Transgender: il coraggio di essere liberi

“Non mi hanno mai accettato, nemmeno la mia famiglia. Io sono un transgender ed è difficile vivere in questo mondo di pregiudizi, soprattutto quando nemmeno a casa ti senti protetto. Per questo motivo non sono riuscito a realizzare i miei sogni prima d’ora, mi sentivo perso, abbandonato. Messo al mondo e lasciato al caso. Adesso finalmente ho il coraggio di andare contro tutto e tutti”

Il mondo, fuori dalla propria casa, è spietato e disumano. Bisogna, dunque, tirar fuori le unghie per sopravvivere a tanta crudeltà. Ed è per questo che ogni bambino dovrebbe nascere in un ambiente sereno, lieto, protetto, sicuro e, soprattutto, senza qualcuno che lo sminuisca, per crescere ottimista e sicuro di sé, per avere la grinta e l’audacia per affrontare la vita. Ma quando non ci si sente accettati da chi ci ha messo al mondo, ci si sente smarriti, persi, e si finisce per avere poca stima di sé. Si rischia, inoltre, di portarsi dietro un senso di spossatezza, frustrazione e di vuoto d’animo che sarà poi difficile colmare una volta divenuti adulti. Ancora, si rischia di intraprendere strade sbagliate, pericolose, o, ancora più facilmente, perdere quella giusta, quella strada che si vorrebbe percorrere per realizzare i propri sogni. È sufficiente la mancanza di attenzione da parte di un solo genitore o, peggio ancora, parole offensive nei confronti del proprio figlio, per far si che quest’ultimo cresca con particolari fragilità e insicurezze che si porterà dietro per tutta la vita.

I genitori sono il punto di riferimento per ogni figlio, qualsiasi età egli abbia. Ma nel momento in cui anche nel proprio nucleo familiare non si ha l’opportunità di potersi rifugiare e farsi confortare, allora la vita può diventare davvero un inferno. È fondamentale, quindi, una volta raggiunta la maggiore età, andar via e cercare di ricostruirsi la vita, di reinventarsi e, soprattutto, fare una profonda riflessione su di sé per risolvere ogni trauma infantile, in modo da non permettere ai ricordi negativi del passato di ripresentarsi e farci male, per condurre una vita serena, per raggiungere i propri obiettivi, vivere relazioni sane e avere la forza di affrontare le malignità di chi ancora vive giudicando il prossimo. Purtroppo le persone, alcune persone, sono prive di sensibilità e di empatia, il loro giudizio è spesso inopportuno, le loro osservazioni risultano frivole e la loro visione è poco ampia per quanto sia complessa la vita. Vivere in un Paese dove ancora non si riesce ad accettare chi non è come tutti gli altri non fa altro che ostacolare la vita di alcune persone. Il transgender, ad esempio, viene ancora trattato come un essere diverso o addirittura viene considerato come un malato e spesso viene emarginato.

La diversità come normalità

Sembra si faccia ancora fatica ad accettare una persona che non è come tutti gli altri. Un transgender, ancora oggi, è costretto a lottare contro tanti pregiudizi, offese e atti di bullismo. Una vita da incubo quella che sono costrette vivere queste persone, perché sono addirittura, nella maggior parte dei casi, obbligate a cercare rifugio in qualche altro posto del mondo, che sia anche dall’altra parte dell’oceano, dove si è liberi di vivere anche fuori dagli schermi, dove non bisogna essere tutti uguali per essere accettati. Vivere con il terrore, con l’angoscia, con l’ansia di poter essere insultati e umiliati in qualsiasi momento e da chiunque, può diventare davvero un incubo.

Si definisce transgender colui che non si riconosce nel proprio corpo, che ha un’identità diversa dal suo sesso biologico. Il transgender non è solo chi muta il proprio sesso sottoponendosi a terapie psicologiche, ormonali e chirurgiche ma è anche chi che vuole sentirsi donna nell’anima. Chi non si sente a proprio agio nel proprio corpo trascorre gran parte della propria esistenza provando una sensazione di malessere, perché sente ostacoli nel sentirsi libera/o di condurre la vita che vorrebbe e di poter mutare la sua identità senza essere considerata/o come un essere diverso o inferiore. L’omosessualità non è una malattia: voler cambiare il proprio corpo, perché non combacia con il proprio animo, dovrebbe essere un diritto legittimo. Chiunque ha il diritto di vivere la vita che desidera, di essere chi vuole e come vuole. Questo risulta difficile soprattutto per chi ha avuto un’infanzia complicata, per chi, anche nelle mura di casa, non poteva sentirsi libero di essere chi voleva. Queste persone, una volta diventate adulte, compiono uno sforzo maggiore per vivere la loro vita, per trovare l’energia e la determinazione per combattere dentro e fuori casa per ottenere i diritti di una qualunque persona.

Ma la nostra infanzia quanto influenza la nostra personalità?

Chi siamo davvero!

Ognuno ha una personalità, una propria indole. Ma tutto ciò che si vive da bambini è capace di mutare gran parte del proprio carattere. Una bambina o un bambino ha bisogno di sviluppare una relazione profonda con una persona di famiglia. Ha bisogno, sin da piccola/o, di avere il suo punto di riferimento perché è importante per il suo sviluppo personale poiché influenzerà gran parte della sua vita. Se questo affetto viene a mancare, l’infante avrà paura di uscire dalla sua confort zone anche una volta raggiunta una maggiore età. Avrà poca fiducia di sé e degli altri, avrà problemi a creare relazioni d’amicizia ma soprattutto d’amore. Ancora, avrà timore di non riuscire ad essere capace di realizzare qualsiasi tipo di obiettivo. Quindi, i primi anni di vita di una persona sono fondamentali e possono influenzare la stima di sé stessi, le sue capacità di relazionarsi con gli altri per il resto della vita.

Alessandra Federico

Malika, cacciata di casa perché lesbica

 “L’errore non l’ho fatto io, per quanto io possa amare una persona del mio stesso sesso, non ho mancato di rispetto a nessuno. Non c’è niente di sbagliato, non c’è niente di male. Finché si ama non ci sarà mai niente di male. Ai miei genitori dico fatevi aiutare”.

Amare una persona dello stesso sesso non è una colpa, amare non è mai un errore. Le parole di Malika trasmettono tutta la sofferenza di chi è costretto a portate sulle proprie spalle il peso delle conseguenze dell’ignoranza del prossimo. Malika è la protagonista di questa storia complessa accaduta nel suo stesso nucleo familiare (madre, padre, fratello), all’interno del quale si sono verificati atti di disprezzo e ripulsione nei confronti della giovane donna.

Malika viveva in un paese vicino Firenze, ha ventidue anni e il 4 gennaio 2021 confidava ai suoi genitori di essersi innamorata di una donna. Malika viene insultata, derisa e in fine mandata via di casa in seguito a parole colme di violenza da parte di sua madre. I riferiti insulti della madre spingono Malika in una forte crisi di pianto e di panico. Trovatasi per strada senza un soldo, senza cibo, senza più nemmeno i suoi abiti Malika, l’8 gennaio prova a rientrare a casa con l’aiuto dei Carabinieri, ma anche il tentativo di tornare in possesso dei suoi oggetti personali non va a buon fine.

Le continue minacce da parte dei genitori e del fratello fanno vivere la giovane ventiduenne nel terrore e, in preda allo strazio, Malika decide di sporgere denuncia ai Carabinieri, ma non riesce, neppure dopo 3 mesi, a rientrare in possesso dei suoi effetti personali. Nonostante le infinite umiliazioni e violenze psicologiche subìte, Malika è ben consapevole di non aver nulla di cui vergognarsi anzi, sa bene di potersi ritenere una persona molto coraggiosa.

Purtroppo c’è chi,  ancora oggi, per salvare le apparenze, finisce per dare troppa importanza al giudizio altrui pur mettendo a rischio qualsiasi rapporto umano, anche quello che dovrebbe essere il più importante come quello tra genitori e figli. Sono le stesse persone che hanno ha paura di andare contro i pregiudizi, che hanno paura di lottare per i propri diritti, e preferiscono assecondare una società dalla mentalità chiusa, retrograda, discriminatoria (che ancora crede di avere il diritto di decidere quale dovrebbe essere la normalità tanto da condizionare le scelte altrui) anziché proteggersi e proteggere i propri figli.  Eppure si dice che, quando accade qualcosa di molto brutto, c’è sempre qualcosa di bello che ci attende e che quando il fato ti allontana da un certo tipo di persone ti sta solo salvando la vita.

Ma chi ha deciso che l’eterosessualità è la normalità?

L’omosessualità non è una malattia. Si spera che un giorno la parola omosessuale possa svanire per sempre (le parole etero e omosessuale non dovrebbero esistere, deve essere la normalità poter amare chiunque) affinché ogni essere umano riesca ad ottenere il diritto di sentirsi libero di essere ciò che sente, di innamorarsi, di sentirsi attratto da chi desidera, e di vivere serenamente la vita alla pari di qualsiasi altra persona. La vicenda di Malika dimostra chiaramente la scarsa sensibilità con la quale alcune persone ancora oggi affronta determinate situazioni e la totale mancanza di empatia.

Il ddl Zan, che si focalizza su questo tipo di reati ha subìto, ad aprile 2021, l’ennesimo rinvio in Senato (in Italia non ci sono ancora leggi che tutelano le vittime dei crimini di odio omotransfobico). È anche fondamentale essere al corrente che in spagna c’è una legge che autorizza i bambini ad andare a scuola come desiderano (anche maschietti vestite da bambine) perché non conta il loro genere biologico ma conta il loro genere sentito. Si spera che anche in Italia si possa un giorno sentirsi liberi di essere.  Ora Malika vive a Firenze, lontana da coloro che l’hanno messa al mondo, ma ad oggi è forte tanto da riuscire a buttarsi tutto alle spalle per vivere liberamente la vita come desidera.

Alessandra Federico

Lavoro agile: non è tutto oro quel che luccica

Il Lavoro Agile sembra destinato a diventare, anche a pandemia terminata, non più un’eccezione ma una modalità ordinaria e sempre più estesa di attività lavorativa. Sicuramente, però, andrà intrapreso un opportuno aggiornamento della sua normazione.

È indubbio che con il Lavoro Agile si possano impiegare nuovi modi di organizzazione, così da concretizzare un equilibrio tra le esigenze aziendali di efficienza e produttività e quelle personali e familiari delle lavoratrici e dei lavoratori.

Una particolare attenzione andrà posta, innanzi tutto, riguardo alle postazioni di lavoro utilizzate da casa: quasi sempre si usa quello che si ha a disposizione, cosicché le sedie, i tavoli, l’illuminazione spesso rischiano di non essere conformi ai previsti standard di sicurezza ed ergonometria che devono essere adottati sui luoghi di lavoro. Sarebbe utile prevedere agevolazioni che permettessero ai lavoratori l’acquisto di adeguate attrezzature per lo svolgimento del lavoro da casa.

Vi è, poi, il Diritto alla Disconnessione che deve essere reso sempre più applicabile, impedendo in ogni maniera che i lavoratori ricevano comunicazione di carattere aziendale al di fuori dell’orario di lavoro. Tale questione si pone soprattutto in termini di tutela della conciliazione vita-lavoro, della salute, della sicurezza e della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori.

A tale proposito va citata la risoluzione 2019/2181(INL), approvata il 21 gennaio 2021 dal Parlamento Europeo, che reca raccomandazioni alla  Commissione Europea sulla proposta di direttiva in materia di diritto alla disconnessione.

Sottolineiamo, infine, anche le implicazioni economiche connesse: diversi, e non sempre preventivabili, sono i costi che il lavoratore in “Agile” si deve sobbarcare; si va dai costi riguardanti il riscaldamento durante il periodo invernale, a quelli energetici legati al condizionamento dell’ambiente di lavoro casalingo durante il periodo estivo. Coprire l’allestimento di una postazione di lavoro a casa, il costo dell’energia elettrica, l’eventuale costo dell’utilizzo di internet, parte dell’abitazione sottratta allo spazio privato sono tutti costi, anche economici, che il lavoratore deve affrontare. Anche in questo caso andrebbero previsti dei vantaggi economici per i lavoratori interessati.

Esiste, infine, il problema dei buoni pasto. È fuor di dubbio che il Lavoro Agile sia a tutti gli effetti una prestazione lavorativa, la cui unica particolarità è che può essere svolta da casa. Il fatto che molte aziende, esclusi pochi lodevoli casi, continuino a non riconoscere il buono pasto ai dipendenti in Agile, comporta una grande disparità tra lavoratori. Andrebbe al più presto uniformato il trattamento per tutte le modalità di attività lavorativa.

Concludendo, il Lavoro Agile può rappresentare una grande opportunità, per le aziende, per i lavoratori, per il Paese. Ma come tutte le novità, passata questa fase di emergenza, esso andrà normato in maniera rigorosa e dettagliata; eliminando tutti quegli elementi che possono rappresentare forme di criticità, di stress e di costi per i lavoratori.

Andrea Brancaleone

 

 

Paul Poiret:  l’inventore del kimono

Paul Poiret nasce a Parigi il 20 aprile del 1879. Paul era figlio di commerciante di tessuti e aveva manifestato, sin da bambino, la sua passione per la moda e per il disegno. Suo padre, che non credeva minimamente che l’arte avrebbe potuto dargli certezze economiche, una volta terminati gli studi, gli trovò lavoro presso la fabbrica di un suo amico che produceva ombrelli. Questo tipo di lavoro, per Paul, era molto frustrante e noioso: fuggivo con l’immaginazione progettando abiti per una bambola e disegnando Toilettes di fantasia”.

Il giovane aspirante stilista di moda voleva a tutti i costi inseguire il suo più grande sogno e decise, così, di recarsi da Madame Chéruit (che dirigeva la maison Raudnitz) per mostrarle i suoi figurini di moda. Inaspettatamente ella fu compiaciuta dei lavori di Paul e non solo li acquistò ma lo invogliò a continuare. Questa fu una piccola certezza per Poiret che gli diede la grinta necessaria per non arrendersi nel perseguire  i suoi obiettivi. Da lì a poco, infatti, iniziò a visitare le case di moda più importanti di Parigi per vendere i suoi figurini  e nel 1898 Doucet (famoso stilista di moda di quel tempo) gli propose di lavorare in esclusiva per lui. Doucet,  rimase folgorato dalle creazioni di Paul tanto da lasciargli lo spazio per i suoi esperimenti, tra cui una mantellina rossa abbottonata sulla schiena di cui si realizzarono 400 modelli. In breve tempo,  Doucet, essendo sempre più entusiasta del lavoro si Poiret, gli affidò la realizzazione di costumi di scena per alcune attrici clienti della Maison. Nel 1900 trovò lavoro da Worth (primo stilista del 1800) poiché, dopo la sua morte, il suo primogenito notò che la maggior parte della clientela non era più nel fior fior della gioventù e di conseguenza costringeva la maison a non aggiornarsi con le nuove tendenze di moda e difatti a non riusciva ad avere nuova clientela. Il figlio di Worth diede a Paul un grande incarico: rinnovare l’immagine della maison con creazioni innovative per i più giovani. Capi semplici e pratici sembravano essere molto richiesti e Paul tentò con un tailleur dalla linea molto semplice. Purtroppo, però, non ebbe gran successo poiché la clientela, al contrario di ciò che sembrava, era troppo affezionata al gusto vistoso e ai grandi ricami per accettare le novità.  Il rapporto si concluse quindi molto presto lasciando come unica testimonianza una toilette per la contessa Greffulhe.

La prima maison di Poiret

“Quando veniva l’autunno, tornavo dalla foresta di Fontsinebleau con una carrozza carica di foglie dorate, bruciate dal sole, e in vetrina le mescolavo con panni e velluti degli stessi colori. Quando nevicava, evocavo tutta la magia dell’inverno con stoffe di lana bianche, tulle e mussole combinate con rami secchi, e vestivo la realtà del momento intraprendendola in un modo che incantava i passanti”.

Paul Poiret aprì la sua prima maison nel 1903: due piccoli saloni e una vetrina sulla strada. Usufruì della vetrina per esporre le sue nuove meravigliose creazioni che ben presto attirarono tutte le donne tanto da farlo diventare uno dei luoghi canonici delle passeggiate parigine. L’intento di Paul era di andare a passo con le esigenze del momento liberando la donna dal corsetto che costringeva il corpo femminile ad assumere la linea a S, e sostituendolo con una cintura rigida e steccata alla quale era cucita la gonna. Continuò  a realizzare, appunto, abiti pratici e comodi come il mantello-kimono che divenne il prototipo di tutta una serie di creazioni successive. Lo chiamò Confucius e ogni donna ne acquistava almeno uno.

“Come tutte le grandi rivoluzioni, anche quella era stata fatta nel nome della libertà. Fu ancora nel nome della libertà che raccomandai l’abbandono del corsetto e l’adozione del reggiseno che da allora ha fatto fortuna”.
Da quel momento in poi, Poiret, cominciò a lavorare ad una nuova collezione basandosi solo sull’idea di donna moderna. Si trasferì, nel 1910, all’Hotel Partculier, in cui si divertiva ad organizzare spesso grandi feste. Poco tempo dopo creò il primo pantalone femminile (Jupe-coulotte) da indossare sotto la gonna. Due mesi dopo, accompagnato dalle sue modelle, con indosso capi firmati Poiret, iniziarono per Paul lunghi viaggi in giro per l’Europa, che furono per lui fonte di grande ispirazione per le nuove  creazioni. Al ritorno da questi meravigliosi e interessanti viaggi, Poiret aprì un nuovo atelier all’interno della quale i giovani lavoratori producevano profumi, mascara, e tanti altri cosmetici.

Nel 1914 organizzò una manifestazione per rappresentare il mercato americano e parigino con lo scopo di far collaborare la moda parigina e quella americana.  New York: proposta da parte di Paul per una nuova linea che consisteva la realizzazione di gonne corte e ampie con criolina. Finita la guerra, Paul, tornò a Parigi ma una tragica notizia lo scosse terribilmente: la morte dei suoi due figli e la decisione di sua moglie di voler la separazione. Afflitto dal forte dolore per la perdita di persone a lui care, decise di tornare a viaggiare ma questa volta verso il Marocco. Altra meta di grande ispirazione il Marocco per Paul, tornò, infatti, con un bagaglio ricco di nuove idee che diede, così, alle sue nuove collezioni un tocco di eleganza in più grazie anche all’utilizzo di nuovo materiale lussuoso come stoffe pregiate e ricamate. Sfortunatamente, nemmeno i suoi viaggi e le sue nuove collezioni gli furono d’aiuto in quel periodo di grande crisi e preso dalla disperazione decise di organizzare un’ennesima festa in cui appiccò un incendio per salvare le persone e portarle in salvo nel suo atelier. Nemmeno nei panni da supereroe riuscì a salvar la sua fama da stilista. Ma nel 1930 disse: “Sono solo, anche se mi rimangono alcuni nipoti e amici che credo mi vogliano bene. Sono tornano con passione alla pittura che ho sempre amato e praticato e nulla mi sembra più bello di esprimersi con i colori. Mi hanno proposto di rimettermi in attività, potrebbe succedere. Mi sento molti abiti sotto la pelle”.

Alessandra Federico

Scuola online: le difficoltà dei bambini a seguire lezioni attraverso lo schermo

“Non riuscivo a seguire la lezione online. Volevo tanto stare con i miei amici. Avevo tanta voglia di ridere con Luca durante la lezione di inglese perché la maestra è sorda. Volevo scambiare le figurine con i miei compagni di classe nell’ora della merenda. Finalmente siamo tornati  a scuola e spero che tutto questo duri per sempre”

Vivere questo particolare  periodo in cui il contatto umano e la vita sociale sono momentaneamente sospesi fa quasi dimenticare come ci si sentiva quando si poteva uscire liberamente di casa o abbracciare un amico. Purtroppo chi ne sta subendo maggiormente le conseguenze negative sono proprio i bambini: per i più piccoli è fondamentale stare insieme ai loro coetanei. È importante il contatto umano, anche darsi la mano durante la fila per entrare in classe o un abbraccio al proprio compagno di banco. Ancora, è importante guardare negli occhi e sentire la presenza fisica di un insegnante che ti spiega la lezione del giorno. Purtroppo, però, il contatto fisico tra i bambini era, da tempo, già ridimensionato  a causa del troppo utilizzo di videogiochi, social network e tutto ciò che possa ipnotizzare un bambino avanti ad uno schermo. Limitare loro anche l’opportunità di poter studiare insieme ai loro coetanei o praticare sport è stato veramente deleterio.

La soluzione potrebbe essere quella di far sì che una volta tornati alla normalità questi bambini possano trascorrere più tempo possibile in compagnia dei loro coetanei e il più possibile all’aria aperta senza ipnotizzarsi dinanzi ad uno schermo perché è importante che a quella età possano sentirsi liberi di dare sfogo alla loro fantasia, inventando e cambiando continuamente gioco purché sia frutto della loro inventiva, perché sviluppare la creatività nell’età infantile è fondamentale per far sì che in futuro possano riuscire a reinventarsi in ogni situazione.

Mattia è un bambino napoletano di 8 anni dotato di grande intelligenza ma che ha trovato purtroppo   difficoltà nel concentrarsi durante la lezione online. Ecco una breve intervista  a Cinzia (madre di Mattia) in cui ci racconta quale soluzione ha trovato per il suo bambino.

Cinzia, hai da subito trovato difficoltà Mattia nel seguire le lezioni online?

I bambini hanno bisogno di nuovi stimoli ogni giorno e questi li trovano soprattutto nel contatto umano. Mio figlio è un bambino molto volenteroso, andava bene a scuola e ha sempre praticato sport. Da quando ci sono state queste lezioni online non solo si è un po’ chiuso in se stesso perché non può vedere da mesi il suo migliore amico Paolo, ma ha trovato tanta difficoltà nel concentrarsi e nel seguire gli insegnanti.  Inizialmente sembrava che riuscisse a studiare ma col tempo notavo che si distraeva e ho deciso allora di cercare un aiuto, perché purtroppo con il mio lavoro posso dedicargli poco tempo per i compiti.

Che tipo di aiuto hai trovato?

Ho trovato un insegnante privato che segue Mattia tre volte la settimana per le lezioni extrascolastiche. Io credo  che Mattia abbia bisogno di qualcuno che gli parli faccia a faccia perché è un bambino che sente molto la necessità di avere un approccio fisico: gli ho sempre spiegato e dimostrato che il contatto fisico è importante quindi lui è abituato soprattutto a dare abbracci e baci, anche ai suoi maestri. È abituato a guardare negli occhi qualcuno quando gli parla, ma questo credo sia lo stesso per ogni bambino del mondo ma c’è chi ha vissuto questa situazione in modo diverso e riesce ugualmente a seguire le lezioni. Forse sono quei bambini che sono abituati a trascorrere molte ore avanti ad uno schermo.

 Crede sia dovuto a questo?

Ho sempre vietato a Mattia di trascorrere troppo tempo avanti al pc o alla play station,  al contrario, l’ho sempre invogliato ad impiegare il suo tempo libero, dopo lo studio, con amici e fare sport. Perché vedere mio figlio rimbecillirsi con un videogioco ore ed ore, ahimè, è la cosa che più mi spaventa. Ed è per questo che lui trova difficoltà a seguire lezioni online.  Parecchi suoi compagni di classe, invece, passano molto tempo alla play station o altri giochi, per cui sono loro stessi che dicono che preferiscono seguire le lezioni online anziché in presenza fisica, proprio perché affermano di essere diventata per loro un’abitudine vivere con uno schermo davanti agli occhi. Per quanto mi riguarda questo è tutto molto triste.

Come crede che farà con Mattia una volta finito questo periodo?

Quando questo periodo sarà terminato cercherò di far trascorrere a Mattia più tempo possibile con altri bambini e gli farò fare qualsiasi sport lui abbia voglia di praticare. Credo sia importante per il suo futuro sentirsi libero dalla schiavitù di uno schermo. Voglio che mio figlio sviluppi il cervello e la sua intelligenza più possibile adesso che esiste ogni mezzo per far si che i giovani di oggi abbiano più limiti, c’è bisogno che i genitori spronino  loro a capire qual è la strada giusta per il loro futuro e da cosa devono allontanarsi. Perché voglio che lui non si blocchi mai davanti ad un ostacolo e questo potrei ottenerlo se gli ripeto costantemente che studiare è fondamentale, leggere, inventare, creare, avere inventiva nei giochi senza playstation e cose virtuali che ti rubano la fantasia. Bisogna spronare i bambini ad essere creativi perché nel futuro non ci siano menti chiuse e zucche vuote ma nuove teste fantasiose e ingegnose.

Alessandra Federico

Salvatore Ferragamo: il rivoluzionario della calzatura italiana

Salvatore Ferragamo nacque a Bonito (provincia di Avellino vicino la città di Napoli) nel giugno 1898. Undicesimo di ben quattordici figli, conduceva una modesta quanto serena vita assieme ai suoi fratelli e i suoi genitori ma nonostante ciò, purtroppo, le loro condizioni economiche non diedero l’opportunità di far studiare lui e i suoi fratelli tranne che per il primogenito e, in ogni modo, in seguito a  grandi sacrifici da parte dei genitori.

Salvatore non si allontanò dal suo paese a differenza di altri emigranti di quel periodo e all’età di undici anni aveva lavorato per un anno a Torre del Greco presso un calzolaio e una volta compiuti dodici anni possedeva già una bottega di calzolaio tutta sua (acquistata grazie all’aiuto economico dei suoi fratelli maggiori), dove produceva scarpe su misura per le persone del posto. Nel 1912 all’età di quattordici anni decise di partire per gli Stati Uniti per raggiungere uno dei suoi fratelli a Boston e per perfezionare le sue capacità di designer e per trovare fortuna.

Una volta che si fu ambientato in America trovò lavoro in un negozio di scarpe a Los Angeles che forniva calzature per attori e cast dei film che si giravano ad Hollywood. Un giorno il regista protestò per la qualità di alcuni stivali  e Salvatore si offrì di confezionarli da solo. Il regista accettò e ne rimase soddisfatto ed entusiasta del risultato. Da lì a poco il numero di clienti fedeli a  Ferragamo crebbe velocemente: stelle del cinema da Anna Magnani, Sofia Loren a Marylin Monroe si rivolgevano a lui per i modelli unici e innovativi che Salvatore riusciva a realizzare. Il genio della calzatura italiana si affidava alla modernità della scarpa di quel momento e allo stesso tempo voleva unirla al concetto di qualità, ed è per questo motivo che successivamente si trasferì proprio ad Hollywood dove aprì l’Hollywood Boot Shop guadagnandosi il nome di “Calzolaio delle stelle”.

 “Ricordo di non essermi sentito ne triste ne pieno di nostalgia, un giorno sarei tornato ricco e famoso e avrei mostrato all’Italia come si dovevano fare le scarpe.”

Nel 1927 tornò in Italia dove aprì a Firenze il suo primo laboratorio dove realizzava scarpe da donna destinate, per i primi tempi, solo al mercato americano. In breve tempo diede vita alla sua prima azienda “Salvatore Ferragamo” e nel 1930 il pittore futurista Lucio Venna creò la prima etichetta e il primo manifesto pubblicitario Ferragamo. Ma la ditta dichiarò bancarotta nel 1933 a causa della inadeguata gestione amministrativa e della crisi mondiale. Ma, grazie alla sua geniale inventiva e creatività, per Salvatore ci fu ugualmente una rinascita: Palazzo Spini Feroni, negli Anni ‘50 (dove dal 1938 aveva creato la sua sede) era ormai meta di dive del cinema, delle famiglie reali e del jetset internazionale. Le giovani dive si recavano da Ferragamo per ordinare calzature che consideravano impeccabili per il designer, per la qualità e per l’inventiva.

Le calzature di Ferragamo sono state considerate vere e proprie opere d’arte: i suoi disegni spaziano da creazioni più bizzarre a linee di eleganza più tradizionale tanto da essere fonte di ispirazione anche per altri designer di calzatura del suo tempo. Una delle sue creazioni più famose fu negli Anni ‘30: la zeppa in sughero. Una vera e propria innovazione. Ferragamo realizzò la sua idea della zeppa in sughero durante il periodo del Fascismo quando la politica autarchica del regime era mirata sulla produzione interna consolidando in questo modo la moda italiana del tempo.

Salvatore Ferragamo muore nel 1960, ma la fama del suo marchio non è mai passata di moda grazie alla guida di sua moglie Wanda e dei loro sei figli Leonardo, Massimo, Giovanna, Fiamma, Ferruccio e Fulvia, che hanno portato avanti, sino ad oggi, il marchio Ferragamo.

Alessandra Federico

 

 

Omofobia e il coraggio di chi lotta: intervista a chi combatte ogni giorno per i suoi diritti

Quando si ha a che fare con le emozioni e con l’amore, nulla è sbagliato. L’omosessualità non è una malattia. È ora che le persone, tutte le persone, inizino a sentirsi libere di amare ed essere amate. A volte, però, incontrano nel corso della loro vita chi le fa sentire diverse, trovando difficoltà nell’accettarsi e nel dichiararsi apertamente gay. La vera battaglia inizia nel momento in cui decidono di raccontarlo ai propri genitori, con la speranza di essere accettati perché è lì che cercheranno rifugio. Infine, oltre le mura di casa, dove la loro vita diventa davvero difficile, dove sono costretti a lottare contro chi ancora crede che nell’amore ci siano regole da seguire, e dove c’è ancora la concezione che, se sei gay, sei diverso.

Seguire la massa

Parole razziste, provocazioni, veri e propri atti di bullismo sono costretti a subire da chi ancora vive con questi pregiudizi. Le parole delle persone omofobe sono una coltellata nel cuore di chi ama le persone dello stesso sesso. Ma cos’è che ci fa avere più paura a manifestare chi siamo davvero? Questa società ci impone di essere chi realmente non siamo, ci fa crescere con l’angoscia di non riuscire a essere come gli altri e di rimanere soli. Questo porta la maggior parte delle persone a vivere e comportarsi fingendo di essere chi non si è realmente, indossando una maschera per compiacere il prossimo. La paura di essere criticati o ancora peggio derisi, fa si che le persone, soprattutto nell’età adolescenziale, arrivino ad adeguarsi alla massa per essere stimati. Tale comportamento porta gravi conseguenze: difficoltà a relazionarsi, continua mancanza di fiducia in se stessi e nel prossimo, a volte aggressività o peggio ancora suicidio. Ma chi ha deciso che solo l’eterosessualità è naturale?

“Sono gay e non è stato facile per me farmi accettare. Ho attraversato un periodo difficile nella mia vita: oggi, però, grazie alla mia famiglia, riesco ad affrontare ogni pregiudizio”.

Queste sono le parole di Mauro, napoletano di 45 anni che racconta la sua storia e come ha lottato per sopportare la meschinità di chi ancora non accetta questa realtà.

Mauro, quanti anni avevi quando ti sei dichiarato?

Avevo 19 anni, precedentemente avevo avuto una sola fidanzata. Era molto bella: bionda con gli occhi verdi. Stavamo bene insieme ma nel momento in cui trascorrevo troppo tempo con lei, iniziavo a diventare insofferente. Credo di essere stato con lei solo per mascherare la mia vera natura, perché l’ho sempre saputo di provare attrazione verso il mio stesso sesso, ma avevo difficoltà ad accettarmi e ad accettare il fatto di essere ‘diverso’, perché è così che ti fanno sentire in questo mondo pieno di malignità e pregiudizi. Facevo dunque fatica a essere me stesso, a volte anche con chi poteva capirmi e starmi accanto. Temevo il loro giudizio, bastava uno sguardo per farmi iniziare ad avere paranoie e credere che mi stessero prendendo in giro. Avevo otto anni quando m’innamorai del mio compagno di banco, Massimiliano, ma questo l’ho sempre tenuto per me.

Qual è stata la prima persona con la quale ti sei sentito libero di parlare?

La prima persona con la quale mi sono apertamente dichiarato gay è stata proprio la mia prima e unica fidanzata, Giorgia. La sua reazione fece commuovere anche me. “Ti voglio bene, sono felice per te”, mi disse tra le lacrime. Mi ha sempre capito e per questo motivo ho sempre voluto che rimanessimo amici. La seconda persona a cui avrei voluto dirlo era mia madre, ma l’avevo persa da circa un anno. Mi accontentai di parlare alla sua foto. Io sapevo che lei c’era, mi bastava alzare lo sguardo e guardare le stelle per sentirla accanto. Era la stella che brillava di più. Decisi di confidare a mio padre questo mio piccolo segreto, gli parlai apertamente, senza peli sulla lingua. Sapevo mi avrebbe capito, così non passò molto tempo e ne parlai alle mie tre sorelle e i miei due fratelli. Il rapporto con la mia famiglia è da sempre stato speciale per me, ho sempre trovato conforto, il mio rifugio. Fuori di casa, però, la mia vita non era facile: subivo atti di bullismo, critiche e parole razziste.

Come hai affrontato queste situazioni?

La maggior parte delle volte li aggredivo per difendermi, ma si finiva sempre per scatenare una rissa. Tornavo a casa con un occhio gonfio o un labbro sanguinante almeno due volte a settimana. La mia famiglia mi ha aiutato, mi è stata vicino, mi ha fatto capire che non è importante ciò che pensano queste persone perché non è fondamentale avere il rispetto di gente come loro nella mia vita. Iniziai ad acquisire un altro metodo: l’indifferenza. Sorridevo quando mi prendevano in giro. Purtroppo in Italia c’è ancora troppa ignoranza e per evitare di soffrire ancora, decisi di andare a vivere a Londra per diversi anni. Adesso vivo in Italia da almeno dieci anni.

Adesso che sei tornato in Italia, vivi le stesse esperienze o le cose ti sembrano essere cambiate? Posso dire che sicuramente le cose oggi sono cambiate perché le persone hanno la mentalità più aperta ed è un po’ più difficile che io possa avere a che fare con un omofobo, anche se non ti nascondo che proprio ultimamente ho avuto un’esperienza poco piacevole con un mio collega che ha utilizzato parole offensive sul mio conto riguardo al mio orientamento sessuale. Posso dire che rispetto agli anni ’90, oggi riesco a rapportarmi quasi con tutti in Italia, anche se tornerei volentieri a Londra, dove sei libero da ogni pregiudizio.

E cosa ci dici sull’amore?

Sono stato fidanzato diverse volte, ora vivo una relazione a distanza con Andrea, napoletano come me, che vive a Bologna dove lavora come cuoco in una cucina di un ristorante. Stiamo insieme da circa due anni, ma non posso negare che la lontananza è dura per cui presto prenderemo la decisione di avvicinarci. Prima di stare con lui ho avuto altre storie d’amore ma spesso mi ritrovavo ad avere a che fare anche con uomini sposati con donne, quelli che hanno paura di dichiararsi omosessuali, quelli che temono il giudizio altrui, perché in questo mondo non è facile essere se stessi. Insomma, il mio di mondo non è semplice da vivere, ci sono tanti ostacoli da superare, lotte continue per avere gli stessi diritti degli etero e situazioni particolari da affrontare quasi tutti i giorni. Per quanto l’omosessualità possa essere stata accettata, viviamo ancora in un paese dove, per essere accettati, dobbiamo essere tutti uguali.

Secondo te quindi l’emancipazione è un’ipocrisia?

Non del tutto. Di certo non posso dire che dagli anni ’70 ad oggi sia tutto uguale o che sia tutta una finzione quella di accettare i cambiamenti. Ma posso dire che si respira ancora tanta ignoranza nella folla di questo Paese. La maggior parte degli uomini, oggi, sono ancora maschilisti, c’è ancora il cosiddetto ‘padre padrone’, quelli che tendono a manovrare la donna, tanto per dirne una. Inoltre, penso anche che la maggior parte delle persone fingano di accettare ‘quelli come me’.

Questa cosa come ti fa sentire?

È un qualcosa che ho imparato ad accettare nel corso degli anni e con l’esperienza, ci ho fatto l’abitudine. Ci sono persone poco sensibili e quelle le incontrerai sempre, quindi ho deciso di affrontare questa situazione con serenità, essendo sempre me stesso anche se non accettato da tutti. O meglio, non essendo accettato sul serio.

Che consiglio ti sentiresti di dare a chi ancora non si è dichiarato?

Penso che ognuno abbia i propri tempi, ma la cosa fondamentale è che non bisogna avere paura del giudizio altrui. Quindi se non ci si sente di farlo per il solo terrore di essere presi in giro, non è un buon motivo. Non c’è cosa più bella di essere se stessi. Se i diritti ottenuti dalle donne negli anni ’70 rappresentano un esempio di emancipazione della società, l’accettazione dei gay sarebbe un ulteriore passo avanti. Necessario per capire che nel mondo siamo tutti uguali.

Alessandra Federico

 

Delinquenza e povertà in Venezuela: “Si sopravvive ogni giorno”

“Ogni giorno ringraziavo il cielo per essere ancora vivo”.

Caracas, Maracay, Valencia: tre su ventidue città in Venezuela sono vere e proprie capitali della delinquenza, dove la criminalità arriva a impossessarsi del 30% della popolazione per ogni città. Dal 2001 al 2016 ci sono stati quasi 300mila omicidi. Nel 2018 è stato il Paese più violento del mondo, con una percentuale di 98 omicidi per 100mila abitanti. Oggi tre milioni di venezuelani vivono all’estero, di cui almeno due milioni sono partiti dopo il 2015. Lo stato sudamericano è devastato da una profonda crisi economica e la popolazione vive una situazione disastrosa, costretta a combattere ogni giorno contro la criminalità per sopravvivere. Senza tener conto della povertà, difficoltà a trovare cibo, mancanza di acqua corrente, di luce e gas. Il Venezuela è uno dei Paesi con le più ingenti riserve petrolifere al mondo e questa risorsa è stata fonte di grande guadagno per l’economia venezuelana fino alla diminuzione del prezzo del petrolio. La povertà in Venezuela costringe la popolazione a derubare anche i vicini di casa per un pezzo di pane, perché lavorare per uno stipendio di cinque euro al mese porta alla disperazione. La crisi sociale ed economica del paese sudamericano spinge la maggior parte delle persone ad emigrare, ma non è facile per chi non riesce a racimolare i soldi necessari per potersi permettere una vita migliore.

 

“Ho vissuto davvero anni d’inferno. Quando mettevo piede fuori casa, non sapevo se sarei ritornato. Una delle poche cose che ricordo con nostalgia è la pioggia. Perché lì la pioggia è calda e quando mancava il riscaldamento in casa, molte persone scendevano in strada muniti di bagnoschiuma e shampoo per farsi la doccia sotto il cielo. Si creava un’atmosfera calda e festosa, soprattutto per i più piccoli”.

 

Nathan ha 25 anni ed è solo uno dei tanti emigrati dal Venezuela. Da due anni vive in Italia con i suoi genitori, con sua sorella e sua figlia di soli sette anni. Nathan racconta la sua storia e di come è sopravvissuto alla silenziosa guerra che ogni giorno era costretto ad affrontare.

Quanto sono frequenti gli atti criminali nel tuo paese?

In Venezuela per ogni dieci metri che percorri, hai già incontrato almeno cinque malviventi che, armati di pistola o fucili, ti chiedono soldi, telefono o qualsiasi cosa tu possieda che per loro possa aver un qualche valore. Arrivano addirittura a rubarti le scarpe così sei costretto a camminare scalzo e se ti rifiuti o se non hai niente da dargli ti bastonano, nel migliore dei casi. Ma quando hanno voglia di sparare, ti tolgono la vita. Per loro è un gioco. Ed è questo che mi fa più rabbia: vedere queste persone aggirarsi per le strade di Maracay con un fucile tra le mani e un sorriso smagliante, perché per loro è divertimento guadagnare uccidendo le persone. Ma ciò che mi faceva più paura era dover proteggere mia nipote. Non è giusto far vivere un animo così delicato in una realtà così crudele: sguardi minacciosi e volti sanguinanti, era davvero una sofferenza per me dover dire a Laia che andava tutto bene, che saremmo arrivati a casa sani e salvi quando la verità era che nemmeno io sapevo se ce l’avremmo fatta. E questo accadeva tutti i giorni. Quasi sempre, quando andavo a lavoro, lasciavo a casa soldi e cellulare. A volte mi veniva in mente di camminare anche scalzo, tanto qualcuno mi avrebbe obbligato a dargli le scarpe. La sera, invece, andavo a bere una birra a casa della ragazza di cui mi ero innamorato: Mary, e ogni sera dovevo prima guardare dalla finestra per assicurarmi che non ci fosse nessun malvivente nei dintorni, poi fare una corsa per entrare nel palazzo dove abitava lei. Tutto questo per la paura di essere derubato o aggredito. E abitava di fronte casa mia. Ora per fortuna anche lei è andata a vivere all’estero con la sua famiglia.

Hai perso persone a te care, vittime della criminalità?

Mio fratello maggiore Marcos ha perso la vita per colpa di quei delinquenti. Aveva 16 anni. Me l’hanno portato via perché ha avuto il coraggio di affrontarli, rifiutando loro di dargli lo stipendio che aveva appena ricevuto. Due colpi dritti alla testa. Questo è tutto quello che ricordo perché avevo solo 9 anni. La figlia della mia vicina di casa è stata presa in ostaggio per sette mesi, chiedendo in cambio soldi, cibo e automobile. La polizia interviene ma solo se ne ha voglia. A volte arriva dopo due o tre giorni. Ho perso anche alcuni amici. Per questo motivo ho deciso di portare mia sorella, mia nipote e i miei genitori lontano da lì. Soprattutto per dare un futuro migliore a Laia, per salvare almeno la sua infanzia.

Hai qualche ricordo particolare della tua infanzia in Venezuela?

Il rosso. Il colore rosso del sangue che ricopriva il volto o l’intero corpo delle vittime era ormai una scena che vedevo quotidianamente. Questo non lo dimentico. È un colore che tuttora mi disturba un po’, non lo nego. Poi ricordo gli spari, soprattutto quelli oltre le sette di sera, perché dopo quell’ora c’è il coprifuoco. Ci rinchiudevamo tutti nelle nostre case e accendevamo la televisione, così per i più piccoli i rumori erano coperti dal volume alto di un film, almeno per un po’. A tarda notte, per fortuna, si sentiva solo qualche macchina passare. Questa è una cosa che ricorderò per sempre. E le urla. Urla e pianti di chi era vittima di quei delinquenti. Perché mio padre lo diceva sempre: ‘arriverà anche il turno nostro se non andiamo via da questo paese infame’. Parlava con mia madre, io lo sentivo, aveva ragione. Aveva ragione perché quei bastardi ci hanno portato via Marcos. Era un incubo, la paura di dover uscire da casa anche solo per andare a scuola non ci faceva dormire la notte. Ho anche dei ricordi piacevoli, anche perché preferisco ricordare i momenti belli anziché quelli brutti. Le giornate calde al mare o la doccia in strada sotto la pioggia. Il ricordo più bello che ho è legato a mio fratello: mio padre ci portava tutte le domeniche a pescare e una sera, al ritorno, lui mi regalò un soldatino di plastica della sua collezione. Lo porto tuttora con me, mi aiuta a sentirlo più vicino.

Che lavoro facevi in Venezuela?

Facevo il magazziniere e guadagnavo l’equivalente di 5 euro al mese. Praticamente quei soldi non erano sufficienti nemmeno per sfamare mia nipote e quindi ero costretto a fare due lavori. Era difficile anche procurarsi del cibo perché nei supermercati andava tutto a ruba. Molte volte non riuscivo ad arrivare in tempo a lavoro perché i treni non funzionavano a causa della mancanza di corrente e gli autobus spesso saltavano le corse. Avevo un motorino che hanno ovviamente cercato più volte di rubare. Mi trovavo sotto casa: ‘dammi le chiavi del tuo motorino’, disse un uomo dalla voce inquietante. ‘Io faccio parte della delinquenza quanto te. Che facciamo, io rubo a te e tu rubi a me?’, gli dissi. Ero costretto a dire così per non vedermi portare via l’unico mezzo che avevo a disposizione per portare soldi a casa.

In quale altro modo procuravi del cibo per te e la per la tua famiglia?

In Venezuela il cibo si procura ogni giorno, perché devi trovare soldi ogni giorno. Io mi inventavo lavori diversi, dal vendere oggetti vecchi che avevo a casa, all’accettare qualsiasi tipo di lavoro che mi proponevano, purché fosse onesto. Ci vogliono almeno 20 euro per fare la spesa lì, perché lo stipendio è basso ma la vita è abbastanza cara. Ad esempio, noi utilizziamo spesso la farina di mais per i cibi che prepariamo, ma arrivava una volta alla settimana per ogni supermercato di ogni provincia e quindi spesso non la riuscivo a trovare o se la trovavo dovevo rispettare una fila di 150 o 200 persone per acquistare un solo pacchetto. Inoltre,  parecchi commercianti, per paura della delinquenza, sono costretti a rimanere all’interno del magazzino e a passare la merce attraverso lo sportello. Un po’ come le farmacie notturne. Ci sono anche negozi come i supermercati dove puoi tranquillamente acquistare merce come in Italia, ma sono pochi.

Come ti trovi adesso in Italia?

Posso dire di essere nato di nuovo. La mia vita in Venezuela fa parte ormai del mio passato e ne farò sicuramente tesoro perché qualsiasi esperienza ci aiuta a crescere e ci insegna delle cose importanti. A volte ci lascia segni positivi, altre volte negativi, ma ad oggi so dire che tutto quello che ho vissuto mi ha fatto capire quanto è importante godersi ogni giorno la vita e apprezzare le piccole cose. In Italia mi trovo molto bene, vivo a Napoli da due anni e i Napoletani sono molto calorosi. Mi trovo bene qui soprattutto perché il mio lavoro mi  permette di vivere e non più di sopravvivere, facendomi togliere anche qualche sfizio come acquistare un paio di scarpe in più senza la paura di doverle dare a qualcuno. Passeggio tranquillamente per le strade della città e posso mangiare quello che voglio a qualsiasi ora del giorno,  senza preoccuparmi di trovare il market vuoto. La cosa che più mi dà gioia è che finalmente la mia famiglia può vivere serena e che mia nipote potrà avere un futuro migliore rispetto a quello che le sarebbe toccato in Venezuela.

Alessandra Federico

Un progetto per il futuro: Marinella e gli Aquiloni

Sarebbe stato un 2020 denso di iniziative, impegni ed attività in presenza per la Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni di Volontariato della Municipalità 2 del Comune di Napoli se non fosse subentrata la pandemia da Covid-19.

Nonostante le limitazioni e il distanziamento sociale imposti a la tutela della salute, la Consulta, presieduta dall’arch. Giovanna Farina, è riuscita a mantenere vive alcune delle principali iniziative programmate mettendo in campo azioni in rete che hanno consentito la partecipazione di molte delle Associazioni iscritte alla Consulta e di proseguire il lavoro  e le attività con l’ausilio delle moderne tecnologie. Parliamo con la presidente Farina di una di queste, il progetto “Marinella e gli Aquiloni” edizione 2020, promosso dall’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna di Napoli e proposto dalla Scuola Superiore di esecuzione penale “Piersanti Mattarella” nel 2018 nell’ambito del progetto formativo “La comunità da fare”. L’edizione dell’appena trascorso 2020 ha preso l’avvio il 24 agosto con la collaborazione del Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità – Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna (UIEPE) per la Campania, Enti Pubblici, Enti Morali, Enti del Terzo Settore, Scuole, Municipalità 2 del Comune di Napoli e la Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni di Volontariato della Municipalità 2.

Grazie alla collaborazione della Municipalità 2, il percorso di formazione ha coinvolto 12 persone in esecuzione penale esterna integrando la formazione teorica con quella pratica in cantieri della zona Mercato-Pendino, territorio dalla grande tradizione storico-culturale, ma soggetto a forte degrado ambientale e sociale.

Presidente Farina molte delle Associazioni della Consulta della Municipalità 2 hanno siglato il protocollo tra gli Enti del Terzo settore per la realizzazione del progetto Marinella e gli Aquiloni, una sinergia importante tra Enti pubblici, Enti del Terzo settore, Istituzioni… Anche la Consulta nella sua funzione istituzionale ha sottoscritto il protocollo tra gli Enti pubblici, perché la scelta di partecipare anche in questa veste?

Per rafforzare i legami collaborativi intrapresi con gli Enti che hanno costituito la “Rete Marinella” ed estendere le relazioni e gli scopi costitutivi agli altri Enti che operano sul territorio e all’intera cittadinanza.

Questi propositi sono importanti per legare esperienze e azioni comuni. Fare rete vuol dire scambiare buone pratiche cioè evolvere. Sono convinta che il sistema collaborativo della partecipazione e del coinvolgimento delle associazioni in questo progetto ha sviluppato nuovi comportamenti grazie ai quali è migliorato l’ ascolto, si sono superati ostacoli, ci si è messi in discussione.

La Municipalità 2 ha visto lo sviluppo di questo progetto, nato in via sperimentale lo scorso anno e, nonostante le difficoltà generate dal Covid-19, sviluppatosi con molto impegno ed interesse da parte di tutti i partecipanti. Ritiene l’esperienza esportabile anche in altre Municipalità del Comune di Napoli?

Si. L’impegno positivo e operoso dei borsisti durante l’ intero percorso di formazione e di reinserimento lavorativo ha cancellato perplessità e titubanze e ottenuto risultati visibili.

 

L’auspicio di tutti coloro che hanno collaborato a questo progetto coordinato da Obiettivo Napoli, Ente del Terzo settore che da anni opera nella città di Napoli a favore delle categorie fragili, è che la positiva esperienza possa diventare un appuntamento annuale.

Orsola Grimaldi

 

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