Alcolismo: le conseguenze sui figli di un padre alcolista

“Vivevo nel terrore ogni volta che sentivo i suo passi. Mio padre era un alcolizzato, beveva perché era debole e non sapeva affrontare i problemi della vita e questo lo portava ad essere violento. È stato il mio incubo e quello di mia madre per diversi anni”

Rifugiarsi nell’alcool per fuggire alle difficoltà della vita non può essere un rimedio anzi, si finisce per far soffrire chi si ha attorno, soprattutto quando a pagarne le conseguenze sono i figli. Difatti, per i figli, vivere con genitori che incutono terrore giorno e notte, li fa crescere con il timore di poter essere aggrediti in qualsiasi momento e da chiunque, anche quando si è fuori pericolo. Questo può portare ad avere difficoltà soprattutto durante l’adolescenza e non solo, corrono il rischio di trascinarsi questa paura fino all’età adulta. Le difficoltà che incontrerà colui che ha vissuto con un padre violento possono essere di diverso genere: ansia, paura dell’abbandono, difficoltà a relazionarsi con i coetanei, difficoltà nello studio, iperattività o, al contrario, si chiude in sé stesso, si isola o si circonda di troppe persone (di chiunque e spesso anche compagnie sbagliate perché si accontenta, perché crede di non poter meritare di più). Ancora, corre il pericolo di poter essere anaffettivo, oppure rischia di vivere con il continuo bisogno di affetto ma allo stesso tempo riscontrando problemi nelle relazioni, soprattutto quelle amorose.

“Perché se mio padre non mi ama come può amarmi qualcun altro?” è questo il quesito che si pone chi è cresciuto con una figura paterna violenta. Oltre alla carenza d’affetto, al perenne timore di essere aggredito e al vuoto che può lasciare nel cuore di un bambino un padre assente, si aggiunge la violenza verbale: parole offensive sminuiscono e svalutano il valore di chi le subisce, finendo per credere davvero in ciò che gli viene detto, ossia di non poter essere all’altezza di realizzare ciò che desidera.

Spesso, tanta tensione accumulata si somatizza in varie forme di malessere o, addirittura, nel peggiore dei casi, in gravi malattie. È fondamentale, quindi, chiedere aiuto qualora non si avesse la forza di reagire da soli ma bensì una grande volontà di farlo, perché  razionalizzare, prendere atto della sofferenza subita e riuscire a esternarla, ci regala la possibilità di lasciarla andare via per poter mettere una distanza tra noi e quella persona che per anni ci ha recato tanto dolore e dispiacere, in modo tale da riuscire ad accantonare quei brutti momenti e far si che diventino ricordi  lontani e magari il punto di forza da cui ricominciare. L’importante è comprendere che chi soffre non è chi subisce, ma chi fa del male. La vittima, prima o poi, se ne libera e va avanti, chi fa del male non può che continuare a vivere nell’infelicità e nell’incapacità di gioire della vita.

“Ho capito che l’unica soluzione sarebbe stata quella  di farmi aiutare e allontanarmi da lui perché solo così sarei riuscito a buttarmi tutto alle spalle e ricominciare da capo. Perché tutta quell’angoscia io la somatizzavo in forti mal di stomaco”. Emiliano 29 anni, napoletano racconta la sua esperienza con un padre alcolizzato.

Emiliano, ricordi quando tuo padre ha iniziato ad essere violento?

Da  sempre. Anche solo in piccole dinamiche, anche solo verbalmente o con i toni con cui si rivolgeva a me. Mia madre dice che quando erano fidanzati o all’inizio del matrimonio lui non era così, ha iniziato ad esserlo quando lei aspettava me, lui non voleva avere figli. Fabio (mi padre) suonava il pianoforte in una band e faceva concerti in piazza. Non solo, dipinge, ama disegnare ed è anche molto bravo, obiettivamente parlando. Si definiva un’artista, ma io credo che l’artista abbia un animo gentile, sensibile ed empatico, soprattutto. L’unica cosa buona che mi ha trasmesso è questa forte passione per l’arte. Per tutto il resto io sono e voglio essere una persona completamente diversa da lui.

Quanti anni avevi quando siete andati via di casa insieme a tua madre?

Avevo cinque anni quando una notte mio padre tornò ubriaco alle tre e voleva mettersi a suonare con i suoi amici. Mia madre glielo impedì e lui reagì malamente. Quella stessa notte, con la bocca sanguinante, mi prese in braccio e corse a casa di sua madre (mia nonna materna). Tutt’oggi, mamma si rammarica per non avermi portato via prima da quel mostro ma io non ce l’ho con lei anzi, capisco che era la vittima e quando è così non si ha la forza di reagire. Per fortuna, quando in quella casa si è toccato veramente il fondo, ha avuto il coraggio di andare via.  Purtroppo, però, io ci ho impiegato anni per buttarmi alle spalle tutti quegli episodi di violenza che abbiamo subito, tra calci e insulti.

Ti fa ancora male ricordare quegli episodi?

Con la maturità di adesso no, mi fa ancora rabbia solo per le conseguenze che hanno avuto i suoi comportamenti violenti su mia madre. Ma grazie all’affetto di mia nonna, mia mamma e del suo nuovo compagno sono riuscito ad andare avanti anche se ho riscontrato diverse difficoltà sia a concentrarmi nello studio sia nei rapporti umani, e soffrivo anche di forti mal di stomaco. Crescendo ho chiesto aiuto ad uno psicanalista e insieme abbiamo affrontato il mio passato, razionalizzandolo e accantonandolo per sempre. L’allontanamento da Fabio (mio padre) è stato, col tempo, solo una rinascita per me. Ho capito che è una persona perennemente infelice, incapace di apprezzare qualsiasi cosa della vita e quindi non può che suscitarmi tanta pena e tristezza, perché io che ho subito posso andare avanti, lui non saprà mai essere felice.

Quando hai iniziato a chiamarlo per nome e non più papà?

Da quando, verso i 10 anni, io e mia madre siamo andati a vivere a casa del suo compagno. Ho quindi iniziato a considerare lui mio padre, anche perché si comportava da tale e, di conseguenza, chiamavo mio padre biologico per nome. Per porre, una volta per tutte, questo distacco tra me e lui. In realtà, fino a quando avevo 9 anni, Fabio, veniva a casa di nonna a trovarmi ma io spesso fingevo di dormire avendo come complice nonna. Adesso vive fuori Napoli, per fortuna, e allora ho preso la palla al balzo per allontanarmi del tutto da lui.

Quali sono i ricordi belli e brutti che hai di lui?

Quando ancora vivevo con lui aveva dei momenti di lucidità e mi portava al parco, alle giostre, anche se spesso vedevo le sue reazioni eccessivamente aggressive anche con il prossimo, anche per cose molto futili dove non ce ne sarebbe stato bisogno. Ho anche trascorso dei momenti piacevoli con lui da bambino perche sapeva essere, a volte,  una persona divertente ma passava da uno stato d’animo all’altro e questo mi scombussolava. Ho deciso di perdonarlo per me stesso ma non voglio più averci a che fare. Anche se è colui che mi ha messo al mondo io non lo considero mio padre e credo fermamente che non basti avere lo stesso sangue. Per me non è, e non sarà mai mio padre.

Alessandra Federico

Il MARCONI va in scena… al tempo del COVID

Gli studenti dell’I.S. “G. Marconi” di Giugliano impegnati nel progetto realizzato nell’ambito dell’iniziativa “PER CHI CREA” promosso dal MiBAC e SIAE

E’ già ripreso con fervore da alcune settimane dopo una lunga pausa causata dalla situazione che si è generata dalla pandemia e dal lockdown, nel rispetto delle norme anti Covid-19, il lavoro di preparazione per la messa in scena nella nuova modalità online del lavoro che vede protagonisti gli studenti dell’I.S. “G. Marconi” di Giugliano in Campania. 

Nato originariamente come “musical”, con il sostegno del MiBAC e di SIAE nell’ambito dell’iniziativa PER CHI CREA, ha dovuto necessariamente fare i conti con tutte le problematiche legate al Covid-19 che hanno limitato la possibilità di studiare e stare a scuola in presenza e di conseguenza di portare avanti l’iniziativa.

La prof. Giovanna Mugione, dirigente scolastico del prestigioso Istituto, che ha conquistato nel corso degli anni importanti riconoscimenti nazionali ed internazionali, però, non si è arresa all’impossibilità di andare in scena con il musical “Il Marconi va in scena” e insieme ai docenti impegnati nel progetto, all’autore, al regista, agli esperti (storica dell’arte, giornalista, musicista, coreografa) coinvolti nel lavoro ha ripensato l’iniziativa attualizzandola all’odierna situazione.

Gli studenti del Marconi saranno quindi i protagonisti con i loro personaggi di questa storia d’amore ambientata tra presente e passato nei luoghi dei Sedili di Napoli.

Certo, il lavoro di organizzazione e realizzazione è e sarà più complesso ma gli studenti-protagonisti di questo straordinario impegno, dagli attori ai tecnici audio-video, non hanno perso l’entusiasmo iniziale anzi hanno accettato con interesse e impegno la nuova sfida lanciata certi di portare a termine questa nuova importante esperienza.

 

 

Tansgender: i coraggio di essere liberi. La storia di Marcello

“Io non mi sento a mio agio, questo corpo non è mio, quando mi guardo allo specchio non riesco a vedere la mia anima.” Marcello, trentotto anni, napoletano, racconta la sua storia.

Marcello, quanti anni avevi quando hai scoperto di essere attratto da persone del tuo stesso sesso?

Prima di provare attrazione verso una persona del mio stesso sesso, io ho da sempre sentito il desiderio di essere donna, al di là di tutto. Avevo solo 7 anni. Una domenica mattina stavo passeggiando con mia madre quando vidi passare una meravigliosa donna (ad oggi credo almeno al 7 mese di gravidanza) e nel guardarla provai una sensazione di invidia. Invidia, perché già a quella tenera età pensavo che quella di creare una vita dentro sé fosse la gioia più grande che una donna possa provare e che io, essendo maschio, non avrei mai potuto provare una sensazione simile. Diventando grande, questa voglia di voler essere donna cresceva sempre di più, ma, allo stesso tempo, è sempre stata una sofferenza per me perché mio padre non mi accettava. Mio padre era uno di quegli uomini che avrebbe preferito avere un figlio drogato anziché omosessuale. Mio padre ha sempre maltrattato me e mia madre. La sofferenza che mi porto dietro da bambino ha segnato tutta la mia vita. Avevo sedici anni quando provai a dire a mio padre che non sarei mai stato con una ragazza e che un giorno avrei voluto diventare donna a tutti gli effetti. La sua reazione fu tremenda. “Meglio avere un figlio delinquente o tossicodipendente, ma io un figlio come te non lo voglio, non l’ho fatto io”- disse – naturalmente, da bravo maschilista- facendo ricadere tutta la colpa su mia madre, dicendole che, non mi aveva concepito con lui o che, peggio ancora, non era stata una buona madre perché aveva fatto venir su “un uomo che non è uomo”, come diceva lui- adesso ho trentotto anni e sono stato in terapia dallo psicanalista (portato con la forza da mio padre) per ben tredici anni. Ho dovuto fingere di essere tornato etero o, meglio ancora normale, come voleva sentirsi dire mio padre. Odiavo quell’uomo. Solo due anni fa ho avuto il coraggio di andare via e prendere casa con mia madre. Mio padre è morto un anno fa. Io non riesco a sentire la sua mancanza. Ora vivo la vita che voglio.

Pensi di realizzare presto il tuo sogno?

Sì, presto andrò a vivere dall’altra parte del mondo, proprio perché il mio desiderio più grande è quello di diventare donna a tutti gli effetti e vivere tranquilla senza essere giudicata ogni giorno come accadrebbe se restassi a vivere qui in Italia. Voglio potermi guardare allo specchio e vedere la mia anima nel corpo giusto. Voglio poter essere me stessa e con chiunque, senza dovermi nascondere o vivere con il terrore di essere giudicata, maltrattata. Voglio scendere per le strade della città vestita da donna, truccarmi e portare tacco dodici di Jimmy Choo, poter interagire con altre donne ed essere considerata tale. Io sono una donna, lo sono sempre stata. Tra meno di un anno realizzerò tutti i miei sogni. Ma c’è un pensiero che mi tormenta: sono felice ora che mio padre non c’è più. Mi tormenta perché mi fa credere di essere una persona crudele, anche se mia madre mi ripete in continuazione che questo nostro stato di felicità ora è comprensibile perché quell’uomo ci ha reso la vita un incubo per anni. Molte persone mi dicevano che sono un debole perché solo a trentasei anni ho avuto il coraggio di andar via. Forse è cosi, ma chi non l’ha vissuto non può provare quello che ho provato io. Purtroppo io dipendevo mia madre che a sua volta dipendeva da lui. Lei non riusciva a mandarlo via, è come se avesse per anni avuto una sorta di dipendenza da lui e questo ha fatto si che di conseguenza anche io dipendessi da qualcun altro: da mia madre, ero morbosamente legata a lei e in realtà lo sono ancora tutt’ora. Non riuscivo ad andare via di casa finché non è venuta anche lei con me. E, soprattutto, la mancanza d’affetto che avevo da parte di mio padre ha fatto si che io mi sentissi sempre un po’ bambino.

Come hai trovato la forza di andare via nonostante tutto e di portare tua madre con te?

Ero stanco, esausto. Ero esasperato. Da quando sono nato non ho mai vissuto la vita che volevo e ho più volte addirittura pensato di farla finita ma un giorno, tornando da lavoro, trovai mia madre per terra con il labbro sanguinante e mio padre che dormiva sul divano con una bottiglia di liquore, allora pensai che se fossi finito io, nessuno avrebbe salvato mia madre. Avevo il sospetto, sin da bambino, che lui fosse violento con lei, ma mia madre aveva da sempre negato. Quando ti toccano la cosa che hai più cara al mondo, puoi arrivare a tirar fuori tutta la forza che non credevi nemmeno di poter avere. Mio padre, oltre ad essere una persona violenta, era un alcolista. Credo che in quel momento mi si sia annebbiata la vista perché mai avevo visto mia madre in quelle condizioni. Ad oggi credo sia stato un bene, forse, paradossalmente. Perlomeno quella vicenda ci ha fatto trovare il coraggio di andar via. Tutto l’odio represso che avevo provato da sempre nei confronti di mio padre l’avevo finalmente e improvvisamente scaricato in quel momento. Per la prima volta in tutta la mia vita sentii un senso di liberazione e soprattutto avevo io, anche se solo per poco, la situazione in mano. Presi mia madre per mano e racimolammo un po’ di cose da portar via e alloggiammo per qualche notte a casa di sua sorella fino a quando abbiamo trovato la casa dove finalmente abitiamo adesso. Dopo circa un anno mio padre morì con una brutta malattia. Sono ovviamente andato al funerale. Non ne sento la mancanza.

Adesso com’è la tua vita?

Decisamente migliore. Sono libera, almeno in casa, di essere come sono e dire ciò che voglio. Fuori casa ancora c’è qualcuno che mi giudica per come parlo o per come mi vesto. Ora che mio padre non c’è più io sono rinata e con me anche mia madre.

Nessuno ha il diritto di rovinare la vita degli altri e nessuno dovrebbe permettere al prossimo di farsi rovinare la vita. Mia madre era sua succube, la sua martire, la sua schiava. Lei ora è un’altra persona. Vederla sorridere, vestirsi e truccarsi come desidera, addirittura trovarsi un lavoro e uscire con le amiche, le sue nuove amiche, mi riempie il cuore di gioia. Adesso la mia vita ha un altro sapore, mi pento solo di non aver avuto prima la forza di liberarmene, avrei potuto iniziare a vivere molti anni fa. Anche se, per anni e ogni giorno, cercavo di fare il lavaggio del cervello a mia madre ma con scarsi risultati. Ho trascorso tanti anni vivendo così, soffriva lei e soffrivo io. “Mamma, fallo per me” le dicevo sempre. Lei mi guardava e piangeva e diceva che per me si sarebbe fatta ammazzare e che la cosa che più le faceva male era che non riusciva a reagire per suo figlio, allora mi supplicava ogni giorno di andarmene ma io senza lei non riuscivo a farlo. Adesso, la cosa che conta, è che entrambi abbiamo avuto la forza di andar via. Bisogna avere il coraggio di ribellarsi e di liberarsi di queste persone, maggiormente se fanno parte della famiglia, anche se è difficile. Personalmente, oltre a questa situazione demoralizzante con mio padre, io dovevo affrontare ogni giorno le critiche delle persone di quartiere, a scuola, al catechismo e in ogni luogo io mettessi piede. Ho subito atti di bullismo sin dalle elementari, e per me, vivere così dentro e fuori casa non mi dava la forza di lottare. Mi sentivo solo.

Come hai affrontato le critiche e i bulli?

Naturalmente ogni giorno andavo a scuola e ogni giorno subivo. Parole offensive, sgambetti, mi rubavano la merenda. “ Marcella 5 stelle” mi chiamavano. Perché amavo indossare braccialetti con dei ciondoli luccicanti e loro dicevano che somigliavano ai lampadari di un albergo a 5 stelle. Quando tornavo a casa, le persone del quartiere mi deridevano, e parlavano a bassa voce e c’era chi accennava un sorriso o chi addirittura rideva senza ritegno. Alcuni ragazzini con il motorino mi bloccavano e non mi facevano passare. Quando tornavo a casa, cercavo conforto dai miei genitori ma da mio padre ottenevo solo insulti. Mio padre litigava con tutto il quartiere per far capire loro che io fossi etero e che lui un figlio “anormale” non ce l’aveva. Intanto, però, continuava a trattarmi male perché diceva che dovevo parlare e camminare come fa un uomo. Mi iscrisse a calcetto, mi comprava giornaletti porno, ovviamente con immagini di donne. Credeva fosse una malattia, ne era convinto e lo è stato fino alla fine. Allora dopo questi lunghi tredici anni di terapia dallo psicanalista ho dovuto poi fingere di essere etero.

Non avevi nessuno amico che ti supportava?

A parte mia madre, avevo la mia migliore amica Alice. Per il resto ho avuto sempre problemi a relazionarmi con le persone, a crearmi amicizie e soprattutto ero molto insicuro e non mi fidavo di nessuno. Credevo, inoltre, di non essere capace a fare nulla, nemmeno di laurearmi e di realizzare i miei sogni, perché mio padre mi aveva da sempre fatto sentire un buono a nulla. Ora ho preso consapevolezza di ciò che sono e di quanto valgo e quindi di poter raggiungere qualsiasi tipo di obiettivo alla pari di chiunque altro. È una sicurezza che ho acquisito col tempo, quando mi sono reso conto della bella persona che sono. Alice è ancora la mia migliore amica anche se per un periodo lei è stata innamorata di me. Ma questo poco conta. Ora è sposata con Diego e hanno una bambina bellissima. Alice mi ha aiutato tanto nei momenti di sconforto, quando tutti mi andavano contro e quando nemmeno con mia madre potevo parlare perché era occupata a fare da schiava a quel mostro che aveva sposato. Se c’è una cosa che penso spesso è che se non avessi avuto lui come padre, la mia vita sarebbe stata completamente diversa, io sarei stata un’altra persona, magari più sicura di me. Adesso sono felice, anche se la morte di una persona dovrebbe portare sofferenza, io mi sento una persona nuova. Penso che per le cattiverie che si fanno prima o poi la vita ti presenta il conto tutto all’improvviso. E così è stato per lui. Spesso mi domandano come faccio ad essere così buona e altruista dopo tutto quello che ho subito dalla gente e soprattutto avendo avuto un padre così. La mia risposta è stata semplice: “proprio perché ho avuto un padre così, so bene come voglio essere, e di certo non come lui. Mi aveva rovinato la vita, avevo grandi ambizioni, volevo studiare biologia ma non l’ho mai fatto perché mi perdevo, mi smarrivo come se non riuscissi a mettermi sulla retta via e condurre una vita stabile. Ho quindi sempre lavorato come magazziniere. Mi sentivo disperso, la mia situazione personale e familiare mi faceva stare sempre male, ho praticamente vissuto da sempre in uno stato di disorientamento totale. Adesso sono già al secondo anno di università. Voglio riprendere la mia vita in mano. Non importa quanti anni io abbia e quanto ritardo possa fare nel realizzarmi. Conta solo quanto, da oggi in poi, quanto io possa vivere davvero come desidero. Ho solo paura di essere ancor più preso in giro ed emarginato una volta aver cambiato corpo, perché conosco storie di diverse persone che hanno avuto problemi ad inserirsi anche nel mondo del lavoro. Ma io credo che andrò via, oltre oceano, dove potrò sentirmi vivo davvero.

Alessandra Federico

 

Lavoro, Banche, Territorio, Sindacato: attualità e prospettive al tempo del Covid-19

La web conference della Segreteria e Presidenza UNISIN Regionale della CAMPANIA, tenutasi lo scorso 23 marzo, dal titolo “Lavoro, Banche, Territorio, Sindacato: attualità e prospettive al tempo del Covid-19”, è stata occasione di spunti per interessanti riflessioni da parte dei tanti intervenuti.

L’organizzazione del convegno è stata curata da Bianca Desideri, Segretario Regionale responsabile di UNISIN Regionale CAMPANIA, giornalista e direttore della testata giornalistica Professione Bancario che ha moderato l’incontro e introdotto gli interventi degli illustri relatori.

L’on. Gennaro Migliore, componente della Commissione Affari Esteri e Comunitari e della Commissione Parlamentare di Inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali anche straniere, nel suo intervento ha ricordato la priorità, in ogni situazione, di riconoscere i diritti fondamentali dei lavoratori. Il diritto al lavoro deve essere sempre anche diritto alla salute ed alla salvaguardia contrattuale. Ha, quindi, sottolineato la necessità di un raccordo tra territorio e credito, soprattutto in questo momento di forte crisi per tante categorie economiche, in modo particolare per le piccole imprese e per le partite IVA, che soffrono di una grande crisi di liquidità. Un puntuale intervento governativo è ora fondamentale. In questo particolare momento i lavoratori del credito sono stati sempre presenti, a beneficio di tutte quelle persone in difficoltà economica a causa della attuale crisi. Sarà, comunque, prioritaria una decisa attività, volta ad impedire che la criminalità approfitti di questo momento di crisi economica e finanziaria per conquistare nuovi spazi.

La Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Napoli Isabella Bonfiglio ha rappresentato i tanti e gravi problemi che in questo particolare momento affliggono molte lavoratrici e lavoratori, anche degli istituti di credito, che vivono la situazione del lavoro agile con particolare difficoltà, ormai aggravata dalla attuale situazione determinata dal COVID-19. In particolar modo è diffuso il fenomeno del cosiddetto straining, che viene attuato con un comportamento vessatorio nei confronti del lavoratore, che subisce una sorta di isolamento, con la mancanza di formazione e la mancata indicazione del lavoro da eseguire. La lavoratrice e il lavoratore in agile affrontano un grande stress, per la mancanza di carichi di lavoro adeguati e la conseguente necessità di presidiare la propria postazione di lavoro in attesa di avere qualcosa da fare. Purtroppo, tale situazione porterà ad un’aumentata necessità di assistenza psicologica nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori che subiscono tale comportamento.

Domenico Falco, vicepresidente dell’Ordine dei Giornalisti della Campania, nel suo intervento, ha sostenuto la necessità che le forze politiche facciano squadra al fine di porre rimedio alla fragilità strutturale dell’economia del territorio meridionale, aggravata ancora di più dall’attuale pandemia, così da poter essere al fianco della vera imprenditoria meridionale e dell’imprenditoria giovanile. Sarà necessaria una interlocuzione tra le varie istituzioni, così che la perdita dei centri decisionali che erano rappresentati dai due banchi meridionali, siano compensati da un’opera concreta di credito al Sud.

Il segretario generale di UNISIN Emilio Contrasto nel suo intervento, tra le altre cose, ha avuto modo di ricordare come i bancari abbiano continuato a svolgere il loro lavoro in questo periodo e come il settore abbia registrato vittime del Covid-19. Ha, inoltre, evidenziato come, alla fine di questa emergenza sanitaria, il lavoro agile dovrà rientrare in un’ottica di volontarietà, con i limiti temporali previsti dall’attuale CCNL, garantendo il diritto alla disconnessione. Ha ricordato come questa pandemia sia intervenuta su una situazione economica già di per sé non florida, peggiorandola oltremodo, con il rischio, o meglio la certezza, che negli anni si aggraverà sempre più la situazione dei cosiddetti “crediti deteriorati”. Infine, poiché l’erogazione del credito è legata a coefficienti patrimoniali definiti a livello europeo, l’aumento delle sofferenze porterà necessariamente ad una minore capacità delle banche di concessione del credito. Invece è prioritario che le banche seguano in modo adeguato le famiglie, le piccole e medie aziende, i giovani e l’imprenditorialità giovanile. Con l’utilizzo appropriato dei fondi Next Generation Eu sarà possibile favorire il rilancio di tutto il Paese, con una particolare attenzione al Sud.

Per Giuseppe Scalera, già Senatore della Repubblica, giornalista, scrittore, medico, l’epidemia di Covid-19 ha portato un cambiamento nei rapporti interpersonali e nella vita di tutti i giorni, per ognuno di noi, a causa della mancanza di contatto. Si sostituisce a tutta una serie di attività svolte da sempre in un certo modo, qualcosa di nuovo con cui, in futuro, dovremo abituarci a convivere. Anche per tanti aspetti, quali il lavoro agile o la didattica a distanza, ci saranno delle sfide da affrontare,occorrerà comprendere le varie interconnessioni, anche psicologiche, correlate. In questo momento il discorso vaccinazioni è importante, occorre che ognuno affronti l’aspetto che riguarda la propria disciplina, le proprie conoscenze, però è anche necessario fondersi e abbracciare più aree del sapere per farle dialogare tra di loro. Un messaggio importante che la pandemia ci lascia è che bisogna percorrere nuovi territori e sviluppare percorsi multidisciplinari, ci saranno nuovi appuntamenti e nuove sfide e si dovrà cercare di trasformare in qualcosa di positivo questo straordinario momento di cambiamento.

L’on.le Stefano Caldoro, già presidente della Regione Campania, ha sottolineto la difficoltà che esiste al Sud per quel che riguarda la questione del credito e il ruolo delle istituzioni locali, che dovrebbero complessivamente lavorare insieme per migliorare la situazione del territorio. La mancanza di centri decisionali dovrebbe essere compensata da un gioco di squadra moderno e dalla necessità di fare proprie le migliori esperienze che si sono avute in ambito europeo, facendo l’esempio della unificazione delle due Germanie, quando il più grande fattore di divario europeo, che era appunto quello tedesco, fu notevolmente ridotto, permettendo alla Germania di fare passi da gigante. Una simile azione dovrebbe essere messa in atto per ridurre il divario tra Nord e Sud nel nostro Paese. Quando non c’è nessuna nuova idea bisogna fare proprio quanto di meglio hanno fatto gli altri, in questo caso quanto di meglio è stato fatto in Europa. Sarà, però, necessario che tutti collaborino. Questo sarà soprattutto compito del governo centrale, perché non possiamo lasciare alle autonomie locali la possibilità di risolvere problemi che le autonomie non possono risolvere. Soltanto lo stato centrale puòattivare misure speciali volte a garantire un flusso di credito per il rilancio dell’economia, un sostegno alle imprese meridionali e affrontare i vari temi, quali la sfida del Recovery Fund.

Massimiliano Iannaccone, presidente di UNISIN Regionale CAMPANIA, ha parlato dell’opera del sindacato a fianco delle colleghe e dei colleghi impegnati nel garantire l’attività di un servizio essenziale, con le turnazioni e con filiali che chiudono per effetto della pandemia. La mancanza di sedi decisionali di grandi banche al Sud si sente anche per il mancato gettito fiscale che una volta era assicurato dalla presenza nelle regioni meridionali delle sedi legali di istituti di credito importanti a livello nazionale. Le banche operano nel meridione, mai benefici reddituali non restano al Sud. Sempre più importante è sostenere le imprese meridionali ed è necessario che ci siano assunzioni di giovani meridionali e che i giovani assunti al sud non vengano dirottati a lavorare al Nord, abbandonando quindi la propria terra. Occorre una maggiore coesione organizzativa, strutturale, economica e finanziaria per permettere di invertire questo trend di impoverimento economico e culturale del Sud.

I tre Vicesegretari di UNISIN Regionale Campania Andrea Brancaleone, Francesco Grandine e Luigi Sarro, hanno portato le testimonianze di come ha vissuto quest’anno il Sindacato, in prima linea, nelle rispettive banche Monte dei Paschi di Siena, Unicredit e Intesa Sanpaolo.

Umberto Aleotti, docente di diritto internazionale alla Scuola Superiore per mediatori linguistici di Maddaloni, ha evidenziato l’importanza del rapporto tra le fonti del diritto dell’Unione Europea e quelle del diritto italiano.

Antonella Batà, docente di diritto alla facoltà di Ingegneria dell’Università degli studi di Napoli Federico II, ha trattato vari aspetti riguardanti il lavoro agile, con un’analisi dei vantaggi e degli svantaggi ed una particolare riflessione sul diritto alla disconnessione, sull’attuale normativa e le prospettive future.

Negli ulteriori interventi, Giovanna Mugione, dirigente scolastico dell’Istituto Superiore “G. Marconi” di Giugliano in Campania ha trattato le nuove normative che impattano su scuola professionale e territorio; l’avvocato giuslavorista Neil MacLeod, cultore del diritto presso l’Università della Campania Luigi Vanvitelli, ha portato la testimonianza relativa alla propria esperienza di legale impegnato con il Sindacato, in relazione all’attuale situazione; Assunta Landri, psicologa e psicoterapeuta consulente della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, nonché psicologa dello Sportello d’Ascolto QUIperTE UNISIN Regionale CAMPANIA, nel suo articolato intervento ha considerato le varie implicazioni di carattere psicologico legate alla pandemia, al lockdown ed al lavoro agile.

Andrea Brancaleone

Transgender: il coraggio di essere liberi

“Non mi hanno mai accettato, nemmeno la mia famiglia. Io sono un transgender ed è difficile vivere in questo mondo di pregiudizi, soprattutto quando nemmeno a casa ti senti protetto. Per questo motivo non sono riuscito a realizzare i miei sogni prima d’ora, mi sentivo perso, abbandonato. Messo al mondo e lasciato al caso. Adesso finalmente ho il coraggio di andare contro tutto e tutti”

Il mondo, fuori dalla propria casa, è spietato e disumano. Bisogna, dunque, tirar fuori le unghie per sopravvivere a tanta crudeltà. Ed è per questo che ogni bambino dovrebbe nascere in un ambiente sereno, lieto, protetto, sicuro e, soprattutto, senza qualcuno che lo sminuisca, per crescere ottimista e sicuro di sé, per avere la grinta e l’audacia per affrontare la vita. Ma quando non ci si sente accettati da chi ci ha messo al mondo, ci si sente smarriti, persi, e si finisce per avere poca stima di sé. Si rischia, inoltre, di portarsi dietro un senso di spossatezza, frustrazione e di vuoto d’animo che sarà poi difficile colmare una volta divenuti adulti. Ancora, si rischia di intraprendere strade sbagliate, pericolose, o, ancora più facilmente, perdere quella giusta, quella strada che si vorrebbe percorrere per realizzare i propri sogni. È sufficiente la mancanza di attenzione da parte di un solo genitore o, peggio ancora, parole offensive nei confronti del proprio figlio, per far si che quest’ultimo cresca con particolari fragilità e insicurezze che si porterà dietro per tutta la vita.

I genitori sono il punto di riferimento per ogni figlio, qualsiasi età egli abbia. Ma nel momento in cui anche nel proprio nucleo familiare non si ha l’opportunità di potersi rifugiare e farsi confortare, allora la vita può diventare davvero un inferno. È fondamentale, quindi, una volta raggiunta la maggiore età, andar via e cercare di ricostruirsi la vita, di reinventarsi e, soprattutto, fare una profonda riflessione su di sé per risolvere ogni trauma infantile, in modo da non permettere ai ricordi negativi del passato di ripresentarsi e farci male, per condurre una vita serena, per raggiungere i propri obiettivi, vivere relazioni sane e avere la forza di affrontare le malignità di chi ancora vive giudicando il prossimo. Purtroppo le persone, alcune persone, sono prive di sensibilità e di empatia, il loro giudizio è spesso inopportuno, le loro osservazioni risultano frivole e la loro visione è poco ampia per quanto sia complessa la vita. Vivere in un Paese dove ancora non si riesce ad accettare chi non è come tutti gli altri non fa altro che ostacolare la vita di alcune persone. Il transgender, ad esempio, viene ancora trattato come un essere diverso o addirittura viene considerato come un malato e spesso viene emarginato.

La diversità come normalità

Sembra si faccia ancora fatica ad accettare una persona che non è come tutti gli altri. Un transgender, ancora oggi, è costretto a lottare contro tanti pregiudizi, offese e atti di bullismo. Una vita da incubo quella che sono costrette vivere queste persone, perché sono addirittura, nella maggior parte dei casi, obbligate a cercare rifugio in qualche altro posto del mondo, che sia anche dall’altra parte dell’oceano, dove si è liberi di vivere anche fuori dagli schermi, dove non bisogna essere tutti uguali per essere accettati. Vivere con il terrore, con l’angoscia, con l’ansia di poter essere insultati e umiliati in qualsiasi momento e da chiunque, può diventare davvero un incubo.

Si definisce transgender colui che non si riconosce nel proprio corpo, che ha un’identità diversa dal suo sesso biologico. Il transgender non è solo chi muta il proprio sesso sottoponendosi a terapie psicologiche, ormonali e chirurgiche ma è anche chi che vuole sentirsi donna nell’anima. Chi non si sente a proprio agio nel proprio corpo trascorre gran parte della propria esistenza provando una sensazione di malessere, perché sente ostacoli nel sentirsi libera/o di condurre la vita che vorrebbe e di poter mutare la sua identità senza essere considerata/o come un essere diverso o inferiore. L’omosessualità non è una malattia: voler cambiare il proprio corpo, perché non combacia con il proprio animo, dovrebbe essere un diritto legittimo. Chiunque ha il diritto di vivere la vita che desidera, di essere chi vuole e come vuole. Questo risulta difficile soprattutto per chi ha avuto un’infanzia complicata, per chi, anche nelle mura di casa, non poteva sentirsi libero di essere chi voleva. Queste persone, una volta diventate adulte, compiono uno sforzo maggiore per vivere la loro vita, per trovare l’energia e la determinazione per combattere dentro e fuori casa per ottenere i diritti di una qualunque persona.

Ma la nostra infanzia quanto influenza la nostra personalità?

Chi siamo davvero!

Ognuno ha una personalità, una propria indole. Ma tutto ciò che si vive da bambini è capace di mutare gran parte del proprio carattere. Una bambina o un bambino ha bisogno di sviluppare una relazione profonda con una persona di famiglia. Ha bisogno, sin da piccola/o, di avere il suo punto di riferimento perché è importante per il suo sviluppo personale poiché influenzerà gran parte della sua vita. Se questo affetto viene a mancare, l’infante avrà paura di uscire dalla sua confort zone anche una volta raggiunta una maggiore età. Avrà poca fiducia di sé e degli altri, avrà problemi a creare relazioni d’amicizia ma soprattutto d’amore. Ancora, avrà timore di non riuscire ad essere capace di realizzare qualsiasi tipo di obiettivo. Quindi, i primi anni di vita di una persona sono fondamentali e possono influenzare la stima di sé stessi, le sue capacità di relazionarsi con gli altri per il resto della vita.

Alessandra Federico

Malika, cacciata di casa perché lesbica

 “L’errore non l’ho fatto io, per quanto io possa amare una persona del mio stesso sesso, non ho mancato di rispetto a nessuno. Non c’è niente di sbagliato, non c’è niente di male. Finché si ama non ci sarà mai niente di male. Ai miei genitori dico fatevi aiutare”.

Amare una persona dello stesso sesso non è una colpa, amare non è mai un errore. Le parole di Malika trasmettono tutta la sofferenza di chi è costretto a portate sulle proprie spalle il peso delle conseguenze dell’ignoranza del prossimo. Malika è la protagonista di questa storia complessa accaduta nel suo stesso nucleo familiare (madre, padre, fratello), all’interno del quale si sono verificati atti di disprezzo e ripulsione nei confronti della giovane donna.

Malika viveva in un paese vicino Firenze, ha ventidue anni e il 4 gennaio 2021 confidava ai suoi genitori di essersi innamorata di una donna. Malika viene insultata, derisa e in fine mandata via di casa in seguito a parole colme di violenza da parte di sua madre. I riferiti insulti della madre spingono Malika in una forte crisi di pianto e di panico. Trovatasi per strada senza un soldo, senza cibo, senza più nemmeno i suoi abiti Malika, l’8 gennaio prova a rientrare a casa con l’aiuto dei Carabinieri, ma anche il tentativo di tornare in possesso dei suoi oggetti personali non va a buon fine.

Le continue minacce da parte dei genitori e del fratello fanno vivere la giovane ventiduenne nel terrore e, in preda allo strazio, Malika decide di sporgere denuncia ai Carabinieri, ma non riesce, neppure dopo 3 mesi, a rientrare in possesso dei suoi effetti personali. Nonostante le infinite umiliazioni e violenze psicologiche subìte, Malika è ben consapevole di non aver nulla di cui vergognarsi anzi, sa bene di potersi ritenere una persona molto coraggiosa.

Purtroppo c’è chi,  ancora oggi, per salvare le apparenze, finisce per dare troppa importanza al giudizio altrui pur mettendo a rischio qualsiasi rapporto umano, anche quello che dovrebbe essere il più importante come quello tra genitori e figli. Sono le stesse persone che hanno ha paura di andare contro i pregiudizi, che hanno paura di lottare per i propri diritti, e preferiscono assecondare una società dalla mentalità chiusa, retrograda, discriminatoria (che ancora crede di avere il diritto di decidere quale dovrebbe essere la normalità tanto da condizionare le scelte altrui) anziché proteggersi e proteggere i propri figli.  Eppure si dice che, quando accade qualcosa di molto brutto, c’è sempre qualcosa di bello che ci attende e che quando il fato ti allontana da un certo tipo di persone ti sta solo salvando la vita.

Ma chi ha deciso che l’eterosessualità è la normalità?

L’omosessualità non è una malattia. Si spera che un giorno la parola omosessuale possa svanire per sempre (le parole etero e omosessuale non dovrebbero esistere, deve essere la normalità poter amare chiunque) affinché ogni essere umano riesca ad ottenere il diritto di sentirsi libero di essere ciò che sente, di innamorarsi, di sentirsi attratto da chi desidera, e di vivere serenamente la vita alla pari di qualsiasi altra persona. La vicenda di Malika dimostra chiaramente la scarsa sensibilità con la quale alcune persone ancora oggi affronta determinate situazioni e la totale mancanza di empatia.

Il ddl Zan, che si focalizza su questo tipo di reati ha subìto, ad aprile 2021, l’ennesimo rinvio in Senato (in Italia non ci sono ancora leggi che tutelano le vittime dei crimini di odio omotransfobico). È anche fondamentale essere al corrente che in spagna c’è una legge che autorizza i bambini ad andare a scuola come desiderano (anche maschietti vestite da bambine) perché non conta il loro genere biologico ma conta il loro genere sentito. Si spera che anche in Italia si possa un giorno sentirsi liberi di essere.  Ora Malika vive a Firenze, lontana da coloro che l’hanno messa al mondo, ma ad oggi è forte tanto da riuscire a buttarsi tutto alle spalle per vivere liberamente la vita come desidera.

Alessandra Federico

Lavoro agile: non è tutto oro quel che luccica

Il Lavoro Agile sembra destinato a diventare, anche a pandemia terminata, non più un’eccezione ma una modalità ordinaria e sempre più estesa di attività lavorativa. Sicuramente, però, andrà intrapreso un opportuno aggiornamento della sua normazione.

È indubbio che con il Lavoro Agile si possano impiegare nuovi modi di organizzazione, così da concretizzare un equilibrio tra le esigenze aziendali di efficienza e produttività e quelle personali e familiari delle lavoratrici e dei lavoratori.

Una particolare attenzione andrà posta, innanzi tutto, riguardo alle postazioni di lavoro utilizzate da casa: quasi sempre si usa quello che si ha a disposizione, cosicché le sedie, i tavoli, l’illuminazione spesso rischiano di non essere conformi ai previsti standard di sicurezza ed ergonometria che devono essere adottati sui luoghi di lavoro. Sarebbe utile prevedere agevolazioni che permettessero ai lavoratori l’acquisto di adeguate attrezzature per lo svolgimento del lavoro da casa.

Vi è, poi, il Diritto alla Disconnessione che deve essere reso sempre più applicabile, impedendo in ogni maniera che i lavoratori ricevano comunicazione di carattere aziendale al di fuori dell’orario di lavoro. Tale questione si pone soprattutto in termini di tutela della conciliazione vita-lavoro, della salute, della sicurezza e della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori.

A tale proposito va citata la risoluzione 2019/2181(INL), approvata il 21 gennaio 2021 dal Parlamento Europeo, che reca raccomandazioni alla  Commissione Europea sulla proposta di direttiva in materia di diritto alla disconnessione.

Sottolineiamo, infine, anche le implicazioni economiche connesse: diversi, e non sempre preventivabili, sono i costi che il lavoratore in “Agile” si deve sobbarcare; si va dai costi riguardanti il riscaldamento durante il periodo invernale, a quelli energetici legati al condizionamento dell’ambiente di lavoro casalingo durante il periodo estivo. Coprire l’allestimento di una postazione di lavoro a casa, il costo dell’energia elettrica, l’eventuale costo dell’utilizzo di internet, parte dell’abitazione sottratta allo spazio privato sono tutti costi, anche economici, che il lavoratore deve affrontare. Anche in questo caso andrebbero previsti dei vantaggi economici per i lavoratori interessati.

Esiste, infine, il problema dei buoni pasto. È fuor di dubbio che il Lavoro Agile sia a tutti gli effetti una prestazione lavorativa, la cui unica particolarità è che può essere svolta da casa. Il fatto che molte aziende, esclusi pochi lodevoli casi, continuino a non riconoscere il buono pasto ai dipendenti in Agile, comporta una grande disparità tra lavoratori. Andrebbe al più presto uniformato il trattamento per tutte le modalità di attività lavorativa.

Concludendo, il Lavoro Agile può rappresentare una grande opportunità, per le aziende, per i lavoratori, per il Paese. Ma come tutte le novità, passata questa fase di emergenza, esso andrà normato in maniera rigorosa e dettagliata; eliminando tutti quegli elementi che possono rappresentare forme di criticità, di stress e di costi per i lavoratori.

Andrea Brancaleone

 

 

Paul Poiret:  l’inventore del kimono

Paul Poiret nasce a Parigi il 20 aprile del 1879. Paul era figlio di commerciante di tessuti e aveva manifestato, sin da bambino, la sua passione per la moda e per il disegno. Suo padre, che non credeva minimamente che l’arte avrebbe potuto dargli certezze economiche, una volta terminati gli studi, gli trovò lavoro presso la fabbrica di un suo amico che produceva ombrelli. Questo tipo di lavoro, per Paul, era molto frustrante e noioso: fuggivo con l’immaginazione progettando abiti per una bambola e disegnando Toilettes di fantasia”.

Il giovane aspirante stilista di moda voleva a tutti i costi inseguire il suo più grande sogno e decise, così, di recarsi da Madame Chéruit (che dirigeva la maison Raudnitz) per mostrarle i suoi figurini di moda. Inaspettatamente ella fu compiaciuta dei lavori di Paul e non solo li acquistò ma lo invogliò a continuare. Questa fu una piccola certezza per Poiret che gli diede la grinta necessaria per non arrendersi nel perseguire  i suoi obiettivi. Da lì a poco, infatti, iniziò a visitare le case di moda più importanti di Parigi per vendere i suoi figurini  e nel 1898 Doucet (famoso stilista di moda di quel tempo) gli propose di lavorare in esclusiva per lui. Doucet,  rimase folgorato dalle creazioni di Paul tanto da lasciargli lo spazio per i suoi esperimenti, tra cui una mantellina rossa abbottonata sulla schiena di cui si realizzarono 400 modelli. In breve tempo,  Doucet, essendo sempre più entusiasta del lavoro si Poiret, gli affidò la realizzazione di costumi di scena per alcune attrici clienti della Maison. Nel 1900 trovò lavoro da Worth (primo stilista del 1800) poiché, dopo la sua morte, il suo primogenito notò che la maggior parte della clientela non era più nel fior fior della gioventù e di conseguenza costringeva la maison a non aggiornarsi con le nuove tendenze di moda e difatti a non riusciva ad avere nuova clientela. Il figlio di Worth diede a Paul un grande incarico: rinnovare l’immagine della maison con creazioni innovative per i più giovani. Capi semplici e pratici sembravano essere molto richiesti e Paul tentò con un tailleur dalla linea molto semplice. Purtroppo, però, non ebbe gran successo poiché la clientela, al contrario di ciò che sembrava, era troppo affezionata al gusto vistoso e ai grandi ricami per accettare le novità.  Il rapporto si concluse quindi molto presto lasciando come unica testimonianza una toilette per la contessa Greffulhe.

La prima maison di Poiret

“Quando veniva l’autunno, tornavo dalla foresta di Fontsinebleau con una carrozza carica di foglie dorate, bruciate dal sole, e in vetrina le mescolavo con panni e velluti degli stessi colori. Quando nevicava, evocavo tutta la magia dell’inverno con stoffe di lana bianche, tulle e mussole combinate con rami secchi, e vestivo la realtà del momento intraprendendola in un modo che incantava i passanti”.

Paul Poiret aprì la sua prima maison nel 1903: due piccoli saloni e una vetrina sulla strada. Usufruì della vetrina per esporre le sue nuove meravigliose creazioni che ben presto attirarono tutte le donne tanto da farlo diventare uno dei luoghi canonici delle passeggiate parigine. L’intento di Paul era di andare a passo con le esigenze del momento liberando la donna dal corsetto che costringeva il corpo femminile ad assumere la linea a S, e sostituendolo con una cintura rigida e steccata alla quale era cucita la gonna. Continuò  a realizzare, appunto, abiti pratici e comodi come il mantello-kimono che divenne il prototipo di tutta una serie di creazioni successive. Lo chiamò Confucius e ogni donna ne acquistava almeno uno.

“Come tutte le grandi rivoluzioni, anche quella era stata fatta nel nome della libertà. Fu ancora nel nome della libertà che raccomandai l’abbandono del corsetto e l’adozione del reggiseno che da allora ha fatto fortuna”.
Da quel momento in poi, Poiret, cominciò a lavorare ad una nuova collezione basandosi solo sull’idea di donna moderna. Si trasferì, nel 1910, all’Hotel Partculier, in cui si divertiva ad organizzare spesso grandi feste. Poco tempo dopo creò il primo pantalone femminile (Jupe-coulotte) da indossare sotto la gonna. Due mesi dopo, accompagnato dalle sue modelle, con indosso capi firmati Poiret, iniziarono per Paul lunghi viaggi in giro per l’Europa, che furono per lui fonte di grande ispirazione per le nuove  creazioni. Al ritorno da questi meravigliosi e interessanti viaggi, Poiret aprì un nuovo atelier all’interno della quale i giovani lavoratori producevano profumi, mascara, e tanti altri cosmetici.

Nel 1914 organizzò una manifestazione per rappresentare il mercato americano e parigino con lo scopo di far collaborare la moda parigina e quella americana.  New York: proposta da parte di Paul per una nuova linea che consisteva la realizzazione di gonne corte e ampie con criolina. Finita la guerra, Paul, tornò a Parigi ma una tragica notizia lo scosse terribilmente: la morte dei suoi due figli e la decisione di sua moglie di voler la separazione. Afflitto dal forte dolore per la perdita di persone a lui care, decise di tornare a viaggiare ma questa volta verso il Marocco. Altra meta di grande ispirazione il Marocco per Paul, tornò, infatti, con un bagaglio ricco di nuove idee che diede, così, alle sue nuove collezioni un tocco di eleganza in più grazie anche all’utilizzo di nuovo materiale lussuoso come stoffe pregiate e ricamate. Sfortunatamente, nemmeno i suoi viaggi e le sue nuove collezioni gli furono d’aiuto in quel periodo di grande crisi e preso dalla disperazione decise di organizzare un’ennesima festa in cui appiccò un incendio per salvare le persone e portarle in salvo nel suo atelier. Nemmeno nei panni da supereroe riuscì a salvar la sua fama da stilista. Ma nel 1930 disse: “Sono solo, anche se mi rimangono alcuni nipoti e amici che credo mi vogliano bene. Sono tornano con passione alla pittura che ho sempre amato e praticato e nulla mi sembra più bello di esprimersi con i colori. Mi hanno proposto di rimettermi in attività, potrebbe succedere. Mi sento molti abiti sotto la pelle”.

Alessandra Federico

Scuola online: le difficoltà dei bambini a seguire lezioni attraverso lo schermo

“Non riuscivo a seguire la lezione online. Volevo tanto stare con i miei amici. Avevo tanta voglia di ridere con Luca durante la lezione di inglese perché la maestra è sorda. Volevo scambiare le figurine con i miei compagni di classe nell’ora della merenda. Finalmente siamo tornati  a scuola e spero che tutto questo duri per sempre”

Vivere questo particolare  periodo in cui il contatto umano e la vita sociale sono momentaneamente sospesi fa quasi dimenticare come ci si sentiva quando si poteva uscire liberamente di casa o abbracciare un amico. Purtroppo chi ne sta subendo maggiormente le conseguenze negative sono proprio i bambini: per i più piccoli è fondamentale stare insieme ai loro coetanei. È importante il contatto umano, anche darsi la mano durante la fila per entrare in classe o un abbraccio al proprio compagno di banco. Ancora, è importante guardare negli occhi e sentire la presenza fisica di un insegnante che ti spiega la lezione del giorno. Purtroppo, però, il contatto fisico tra i bambini era, da tempo, già ridimensionato  a causa del troppo utilizzo di videogiochi, social network e tutto ciò che possa ipnotizzare un bambino avanti ad uno schermo. Limitare loro anche l’opportunità di poter studiare insieme ai loro coetanei o praticare sport è stato veramente deleterio.

La soluzione potrebbe essere quella di far sì che una volta tornati alla normalità questi bambini possano trascorrere più tempo possibile in compagnia dei loro coetanei e il più possibile all’aria aperta senza ipnotizzarsi dinanzi ad uno schermo perché è importante che a quella età possano sentirsi liberi di dare sfogo alla loro fantasia, inventando e cambiando continuamente gioco purché sia frutto della loro inventiva, perché sviluppare la creatività nell’età infantile è fondamentale per far sì che in futuro possano riuscire a reinventarsi in ogni situazione.

Mattia è un bambino napoletano di 8 anni dotato di grande intelligenza ma che ha trovato purtroppo   difficoltà nel concentrarsi durante la lezione online. Ecco una breve intervista  a Cinzia (madre di Mattia) in cui ci racconta quale soluzione ha trovato per il suo bambino.

Cinzia, hai da subito trovato difficoltà Mattia nel seguire le lezioni online?

I bambini hanno bisogno di nuovi stimoli ogni giorno e questi li trovano soprattutto nel contatto umano. Mio figlio è un bambino molto volenteroso, andava bene a scuola e ha sempre praticato sport. Da quando ci sono state queste lezioni online non solo si è un po’ chiuso in se stesso perché non può vedere da mesi il suo migliore amico Paolo, ma ha trovato tanta difficoltà nel concentrarsi e nel seguire gli insegnanti.  Inizialmente sembrava che riuscisse a studiare ma col tempo notavo che si distraeva e ho deciso allora di cercare un aiuto, perché purtroppo con il mio lavoro posso dedicargli poco tempo per i compiti.

Che tipo di aiuto hai trovato?

Ho trovato un insegnante privato che segue Mattia tre volte la settimana per le lezioni extrascolastiche. Io credo  che Mattia abbia bisogno di qualcuno che gli parli faccia a faccia perché è un bambino che sente molto la necessità di avere un approccio fisico: gli ho sempre spiegato e dimostrato che il contatto fisico è importante quindi lui è abituato soprattutto a dare abbracci e baci, anche ai suoi maestri. È abituato a guardare negli occhi qualcuno quando gli parla, ma questo credo sia lo stesso per ogni bambino del mondo ma c’è chi ha vissuto questa situazione in modo diverso e riesce ugualmente a seguire le lezioni. Forse sono quei bambini che sono abituati a trascorrere molte ore avanti ad uno schermo.

 Crede sia dovuto a questo?

Ho sempre vietato a Mattia di trascorrere troppo tempo avanti al pc o alla play station,  al contrario, l’ho sempre invogliato ad impiegare il suo tempo libero, dopo lo studio, con amici e fare sport. Perché vedere mio figlio rimbecillirsi con un videogioco ore ed ore, ahimè, è la cosa che più mi spaventa. Ed è per questo che lui trova difficoltà a seguire lezioni online.  Parecchi suoi compagni di classe, invece, passano molto tempo alla play station o altri giochi, per cui sono loro stessi che dicono che preferiscono seguire le lezioni online anziché in presenza fisica, proprio perché affermano di essere diventata per loro un’abitudine vivere con uno schermo davanti agli occhi. Per quanto mi riguarda questo è tutto molto triste.

Come crede che farà con Mattia una volta finito questo periodo?

Quando questo periodo sarà terminato cercherò di far trascorrere a Mattia più tempo possibile con altri bambini e gli farò fare qualsiasi sport lui abbia voglia di praticare. Credo sia importante per il suo futuro sentirsi libero dalla schiavitù di uno schermo. Voglio che mio figlio sviluppi il cervello e la sua intelligenza più possibile adesso che esiste ogni mezzo per far si che i giovani di oggi abbiano più limiti, c’è bisogno che i genitori spronino  loro a capire qual è la strada giusta per il loro futuro e da cosa devono allontanarsi. Perché voglio che lui non si blocchi mai davanti ad un ostacolo e questo potrei ottenerlo se gli ripeto costantemente che studiare è fondamentale, leggere, inventare, creare, avere inventiva nei giochi senza playstation e cose virtuali che ti rubano la fantasia. Bisogna spronare i bambini ad essere creativi perché nel futuro non ci siano menti chiuse e zucche vuote ma nuove teste fantasiose e ingegnose.

Alessandra Federico

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