuova frontiera della globalizzazione economica, quali le implicazioni possiamo attenderci sul commercio internazionale? Di certo il potenziamento delle infrastrutture di comunicazione e di trasporto terrestre e marittimo ne ridurrà i tempi e i costi, ma anche nuove relazioni commerciali  potranno rivelarsi convenienti tra gli stati che oggi sono tra di loro isolati o proibitivamente distanti. A riguardo attualmente va riconosciuto come la carenza di collegamenti internazionali nell’Asia per quei paesi che non hanno accesso al mare come il Pakistan. Infatti, a riguardo vanno considerati i costi di connettività marittima e l’efficienza logistica, le due variabili che incidono sui costi di trasporto più della distanza geografica. Infatti pare che l’assenza di un collegamento marittimo diretto riduce del 55 per cento il valore dell’export di un paese.

Per questo l’effetto di Bri che è più difficile da prevedere, da considerare piuttosto dirompente, è quello che riguarda le suddette sulle modalità di trasporto del commercio internazionale, per cui solamente se ci sarà potenziamento delle rotte terrestri per il trasporto via terra, le rotte marittime potrebbero subire la concorrenza e che riguarderà i rapporti commerciali Europa-Cina.

Oggi i costi di trasporto del commercio bilaterale Cina-Europa risultano più alti della media mondiale per cui in alcuni settori, high-tech ed elettronica, stanno già spostandosi su rotaia e d’altro canto, le agenzie marittime e le autorità portuali si sono messi all’opera per riprogettare le corsie marittime, con la finalità di migliorare , riducendo i tempi di spedizione.

Danilo Turco

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