Kenzo Takada: il primo stilista orientale in Occidente

Lo stilista giapponese che ha unito la moda Orientale  con quella Occidentale.

“Non aveva senso che facessi anche io quello che facevano gli stilisti francesi, non sapevo neanche farlo. Così mi misi a disegnare vestiti in modo diverso, usando i tessuti dei kimono e fonti di ispirazioni diverse”.

Kenzo Takada è morto domenica 4 ottobre all’età di ottantuno anni, in un ospedale di Parigi dove era ricoverato a causa del Coronavirus. Kenzo, è stato il primo stilista giapponese a recarsi a Parigi nel 1964 , conquistando  immediatamente, con le sue creazioni folcloristiche e vivaci, una vasta clientela di giovani: la moda di quel momento stava subendo un grande cambiamento e Kenzo era entusiasta di voler far parte di quella grande rivoluzione della moda.

Il talentuoso stilista contribuì alla liberazione dalla rigida forma dell’haute couture inserendo il prêt-à-porter: abiti pratici dai colori vivaci e floreali. Kenzo presentava, durante le sue sfilate di moda, le sue meravigliose creazioni indossate da graziose modelle in groppa a un elefante. Lo stilista adottò il semplice taglio del kimono della sua patria combinandolo anche con elementi sudamericani, orientali e scandinavi. Ancora oggi mostra questa caratteristica nelle sue griffe. Kenzo era uno degli stilisti con maggiore inventiva, fantasia e soprattutto dotato di una grande volontà, nel 2012, presentò le sue collezioni un mese prima rispetto a tutti gli altri stilisti di moda. Oltre al prêt-à-porter femminile, creò anche una nuova linea per uomo e per bambino.

Kenzo Takada nacque a Himeji, vicino Osaka, il ventisette febbraio 1939 ed è stato uno dei primi studenti uomo a frequentare l’accademia di moda di Bunka, a Tokyo. La sua carriera fu rapida e in ascesa: vinse nel 1960 il premio Soen per nuovi stilisti emergenti. Nei grandi magazzini Sanai, Kenzo iniziò a lavorare disegnando abiti per ragazze fino a quando i lavori per le Olimpiadi nel 1964 cambiarono la sua vita:  la sua casa venne distrutta per costruire nuovi progetti e grazie al risarcimento donatogli, approfittò per fare un viaggio in barca da Hong Kong, Singapore, Mumbai fino alla Francia dove affittò una casa  Parigi, e dove iniziò a vendere bozzetti di abiti agli stilisti di alta moda.  Nel 1970 aprì una piccola boutique, “Jungle Jap”, con pareti floreali dipinte da lui perché il suo desiderio era fondere le sue due passioni : la giungla e il Giappone.

Verso il successo

Nel 1971 la rivista di moda Elle pubblicò in prima pagina uno dei suoi lavori e alla sfilata organizzata nella sua boutique andarono giornalisti da tutto il mondo. Kenzo non possedeva abbastanza danaro, era quindi  costretto a cucire insieme le stoffe comprate a Parigi e quelle portate da lui dal Giappone creando così una linea al quanto originale. Introdusse, nel 1983, anche l’abbigliamento maschile, nel 1986 una linea di jeans e nel 1988 profumi e l’arredamento. Nel 1990 morì il suo compagno e socio in affari Xavier.  Per questo triste motivo, Kenzo, nel 1993 vendette la sua azienda per 80 milioni di dollari a LVMH, il più grande gruppo del lusso francese di proprietà di Bernard Arnault, che comprende anche Christian Dior, Louis Vuitton, Fendi e Celine. Nel 1999 si ritirò dal mondo della moda. Continuò a disegnare costumi per l’opera e le uniformi della squadra olimpica giapponese del 2004 anche dopo aver lasciato l’azienda. Si dedicò  completamente all’arredamento e fondò il marchio K3 nel 2020.  Con il suo lavoro, Kenzo ha aperto la strada per Parigi ad altri stilisti giapponesi, come Rei Kawakubo e Yohji Yamamoto.

Lo ricorderemo per i suoi originali abiti colorati, che trasmettevano un senso di libertà per il corpo della donna. Kenzo rimarrà per sempre il creatore di abiti “felici”.

Alessandra Federico

Anaffettività: paura di provare emozioni

“Non riuscivo a provare emozioni.  Vivevo la mia vita in modo del tutto razionale e chiunque voleva darmi affetto io lo allontanavo. Quando nasci e cresci in un contesto familiare in cui la felicità è a piccoli sprazzi ti porterai dietro per tutta la vita la convinzione di non poter essere felice perché credi che prima o poi qualcuno te la porterà via.”

Non riuscire a manifestare sentimenti e a provare emozioni è tipicamente un atteggiamento di chi è anaffettivo. L’anaffettività può colpire sia uomini che donne e deriva maggiormente da traumi infantili o adolescenziali. Quando per anni si ha vissuto in situazioni traumatiche la mente tende ad avere, di conseguenza, una percezione distorta delle cose: credere di non riuscire a meritare affetto e di non essere in grado di darne. Pur di non soffrire, le persone anaffettive, si privano degli affetti perché baci, carezze, abbracci  provocano in loro  grande sofferenza perché credono che la felicità sia solo uno stato momentaneo che presto o tardi finirà. Difatti, l’anaffettivo ha bisogno di tante certezze per poter acquisire fiducia ed essere felice perché è terrorizzato dal fatto che prima o poi qualcosa tornerà a farlo soffrire. Per questo motivo sono poco fiduciosi nel prossimo e sono convinti che nessuno farà parte per sempre della loro vita.

Questo accade solitamente quando al soggetto in questione viene di continuo  donato e strappato amore sin dall’età infantile.  L’anaffettività è più comune di quanto si possa pensare.  Le persone che ne soffrono non sono solo quelle evidentemente prive d’amore da dare o che evitano ogni tipo di contatto fisico ma sono soprattutto coloro che sembrano avere apparentemente una relazione d’amore stabile,  ma che in realtà credono di non poter ricevere nè dare  affetto anche se tutto questo avviene “dietro le quinte”. Questo è uno dei motivi per cui alcune persone tendono ad avere più di una relazione contemporaneamente: il terrore di legarsi ad una sola persona implica il fatto di abbandonarsi completamente a essa e questo, per le persone anaffettive, è motivo di sofferenza.  Vivendo invece più di una relazione nello stesso momento evitano ogni tipo di legame e di conseguenza ogni tipo di sofferenza.

Frequentavo diverse donne contemporaneamente perché in questo modo mi convincevo che non ci avrei rimesso il cuore, che non avrei sofferto perché per me concentrarsi solo su una persona significava dare tutto me stesso e quindi vivere di emozioni, e per me vivere di emozioni avrebbe significato dover soffrire ancora”.

Nicola, conosci i motivi per cui sei diventato anaffettivo?

Quando ero bambino i miei genitori mi lasciavano spesso con i miei nonni a causa dei  loro continui viaggi di lavoro e soprattutto di piacere. Ero un bambino molto vivace ma questo causava dei problemi a chi non avrebbe mai voluto avermi. I miei nonni erano presenti  e attenti con me ma io avevo bisogno dei miei genitori.  Il fatto che loro mi abbandonassero di continuo era per me una sofferenza perché credevo di non essere voluto e questo ha causato in me diversi problemi: anaffettività e allo stesso tempo paura dell’abbandono.

Te la senti di raccontare un po’ le tue esperienze a riguardo?

Nell’età adolescenziale vivevo con la paura che ogni persona che conoscevo sia amici che relazioni amorose, potessero un giorno abbandonarmi. Questo ha provocato molte complicazioni nei miei rapporti con le persone perché iniziavo a diventare morboso e naturalmente mi allontanavano. Crescendo, diventando più maturo ho attraversato la fase dell’anaffettività. Mi spiego: dall’essere esageratamente ossessivo, soprattutto nella relazione d’amore, sono passato ad essere completamente freddo e insensibile. Conoscevo ragazze ma non provavo affetto. Poi ho attraversato una terza fase e cioè quella di avere la ragazza fissa ma vivere anche altre relazioni occasionali e questo ha portato maggiore sofferenza per me anche non me ne rendevo conto.

C’è qualcuno che ti ha aiutato a superare tutto questo?

Una delle mie amanti. Lei diceva che ero anaffettivo ma in realtà non mi ero mai veramente soffermato a riflettere sulle sue parole, fino a quando lei decise di lasciarmi perdere. È stato più semplice di quanto si possa pensare perché mi resi conto che le volevo bene  più di qualsiasi altra persona o della mia fidanzata e decisi quindi di risolvere andando da uno psicoterapeuta. Da li a poco venni a conoscenza di tutti i miei problemi e decisi di risolverli.  Capii che avevo paura di essere felice perché da bambino ogni volta che lo ero, quando i miei genitori tornavano e mi portavano anche un regalo, poco dopo ripartivano lasciandomi di nuovo solo. Quindi per me la felicità era solo un avviso alla prossima delusione.

Adesso come vivi le tue relazioni?

Ho scoperto molte cose di me ho buttato fuori tante cose del mio passato che tanto mi facevano soffrire ed elaborarle ha risolto questi problemi che mi sono da sempre portato dietro. Adesso credo che la felicità sia nelle piccole cose ma che vale sempre la pena di vivere ogni emozione che la vita ti regala. Per essere felici ci vuole coraggio.  Per me i miei nonni sono i miei genitori, ho quindi imparato che non bisogna considerarli tali quelli biologici,  perché spesso chi ti mette al mondo poi ti distrugge.

Alessandra Federico

Violenza tra giovani

Una vera  e propria tragedia che ha stravolto l’intera Italia quella della morte del giovane ventunenne trovatosi  coinvolto  in una rissa per voler difendere il suo amico. 

Nella notte tra il 5 e 6 settembre, Willy e gli amici erano di ritorno dalla solita serata al pub di Colleferro, vicino Roma, ma qualcosa avrebbe per sempre cambiato il loro destino. La causa della morte deve essere confermata dall’autopsia poiché non è ancora ben chiaro cosa sia successo, ma secondo quanto riportano i giornali l’omicidio è avvenuto sul retro di un edificio poco distante da una caserma dei carabinieri. Accusati di omicidio preterintenzionale in concorso, aggravato da futili motivi, i 4 ragazzi tra i ventidue e ventisei anni, residenti ad Artena, sono stati arrestati dai carabinieri e sembra che tutti abbiano già dei precedenti penali.

Willy Monteiro Duarte è morto durante il tragitto per arrivare in ospedale. Schiaffi e pugni e sembra che un calcio alla testa sia stato per lui letale. Una lotta durata poco più di 20 minuti per distruggere la vita di Willy e      quella della sua famiglia. “Era come un figlio per me, l’ho cresciuto. Siamo sconvolti.” Le parole della  zia di Willy trasmettono tutta la sofferenza e il dolore che sono costretti a sopportare. Un vuoto che nessuno potrà mai colmare nella sua famiglia.

I genitori non dovrebbero mai sopravvivere ai propri figli, si dice. Eppure si continuano a sentire vicende catastrofiche di teenager in cui la morte avviene per motivi solitamente futili.

Com’è possibile che le persone vogliano, ancora oggi, risolvere le cose usando la violenza? Ma perché tutta questa rabbia? E che ci sia ancora tanta chiusura mentale da non riuscire a usare la ragione? Queste sono le domande che molti di loro oggi giorno pongono con la speranza di porre fine a tutta questa violenza.

La violenza non si combatte con altra violenza. Si dovrebbe, al contrario, reagire in modo intelligente iniziando dalla base cambiando forma mentis: partire dall’educazione nelle scuole primarie, insegnare ai bambini il rispetto verso il prossimo, prima di ogni cosa. Ancora, la pace e la convivenza con il prossimo, l serenità interiore e come raggiungere i propri obiettivi senza scavalcare nessuno ma riuscendoci soltanto con le proprie forze. Iniziare a cambiare la visione della vita in modo da dare ai giovani una formazione corretta ed una consuetudine di pensiero differente da quella che fino ad oggi si ha avuto, sviluppando in loro maggiore intelligenza emotiva, ovvero, la capacità di razionalizzare le proprie emozioni, potrebbe essere il metodo per ottenere la pace tra le persone e forse un mondo migliore senza violenza. Insegnare a riconoscere le proprie emozioni è di conseguenza un modo per poterle gestire, e quindi auto-controllarsi in determinate situazioni. Ogni anno aumentano i casi di violenza tra giovani e spesso senza un concreto motivo, creando risse per il semplice gusto di sopraffare e prendersela con i più deboli. La maggior parte delle volte, però, questi scatti di ira sono dovuti a conseguenze di atti di violenza subiti a loro volta nell’età infantile: violenza fisica o psicologica, educazione sbagliata dei genitori, esempi sbagliati da parte dei genitori, una probabile situazione disagiata in cui è costretto a vivere nel proprio nucleo familiare. Altre volte, invece, nonostante il ragazzo vivesse in una serena situazione familiare, arriva ugualmente a intraprendere strade sbagliate e pericolose perché ha difficoltà ad inserirsi nella società e a farsi accettare dai compagni, o, ancora, a causa dell’accesso troppo precoce o l’uso frequente dei social media.

Le cause della violenza tra giovani

Ipnotizzarsi avanti ad uno schermo già dall’età infantile può divenire un vero e proprio problema una volta divenuti adulti, perché tutto ciò non fa altro che bloccare lo sviluppo della mente, nello studio, nella conoscenza, nella vita sociale, e nella realizzazione personale. E, faccenda ancora più grave, può far divenire violenti e irascibili. Il motivo per cui un ragazzo intraprende strade sbagliate e ricorre facilmente alla violenza fisica potrebbe essere anche causato dalla frequente visione di video o videogiochi che alimentano odio, rancore, rabbia e di conseguenza  il ragazzo si fa facilmente suggestionare e influenzare in modo negativo perché undici, tredici o sedici  anni, sono troppo pochi per saper distinguere il bene dal male e per assorbire solo il lato positivo o educativo di un videogioco, qualora dovesse esserci. Altri motivi per cui un ragazzo si fa facilmente condizionare da video del genere potrebbe essere dovuto a conseguenze di traumi infantili causati dalla famiglia apparentemente perfetta, e che quindi, raggiunta l’età adolescenziale, può diventare facilmente condizionabile e trascinabile. Ragion per cui diventa facile che possa cercare via d’uscita a questa inconscia sofferenza  e voler sfogare in qualche modo  la rabbia repressa. Sta di fatto che permettere a ragazzi troppo giovani di navigare su internet e utilizzare i social network, video giochi e video violenti, potrebbe trasformare la loro vita in una tragedia.

Alessandra Federico

Gioco dunque sono. Filosofia di un videogamer

Massimo Villa ci porta nel mondo dei videogames.

Videogiocare attrae milioni di persone in tutto il mondo, di ogni età, ceto sociale, background culturale. Videogiocare è un’attività da valutarsi seriamente?

Come tutti i fenomeni che investono milioni di persone da generazioni, è indubbiamente un’attività da valutarsi seriamente. Ricordiamoci che da un punto di vista economico alle spalle c’è un’industria che fattura annualmente più di quella del cinema. Per quanto riguarda invece i videogiocatori, che ormai sono di tutte le età e di entrambi i sessi, la risposta è scontata. I videogame fanno parte del nostro bagaglio culturale, possono svagare, impegnare la mente, divertire, insegnare ed educare. Ricordiamoci che sono una forma d’arte esposta in musei famosissimi in diverse parti del mondo e l’art design è a scapito di artisti internazionali le cui qualità sono universalmente riconosciute. Come se non bastasse, i videogame hanno tenuto uniti i nostri figli durante l’emergenza Covid più della didattica a distanza. Si sono infatti potuti vedere, sentire, condividere, parlare in altre lingue, frequentare e divertirsi. Cosa non da poco.

Chi videogioca non si limita ad afferrare un joypad e mettere in funzione la PlayStation. La propria passione è seguita su uno smartphone, sul treno, in strada, in vacanza o al lavoro. Quanto siffatta pratica isola o può aprire anche al consesso umano?

In realtà è un falso problema. Anche leggere, guardare un film, dipingere o scrivere può isolare oppure unire, far trovare persone con gli stessi interessi, stringere rapporti umani. A mio avviso i social, in questo caso, sono più pericolosi dei videogame. Sui social molti si sentono liberi di invadere la vita altrui anche se non ne hanno una loro.

Videogiocare consente di spalancare porte su mondi alternativi in cui foggiare il proprio alter ego, così da poter vivere un’esistenza difforme dalla reale. Il gamer fugge, scappa, intende evitare lo scontro con il banale quotidiano?

No, anzi, spesso lo replica. Prendiamo un gioco simulativo come The Sims, conosciuto da tutti, anche dai non videogiocatori. In quel caso è proprio la routine umana delle nostre vite a essere replicata. In genere avere un alter ego in un videogame di ruolo invece, è un po’ come prendere le parti dell’eroe di turno nel nostro libro fantasy preferito o nella serie tv. E’ un modo di confrontarsi più visivo e immersivo che altre forme, questo sì. Poi è chiaro che dipende dai gusti. Giocare a un prodotto sci-fi diviene spesso forzatamente disancorato dalla realtà, ma è come vedere Inception al cinema, difficilmente si dirà che chi ha visto un film intenda evitare lo scontro col quotidiano.PORT THIS AD

Sulla scorta di fenomeni sociali innescati dai videogiochi, reputa che un gamer compia scelte etiche?

Spesso sì, per la qualità che hanno raggiunto i videogame oggi. Prendiamo un The Last of Us 2, di questi giorni, davanti al quale anche i sociologi sono rimasti senza parole. Spesso i protagonisti da noi guidati devono scegliere come comportarsi, prendere decisioni che molte volte implicano scelte morali complicate. Aiutare o tradire, vivere o morire, mantenere un atteggiamento invece di un altro, stare al gioco o esporsi alla verità, sposarsi o rimanere single. Purtroppo, spesso chi è estraneo al mondo videoludico tende erroneamente a identificare i videogiochi con un prodotto solo ed esclusivamente alla Super Mario (che rimane comunque un capolavoro) o Bubble Bobble. A queste persone dico “Ci sono stati quarant’anni suonati di innovazioni tecnologiche nei videogame. Provatene magari qualcuna, prima di giudicare”

Per chi non è hardcore nerd inside può esemplificare tendenze, mode, passioni e rivoluzioni tecnologiche veicolate dai videogiochi?

L’evoluzione tecnologica è evidente. Siamo passati dall’Intellivision e da Pong fino alla prossima PlayStation 5 o al PC con le schede video in SLI e a giochi come The Witcher 3 o il succitato The Last of Us. Le mode e le tendenze che hanno attraversato la storia del genere sono state molteplici passando per i cabinati arcade che in Giappone facevano file lunghissime fuori dalle sale giochi, alla Nintendo che ha creato un genere, fino a prodotti che hanno influenzati molte altre industrie, specialmente quella cinematografica, basti ricordare le infinite citazioni di Space Invaders presenti nei film hollywoodiani e non solo, a Ready Player One (che poi è tratto da un libro), fino alla serie TV acclamatissima come Stranger Things, dove in pieni anni ’80 i protagonisti giocano agli arcade dei cabinati che dicevamo prima. E poi vestiti, gadget, cosplayer, riviste, letteratura. Difficile trovare un settore dell’arte che non abbia avuto contatti con i videogiochi dagli anni ’70 a oggi.

 

Massimo Villa lavora per un’importante catena libraria italiana come responsabile eventi. Dagli anni’90 scrive di videogame su riviste e siti del settore. Ha pubblicato diverse opere di fantascienza, tra romanzi e racconti, nonché un paio di raccolte di poesie. Tra i vari scritti ricordiamo “Il rock uccide la vostra anima” (Mondadori) e Frigo Leader (Erga).

 

Giuseppina Capone

Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina

Con Alessandro Aresu parliamo di politica ed economia.

l capitalismo politico rappresenta la chiave di lettura principale da lei proposta per accedere al presente. Può definire siffatta categoria?

Il capitalismo politico è l’accoppiamento tra economia e politica all’interno delle potenze, attraverso diversi strumenti. Questi strumenti sono l’uso politico del commercio, della finanza e della tecnologia, la partecipazione statale nelle imprese e più in generale i rapporti tra apparati burocratici e aziende, le sanzioni, le barriere agli investimenti esteri.

Nel mio lavoro, sostengo che questo sistema governi il mondo, perché praticato da Stati Uniti e Cina, seppur in varietà diverse.

Lei descrive minuziosamente l’antagonismo tra diritto ed economia in atto fra Stati Uniti e Cina. Quali sono i termini filosofici di questo scontro?

Le due potenze vedono diversamente il mondo, si pensano diversamente rispetto al mondo, nelle alleanze, nell’influenza internazionale, nell’idea di conquista, nel rapporto tra l’individuo e la comunità. La comune adesione a un sistema capitalistico non cambia queste differenze molto profonde, che pertanto è importante studiare. Ed è sempre cruciale il ruolo dei “traduttori” tra le culture, anche durante i conflitti.

Pechino e Washington vivono un infiammato conflitto di geodiritto: quanto sanzioni, istituzioni internazionali, blocchi agli investimenti esteri influiscono su una guerra ormai tecnologica e giuridica?

Influiscono molto e l’influenza avviene a più livelli. Anzitutto perché le sanzioni degli Stati Uniti non riguardano solo loro stessi, per via della centralità globale di Washington, in particolare nel sistema finanziario. Come cerco di mostrare nel libro, per esempio, l’esclusione di alcune aziende cinesi da parte degli Stati Uniti in alcuni mercati – pensiamo oggi alla discussione sulle telecomunicazioni, un tema presente sulla scena da più tempo riguarda lo spazio, per esempio i satelliti – non coinvolge solo gli Stati Uniti, ma anche gli altri Paesi che hanno rapporti con quelle aziende. Diventa quindi una questione globale.

Nelle grandi operazioni di fusioni internazionali, possono intervenire inoltre le decisioni delle autorità competenti dei vari Paesi. Non solo e non tanto il merito delle loro decisioni, ma anche le loro tempistiche possono essere influenzate da considerazioni geopolitiche. Anche questo rientra nei casi del geodiritto.

L’economia politica al suo primo vagito è stata delineata nei suoi confini da un’affermazione di Adam Smith: “La difesa è molto più importante della ricchezza”. Anche oggi il mercato ha il suo unico limite nella sicurezza nazionale?

Il limite che la sicurezza nazionale impone al mercato è importante perché il concetto di sicurezza nazionale è centrale per la comprensione e per l’articolazione della sovranità. Leggere le trasformazioni della sicurezza nazionale, a mio avviso, è più utile di parlare semplicemente del ruolo dello Stato nell’economia. La sicurezza nazionale ha un forte rilievo per mettere in luce il rapporto tra sicurezza e tecnologia, che orienta e limita il mercato.

La sua ricerca segue tre filoni: la storia dello Stato moderno e dei suoi apparati burocratici; gli ordinamenti giuridici con cui i mercati interagiscono; la storia dello spazio in cui, in passato, è germogliato il capitalismo. Tali direttrici possono convergere?

Sì, è importante evidenziare i rapporti tra queste direttrici e tra questi aspetti, per esempio nella storia e nella continuità dei vari apparati burocratici e nella considerazione storica della progressiva marginalizzazione dello spazio europeo. Chiaramente la ricostruzione che propongo sugli Stati Uniti e la Cina potrebbe essere ampliata anche facendo riferimento ad altre realtà, come per esempio il Giappone, la Russia, la Turchia, e approfondendo meglio i rapporti tra i Paesi europei.

 

Alessandro Aresu è consigliere scientifico di Limes, direttore scientifico della Scuola di Politiche e consigliere del Ministro per il Sud e la Coesione Territoriale. Si è laureato in filosofia del diritto con Guido Rossi all’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano, dove è stato anche allievo di Enzo Bianchi e Massimo Cacciari. È stato consulente e consigliere di diverse Istituzioni, tra cui la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, l’Agenzia Spaziale Italiana. Collabora, tra gli altri, con Treccani e L’Espresso. Tra le sue ultime pubblicazioni, L’interesse nazionale. La bussola dell’Italia (con Luca Gori, il Mulino, 2018).

 

Giuseppina Capone

I cannibali di Mao. La nuova Cina alla conquista del mondo

Marco Lupis Macedonio Palermo, giornalista e scrittore, è autore de I cannibali di Mao.

Quali sono le ragioni per le quali la Cina, fino al recente passato produttore di mercanzia a basso costo, oggi padroneggia il mercato high-tech mondiale? Quali sono le sue radici?

Come spiego in un capitolo del mio libro, tutto è iniziato un giorno di dicembre del 2001, quando la Cina entrò nel WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, il “Tempio del commercio internazionale”. Quella, più di altre, è la data fatidica per la nascita della nuova Cina, la Cina che oggi tutti siamo stati costretti ad imparare a conoscere. Non a caso l’ingresso della Cina avvenne dopo quasi 15 anni di estenuanti trattative. Essere ammessi nel “salotto buono” del commercio globale, infatti, non era – e non sarebbe neanche oggi – affare da poco. I governanti cinesi di allora lo sapevamo bene e per questo diedero alla cosa una rilevanza mediatica straordinaria. A quel tempo, in Cina, c’erano “solo” 400 milioni di televisori (oggi è difficile trovare qualcuno, sul quasi miliardo e mezzo di cinesi, che non ne abbia uno in casa, e, spesso, più d’uno) ed erano tutti sintonizzati sulla cerimonia che si svolgeva a Doha, per seguire minuto per minuto, l’ingresso dei cinesi nella grande famiglia del commercio mondiale. Da quel momento la potenza economica cinese iniziò a trasformarsi, da produttore di robaccia cheap – appunto – fino a diventare leader in tutti i settori della produzione hi-tech. Non a caso, dopo soltanto un anno, nel 2002 la Cina ci “sorpassò”: il suo PIL sorpassò il nostro, quello dell’Italia. E a pensarci oggi, se guardiamo al colosso odierno, ci pare persino incredibile che, soltanto una quindicina di anni fa, l’Italia facesse più PIL della Cina!

Il cannibalismo economico a cui si riferisce il titolo del libro potrebbe stimolare un’altrettanta vorace crescita economica europea in chiave democratica?

Purtroppo la mia risposta è no. Valori come la democrazia, il rispetto dei diritti dell’individuo – umani, civili e giuridici – sono un portato che si è innestato ormai in modo inseparabile nella nostra civiltà occidentale, ma lo stesso non è accaduto per quella cinese. La Cina è una grande, magnifica e millenaria civiltà, che però si è evoluta – appunto – per migliaia di anni su binari totalmente differenti dai nostri. Binari che non si sono mai intersecati per lunghissimo tempo. E ancora oggi, le nostre civiltà vivono basandosi su valori differenti. In Cina conta di più la massa, il gruppo, la comunità – che poi si esprime nella patria e nella nazione – rispetto all’individuo. Per i cinesi, il più grande “peccato” di noi occidentali è il nostro individualismo. Ma del resto, la nostra civiltà, da migliaia di anni, è basata proprio sul primato del singolo, dell’individuo. Il mito dell’eroe solitario che sconfigge ogni avversità, da Ulisse in poi. Credo che ci vorrà ancora molto, molto tempo prima che i cinesi si facciano ammaliare dal fascino della democrazia. Se mai accadrà, poi…

In qual maniera dialogano l’individualismo del milionario cinese con la comunità comunista cinese?

Proprio qui sta una delle difficoltà nel capire la Cina e i cinesi e la loro peculiarità. Non c’è individualismo nella ricchezza del miliardario cinese. Secondo la visione che io chiamo “neo-comunista” o del “Comunismo 2.0” dei governanti cinesi, tutto è funzionale alla vittoria del Partito e alla conquista del benessere, della nuova prosperità, della Cina. Il miliardario svolge il suo ruolo, è capace di accumulare denaro e glielo si lascia fare, perché crea lavoro, industria, economia e alla fine benessere diffuso. Ma anche lui sa di essere solo una piccola pedina nella mani dell’onnipotente PCC, il Partito Comunista cinese che governa con mano di ferro a Pechino. Ogni miliardario cinese sa bene che tutte le sue fortune, i suoi miliardi di dollari americani, sono appesi a un filo. Quel filo che i vertici del PCC manovrano a loro piacimento. E possono decidere di spezzare in ogni momento. Allora la sua caduta sarà tremenda: dalle più alte stelle, fino a ritrovarsi in ginocchio sul patibolo, in attesa di un colpo di pistola alla nuca… E’ già successo tante volte, di aver visto miliardari finiti in disgrazia, contro i quali sono state mosse accuse di corruzione (vere o fabbricate che fossero…) fare una triste fine. Perché, se si viene riconosciuti colpevoli di corruzione, in Cina, la punizione prevista è la pena capitale.

Quale differenza ravvede tra la concezione del denaro cinese e quella di Wall Street dal punto di vista anche etico?

Una radicale differenza. A noi hanno insegnato per duemila anni che “il ricco non andrà nel Regno dei Cieli”. Ai cinesi hanno sempre detto, invece, che “arricchirsi è glorioso”. In Cina, quando si fa un regalo, è considerata cattiva educazione togliere il cartellino del prezzo….

Lei ha asserito in merito all’area d’interesse dei suoi studi: “Una vera storia d’amore, vissuta non con un’altra persona, ma con un continente, l’Asia, e con un popolo in particolare: i cinesi.” Può indicare le opportunità ed i pericoli rappresentati dalla Cina contemporanea?

Vivere e lavorare – e scrivere – in Cina e della Cina, come ho fatto io per quasi 25 anni, è una cosa che può essere difficile e snervante. A volte la Cina sembra un pianeta alieno, una sorta di pianeta Marte dominato dal Dio denaro. Ma quando poi si riesce ad entrare nel cuore della loro civiltà, a capirla, allora la soddisfazione è immensa. E inizia una storia d’amore, che non ha più fine. I francesi lo chiamano ”Le mal jaune”, Il mal giallo, parafrasando il famoso “mal d’Africa”.

 

Marco Lupis Macedonio Palermo di Santa Margherita (Roma, 1960), é un giornalista e scrittore italiano. Ha lavorato come corrispondente dall’Estremo Oriente con base ad Hong Kong per diverse testate italiane. Nel corso di un’attività più che ventennale, negli oltre 700 tra suoi reportage e articoli, ha descritto i mutamenti dello società di Fine Novecento, con particolare riferimento allo scacchiere asiatico e all’America latina. Dopo il successo de “Il Male Inutile”, Marco Lupis torna in libreria con un nuovo saggio dal Titolo “I Cannibali di Mao”, in cui spiega l’origine e le radici del nuovo potere globale cinese.

 

Giuseppina Capone

 

Il 24 agosto parte il progetto “Marinella e gli Aquiloni 2020”

Inizierà lunedì 24 agosto presso la sede dell’Associazione “Obiettivo Napoli” onlus, a Napoli in via Cosenz n. 55, l’edizione 2020 del progetto “Marinella e gli Aquiloni”, ispirato dai temi della “giustizia di comunità” che vede impegnati il Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità – Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna (UIEPE) per la Campania, Enti Pubblici, Enti Morali, Enti del Terzo Settore, Scuole, Municipalità 2 del Comune di Napoli e la Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni di Volontariato della Municipalità 2, che insieme collaborano in modo informale come “Rete di Marinella”.

Un progetto che, ispirato da una comune idea di reinserimento in un’ottica riparativa, proponendosi la riqualificazione di luoghi della comunità, intende favorire, con acquisizione di competenze o rafforzamento di quelle possedute da ciascuno, il reinserimento lavorativo e in generale la risocializzazione dei soggetti in esecuzione penale esterna e promuovere l’attivazione di opportunità rieducative e risocializzanti attraverso la realizzazione di concrete pratiche di comunità.

Un’esperienza di grande valore formativo quella che è stata vissuta dagli affidati durante la prima edizione del progetto nel 2019 che quest’anno vedrà il coinvolgimento di 12 persone in esecuzione penale esterna in un percorso di formazione tradizionale e on the job che durerà fino al mese di novembre sia in aula sia in cantieri esterni nella zona Mercato – Pendino grazie all’adesione anche per l’edizione 2020 della Municipalità 2 al progetto.

“Marinella e gli Aquiloni” è un’idea progettuale promossa dall’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna della Campania nell’ambito del progetto formativo “La comunità da fare” proposto dalla scuola superiore di esecuzione penale “Piersanti Mattarella” nel 2018.

L’edizione 2020 si svolgerà con particolare attenzione ai protocolli di sicurezza previsti per la pandemia da Covid-19.

“Siamo una rete informale composta da amministratori del territorio, educatori, insegnanti, assistenti sociali, mediatori culturali e linguistici, psicologi, sacerdoti, associazioni, enti, Istituzioni – evidenziano gli organizzatori -.  Tutti noi abbiamo un comune vivo interesse perché il territorio in cui viviamo o viviamo lavorando sia un ambiente positivo, accogliente, nutriente. Un territorio sul quale ci siamo a lungo confrontati nel corso della precedente edizione, facendo tesoro di quanto già costruito e apportando al ragionamento la sua specifica valenza, la sua prospettiva, il suo sguardo. L’esperienza che abbiamo vissuto nel 2019 ci ha resi consapevoli di essere fortemente radicati ad un territorio che ha trascorsi storici, artistici ed economici di gran rilievo e della valenza della scelta per lo sviluppo delle persone che partecipano al progetto”.

La zona di riferimento delle attività teorico – pratiche è quella di Mercato-Pendino che insiste sul territorio della Municipalità 2, ricca di scambi economici, facilitati dalla rete delle comunicazioni e che gode della presenza del mare e su cui insistono le attenzioni di molteplici Istituzioni (Min.Interno, Economia, Istruzione, Salute, Giustizia), ecc.

Zona dalla grande tradizione storico-culturale, densamente popolata, nel corso del tempo, purtroppo, è andata soggetta a progressivo degrado ambientale e sociale, aggravato dalla situazione generatasi dall’emergenza Covid-19, evidenziato a più voci dai cittadini che, però, non sono riusciti ancora a diventare “attori di cambiamento”.

Il progetto si avvale della Rete di istituzioni, scuole, enti ed associazioni che hanno siglato protocolli di collaborazione o che comunque collaborano all’iniziativa: Associazione Obiettivo Napoli onlus, Associazione Volontariato Carcerario Liberi di Volare onlus, Associazione Cidis onlus, Associazione Gioventù Cattolica “Asso.Gio.Ca”, Associazione “Le Viole di Partenope”, Associazione Donne Architetto – Napoli, Associazione di Promozione Sociale “La Livella”, Associazione Centro Antiviolenza “Teresa Buonocore”, Associazione “NomoƩ Movimento Forense, Associazione Culturale “Napoli è”, Associazione “Psicologi in contatto” onlus, Associazione “Padre Elia Alleva O. Carm.” onlus, Associazione “Figli di Barabba, Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Associazione “Goccia di Rugiada”, Associazione “Arcipicchia”, Associazione “Voce di Vento, Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna (UIEPE) per la Campania, Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (PRAP) della Campania, Municipalità 2 del Comune di Napoli; Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni di Volontariato della Municipalità 2, Garante dei detenuti della Regione Campania, Garante dei detenuti del Comune di Napoli, CPIA di Napoli, Istituto Comprensivo Borsellino, Centro Servizi Volontariato (CSV), Suore del Complesso della Chiesa di Sant’Eligio Maggiore.

Un progetto al tempo stesso ambizioso e entusiasmante che mira a “contrastare lo scollegamento degli enti e delle associazioni che operano sul territorio promuovendo la reciproca conoscenza (una mappatura attiva) e l’interazione su comuni interessi (l’ambiente, il lavoro ecc.), che possa favorire una fitta rete di interconnessioni, positive e nutrienti, che possa sviluppare azioni positive a favore dei cittadini integrando i cittadini stessi anche avvalendosi di quelle persone in “area penale” che possono dare un forte senso di riscatto e di risarcimento al loro operato”.

“Una rete informale, la “Rete di Marinella”, che riunisce enti pubblici, enti morali, scuole e organismi del terzo settore che dallo scorso anno vede volare in alto i suoi aquiloni e che deve avere una sua dimensione “fisica” nel territorio, un suo luogo di cittadinanza attiva, un “luogo di comunità” dove il cittadino può essere orientato nella risoluzione delle proprie diverse istanze, ma anche dove può incontrarsi e confrontarsi, un “punto di comunità” – concludono i partecipanti al progetto.

Yves Saint Laurent: lo sguardo verso il futuro

“Yves Saint Laurent è giovane, ma ha un immenso talento. Penso sia venuto il momento di rivelarlo alla stampa. Il mio prestigio non ne soffrirà affatto”. Diceva Dior terminata la sua ultima sfilata.

Yves Saint Laurent è stato il successore di Christian Dior. Il 30 gennaio 1958, tre mesi dopo la morte di Dior, Yves ricominciò, a soli ventuno anni, carico di speranze pure avendo timore di non riuscire a mantenere lo splendore e la fama del salone di moda più famoso del secondo, ma riuscì a riscuotere ancora più ammirazione di Dior, non soltanto per la sua linea trapezoidale ma soprattutto per essere riuscito a portare leggerezza giovanile alla opulente raffinatezza della tecnica del taglio del re della moda. Ancora, per essere stato un innovatore dell’immagine femminile, grazie alla sua sensibilità spiccata che gli permetteva di guardare al passato e proiettarsi verso il futuro, creando così abiti innovativi per una donna moderna. La stampa parigina dichiarò entusiasta: “la grande tradizione di Dior continua”. Saint Laurent è tuttora considerato uno degli stilisti più stimati al mondo.

Dior avrebbe voluto portare avanti le tradizioni illustri di epoche passate nell’alta moda, creando abiti molto eleganti e raffinati per  una dama di quell’epoca, che aveva spalle arrotondate, gonna lunga e vita a vespa sostenuta da un leggero bustino. Allo stesso tempo, però, sarebbe stato un abbigliamento poco pratico per la donna moderna che Saint Laurent voleva, perché la sua intenzione era quella di metterla al centro di quegli anni ’60, anarchici e turbolenti. “Abbasso il Rizzo, viva la strada” questo era il suo motto. Così, grazie a lui, le donne si distaccarono dalla classica figura femminile di quegli anni il cui fascino consisteva in un’eleganza imposta.

La vita privata

Nacque il 1° agosto 1936 a Orano (Algeria francese). Amava, sin da piccolo, creare bambole di carta, e, infatti, ben presto, iniziò a disegnare abiti per le sue sorelle e per sua madre. Si trasferì a Parigi all’età di diciotto anni dove i suoi figurini di moda ebbero molto successo nella Chambre Syndicale de la haute couture (camera sindacale dell’alta moda).

L’editore di French Vogue presentò il giovane stilista a Christian Dior e, grazie a lui, il talento di Yves crebbe notevolmente. Dior e Saint Laurent erano accomunati da una certa affinità spirituale e venivano entrambi da famiglie borghesi. Tendevano all’intellettualismo, avevano una profonda conoscenza dell’arte. Entrambi, molto giovani, avevano mostrato un talento straordinario per la moda.

La più grande fobia per Yves Saint Laurent era quella per i volatili. Quando presentava una nuova collezione portava con sé un talismano, una corona del rosario e un piccolo peluche a forma di Bugs Bunny.

Entrambi, i due talentuosi stilisti di moda, erano omosessuali ma Yves fu fortunato in amore  a differenza di Dior. Successivamente Saint Laurent, in numerose interviste, parlava apertamente della sua dipendenza all’alcool e dagli stupefacenti. Fu ricoverato per la prima volta all’ospedale americano di Parigi per una cura per la disintossicazione.

Verso il successo

Pochi giorni dopo il trionfo della sua linea trapezoidale, conobbe Pierre Bergè, un uomo abile negli affari. Da lì a poco aprirono un atelier che superò ampiamente il successo della casa di Dior. Nel gennaio 1962 ci fu l’inaugurazione e la folla lo accolse piangendo per l’emozione.

“Ho coscienza di aver fatto progredire la moda del mio tempo e di aver permesso alle donne di entrare in un universo a loro vietato”. Affermava il creatore di moda.

E pare che, con la creazione della linea trapezoidale, abbia ottenuto ciò che desiderava: una visone della donna emancipata, nuova e libera. Alla pari di Chanel, Saint Laurent ha così creato uno stile unico, diventando il simbolo dell’eleganza raffinata e innovativa: il blazer, lo smoking, il trench, il giubbotto di pelle, il tailleur-pantalone hanno cambiato la visione della donna. Era riuscito ad estendere i confini della moda negli Anni ‘60 introducendo nuovi elementi senza i quali ormai la moda femminile sarebbe stata inconcepibile.

Anche “La sahariana”, capo cult dello stilista francese, è stato uno dei capi considerati il simbolo di innovazione per la donna in quegli anni: giacca di origine militare contraddistinta da comode tasche a soffietto. È stato il capo singolo della collezione ”Safari” presentata da Saint Laurent nel 1968. Una vera e propria rivoluzione nel mondo della moda femminile, ancora oggi considerata una delle realizzazioni che ha fatto la storia della moda.

Il grande creatore Saint Laurent morì a Parigi il 1° giugno del 2008 all’età di settantuno anni.

“Coco Chanel e Christian Dior sono dei giganti. Yves Saint Laurent è un genio!” Diana Vreeland, indimenticabile direttrice di Vogue America, aveva fatto questo pronostico.

Alessandra Federico

Psicologia della moda: l’abito che indossi racconta di te

La psicologia della moda collega corpo e psiche. Perché nella moda c’è dell’altro nel profondo, qualcosa che va oltre la superficie: il tuo vissuto racconta chi sei attraverso il tuo look.

Il tuo stile esprime la tua personalità, le tue ispirazioni, i tuoi sogni.  L’abito che indossi racconta di te non solo in base alla scelta del modello e del colore, ma anche dal make-up o dagli accessori che indossi. È necessario sentirsi bene nella propria “pelle”, è dunque fondamentale indossare abiti che facciano sentire a proprio agio. Secondo ogni situazione che si vive, si tende a sviluppare una parte diversa di sé: nei differenti ruoli sociali che ricopriamo e nelle relazioni interpersonali. Per questo motivo (inconscio) acquisiamo uno stile differente non solo per ogni occasione, ma un look che riesca a esprimere chiaramente ciò che abbiamo vissuto. L’abbigliamento può davvero essere una valvola di sfogo per tirar fuori tutto ciò che si ha dentro, per nascondere degli aspetti e per comunicarne altri.

“La moda passa, lo stile resta”

 Le parole di Coco Chanel ci insegnano che la moda non è solo nuove tendenze da seguire, ma riuscire a trarre da quest’ultime uno stile individuale.  D’altro canto, acquisire un look personale vuol dire avere una profonda conoscenza di sé, ed è interessante e affascinante scoprirne il significato. Partiamo dalle radici: rapporti sociali e modelli familiari sono esempi che sin da bambini abbiamo avanti ai nostri occhi, possono quindi aiutare a formare la personalità poiché l’indole è influenzata dall’ambiente in cui cresciamo. Andare più a fondo attraverso un’intervista ci aiuterà a capire da cosa può dipendere la scelta di un determinato look.

Lucia, diciannove anni, napoletana, racconta il suo vissuto e il motivo per cui ha scelto un tipo di abbigliamento.

Lucia, quali colori di un abito preferisci indossare?

Amo il nero, rispecchia esattamente il mio animo. I colori chiari, invece, mi ricordano la donna che mi ha reso la vita difficile: mia madre aveva un look tutto suo, tipo stile gitano con foulard colorati e gonne lunghe. Andava sempre di fretta, per quel che mi ricordo di lei. Amo invece i colori scuri, quelli che mi fanno sentire a casa e protetta, quelli lunghi che mi coprono. Quando sono costretta a indossare un capo colorato mi sento a disagio. Odio apparire chi non sono.

Credi che il tuo look sia legato alle tue esperienze di vita?

Sì, ho un carattere forte, a volte anche troppo perché sono rigida, ma sono anche molto paziente. Sono cresciuta in una famiglia un po’ particolare: padre, due fratelli e una madre molto presa dalla sua carriera lavorativa. Sin da bambina vedevo mia madre la domenica a pranzo perché quando tornava in settimana la sera da lavoro io già dormivo. Quando avevo poco più di dodici anni decise di andare fuori Italia con il suo collega. Non l’ho mai più vista. Ed è per questo che il rancore lo manifesto tuttora nel mio look scuro e coprente.

Le persone che frequenti hanno un look diverso dal tuo?
Il look dei miei amici è come il mio. Non mi piace frequentare persone che indossano abiti colorati perché questo disturba il mio modo di essere, anche se non giudico nessuno perché ognuno è libero di avere il look che più gli si addice, a parere mio. Poi la paura di essere giudicati non c’è se mi circondo di persone simili a me.

Credi che un abito possa colmare le mancanze d’affetto?
Penso che colmare mancanze con cose materiali non farà altro che farci sentire più soli, perché l’affetto mancato possiamo trovarlo solo dentro di noi, amandoci di più. Io darò ai miei figli tutto l’affetto che non ho ricevuto e sono sicura che sarò una madre migliore di quanto lo sia stata la mia, se tale si può definire. La mancanza di mia madre cerco di colmarla indossando qualche suo capo, me la fa sentire in qualche modo più vicina. Anche se dovrei eliminare ogni cosa che mi ricorda lei. Per quanto male mi ha fatto, resta pur sempre mia madre.

Le parole di Lucia sono un esempio lampante di quanto il nostro look riesca a dare vita a tutto ciò che abbiamo dentro.

Alessandra Federico

Tossicodipendenza: Cocaina, Shaboo e sindrome di astinenza neonatale

 “Poteva dirmelo chiunque che la droga distrugge e che mi stavo rovinando la vita, ma non potevo farne a meno perché era l’unico modo che avevo per sopravvivere, paradossalmente. Io stavo bene solo quando ne assumevo una grande dose, mi sentivo invincibile. La Cocaina e la Shaboo mi davano una carica fortissima per affrontare la vita“

Ogni tipo di droga è nociva per il proprio organismo, ma ce ne sono alcune in grado di far diventare una persona davvero irriconoscibile: la Shaboo.

La Shaboo è una droga sintetica il cui utilizzo costante può portare a gravi conseguenze psichiche: perdita di sonno, perdita di capelli e denti, perdita di appetito, e in alcuni casi potrebbe causare la deformazione del viso, o peggio ancora potrebbe portare alla morte. Mentre gli effetti psichici della cocaina sul sistema nervoso centrale possono variare di gravità a seconda della dose assunta e della frequenza d’uso: euforia, anoressia ed insonnia; disforia, caratterizzato da tristezza, malinconia, apatia, difficoltà di attenzione e di concentrazione; paranoia, allucinazioni; psicosi, comportamento stereotipato, perdita di controllo degli impulsi, disorientamento.

Ma quali sono i motivi per cui una persona arriva ad assumere sostanze mortali?

Le difficoltà della vita sono infinite e a volte possono dimostrarsi insormontabili. Potrebbe sembrare più facile, quindi, affrontare i problemi reali rifugiandosi in altro. Scappare dalla realtà o, semplicemente, fingere di far fronte alle difficoltà in modo inconsapevole attraverso il consumo di sostanze tossiche. Esistono storie di vita davvero incredibili. Vicende, racconti di persone che, quando non lo si vive in prima persona o attraverso l’affetto di un caro, nemmeno si immagina potessero esistere realtà del genere. Un drogato viene considerato folle, squilibrato, da evitare, da abbandonare a se stesso, ma alle volte basterebbe capire che chi arriva a farsi del male al punto di rovinarsi la vita, forse è proprio colui che va compreso e aiutato più di chiunque altro al mondo. D’altronde, basterebbe solo ascoltare la loro storia per potersi immedesimare anche per un attimo nelle loro vite, per andare a fondo senza fermarsi alle apparenze.

Ma perché rovinarsi la vita così, invece di affrontare i problemi?

Questo è il quesito che ogni persona pone quando vede qualcuno assumere queste sostanze. È anche vero che tutti hanno una storia da raccontare, tutti hanno, chi più chi meno, affrontato delle difficoltà durante il percorso della propria vita, ma ciò che si vive e come lo si affronta è una questione prettamente personale, dipesa non solo dal proprio vissuto, dalle proprie esperienze, ma anche dal proprio carattere e dalla propria indole. Fare abuso di queste sostanze può portare ad avere poca lucidità mentale, non solo, si ci può facilmente ritrovare ad avere grandi difficoltà ad interromperne l’assunzione anche quando si è in dolce attesa. La maggior parte dei bambini che nascono da madri tossicodipendenti potrebbero avere la sindrome di astinenza neonatale.

La sindrome di astinenza neonatale è un insieme di sintomi che il neonato avverte dopo la nascita a causa dell’interruzione dell’assunzione di sostanze stupefacenti da parte della madre. Ogni sostanza, attraverso la placenta, passa dal torrente circolatorio materno al feto. I sintomi dell’astinenza da droga da parte del neonato, portano il suo sistema nervoso ad uno stato di ipereccitazione. I sintomi più gravi si manifestano durante l’assunzione di queste sostanze da parte della madre. I bambini nati da madri tossicodipendenti possono avere diverse problematiche:

contrarre infezioni HIV; ritardo di crescita intrauterina; convulsioni; malformazioni congenite; nascita pretermine; difficoltà nell’alimentazione;

alterazioni del sonno; respirazione accelerata; tremori e irritabilità.

Purtroppo, quando il corpo e il cervello sono oramai distrutti e manipolati da queste sostanze tossiche, non si ha la capacità di comprendere che non si sta mettendo a rischio solo la propria vita, ma anche quella degli altri, soprattutto per le donne che sono in dolce attesa poiché rischiano di mettere al mondo una persona infelice, viste le varie problematiche fisiche e psichiche che potrebbe avere il bambino. Inoltre, è chiaro che diventa facile assumere atteggiamenti violenti e aggressivi e perdere il controllo di sé. Non è semplice, per chi lo vive, venir fuori da questo inferno, soprattutto quando si è agli inizi del periodo di interruzione di assunzione di queste sostanze, perché lo stato di astinenza può essere vissuto davvero come un incubo. È difficile risalire dopo che si ha toccato il fondo ma quando si decide di essere aiutati si ha già fatto un passo verso la guarigione.

Claudio, quando hai iniziato ad assumere sostanze stupefacenti?

Quando si è molto giovani, e non solo, soprattutto quando si è da sempre poco seguiti dai propri genitori, si intraprendono facilmente strade sbagliate e pericolose. Avevo quindici anni, un po’ per gioco, un po’ per farmi accettare dai miei coetanei, iniziai a fare uso di cocaina, inizialmente. Fino ad assumere altre sostanze pensanti come la Shaboo. Mi sentivo un drago, ma ben presto smisi di studiare. Quando i miei genitori se ne sono accorti mi hanno portato prima in terapia da uno psicanalista e poi in comunità, dove ci sono restato per ben tre anni. Avevo smesso, avevo ritrovato la voglia di vivere essendo me stesso senza il bisogno di dover assumere alcun tipo di sostanza per affrontare le difficoltà della vita. Una volta tornato a casa, dopo tre lunghi anni trascorsi in comunità, non passò molto tempo prima che tornassi di nuovo a fare uso di cocaina e di Shaboo. La mia situazione familiare diventava sempre meno sopportabile perché i miei litigavano in continuazione, hanno da sempre discusso per quel che ricordi e di conseguenza, a me e ai miei fratelli, ci hanno sempre dato poche attenzioni. Per qualche mese ripresi ad andare a scuola, evitavo le compagnie sbagliate e tutto sembrava andare nel verso giusto. I miei genitori decisero finalmente di separarsi e da li a poco mia madre decise di distruggere ulteriormente il nostro nucleo familiare invitando a vivere con noi il suo nuovo fidanzato. Giorgio è un uomo distinto, una persona per bene e da stimare, ma io mi sentivo ancora una volta, e ancora più di prima, messo da parte nella vita di mia madre. Partiva spesso con lui e mi lasciava solo con mia sorella di undici anni e mio fratello di 9. Uscivo da poco da una situazione difficile e per me reggere ancora quella stabilità da solo, mettermi sulla retta via e restarci, era troppo difficile. Avevo solo diciotto anni e avevo ancora, allora più che mai, bisogno di qualcuno che si prendesse cura di me. Anche di chi mi dicesse ogni giorno cosa dovevo o non dovevo fare, cosa era giusto che io facessi e come avrei potuto continuare a vivere senza drogarmi. Non ce la feci, ancora una volta caddi in tentazione. Mi sentivo solo e abbandonato e allora lasciai i miei fratelli a casa per incontrare le mie vecchie amicizie, quelle con cui facevo uso di cocaina. Ma io ne avevo bisogno. Sentivo la necessità di stare con chi come me aveva bisogno di compagnia, e la droga per noi era l’unico modo per scappare dalla realtà. Passò poco tempo, forse tre o quattro mesi, prima che il compagno di mia madre se ne accorgesse. Lei non se ne sarebbe mai accorta. Mi portarono di nuovo in comunità. Io non avevo bisogno di stare in quello stupido edificio a farmi inculcare nella mente che mi stavo distruggendo la vita, avevo solo bisogno della mia famiglia. Ero troppo e stupidamente orgoglioso per dirlo.

Sei riuscito a smettere quando sei tornato in comunità?

Avevo smesso. Ci ero riuscito. Ma non è passato molto tempo prima che io ne facessi ancora uso. Ancora, una terza volta. Allora mi ci hanno lasciato altri due lunghi anni in quella comunità. Smisi di studiare definitivamente. Sono praticamente cresciuto lì dentro con tante altre persone con il mio stesso problema. Ho conosciuto poi una ragazza che stava facendo il mio stesso percorso, lei aveva iniziato ad assumere la prima dose di anfetamina all’età di 13 anni. Gliel’avevano fatto provare le sue compagne di danza, quelle più grandi, naturalmente. Quelle con la quale si incrociava nello spogliatoio tre volte la settimana – mi raccontava – io e Giada ci siamo conosciuti in quel centro di recupero per tossicodipendenti e ora siamo felicemente sposati. Inizialmente eravamo felici e non sentivamo più il bisogno di assumere stupefacenti, poi abbiamo trascorso un periodo difficile,  non so cosa sia successo ma improvvisamente ci siamo ritrovati ancora una volta schiavi di quella roba. La cocaina ci faceva sentire insuperabili. Ne abbiamo fatto uso per parecchio tempo, poi Giada ha scoperto di aspettare nostro figlio. Il dottore diceva che se Giada non avesse smesso di assumere queste sostanze il bambino avrebbe potuto avere la sindrome di astinenza neonatale una volta venuto al mondo. In quel momento non sapevamo come comportarci anche perché entrambi non avevamo una famiglia accanto, allora ci siamo completamente affidati nelle mani del nostro dottore. Giada era già al quarto mese di gravidanza quando ha finalmente avuto la forza di chiudere con la cocaina ma era ormai troppo tardi. Daniel aveva già assunto troppe volte quella sostanza. Una volta nato nostro figlio, ha dovuto trascorrere diversi mesi in ospedale poiché esiste una cura specifica per questi neonati da intraprendere subito dopo la nascita. Il neonato viene posto in incubatrice, inizialmente, per il controllo della temperatura. Dopodiché, almeno per le prime sei ore di vita vanno controllati i parametri vitali. Poi, naturalmente, l’hanno seguito 24 su 24 in tutto e per tutto, stando attenti alla sua alimentazione. Ma per fortuna, per chi fa uso di sostanze come la cocaina o anfetamine, il bambino non deve essere sottoposto a nessuna terapia farmacologica. I medici hanno poi, prima delle dimissioni di Daniel, sottoposto me e Giada a varie test psicologici per assicurarsi che fossimo finalmente disintossicati e coscienti del fatto che dal quel momento in poi la nostra vita sarebbe cambiata totalmente e che avremmo avuto maggiori responsabilità. Io credo che Daniel sia stato un regalo dal cielo. Avevamo bisogno di dare e avere maggiore affetto, per tutto quello che i nostri genitori ci hanno fatto mancare. Nostro figlio è stato la nostra salvezza. Credo anche che l’amore di un genitore verso il proprio figlio vada oltre ogni cosa, prima di ogni cosa, soprattutto. Almeno questo è quanto sente il mio cuore. Per questo motivo per me il comportamento dei miei genitori è ingiustificabile. Oggi Daniel ha quasi 4 anni e non abbiamo mai smesso di andare in terapia dallo psicologo. Anche sotto consiglio del medico che ha salvato la vita di nostro figlio.

Quanto è stato difficile per te non assumere più alcuna sostanza da quando aspettavate Daniel ?

Inizialmente è stato un incubo. Volevo scappare, volevo la droga. Anche per Giada è stato così, ne avevamo bisogno altrimenti ci saremmo sentiti soffocare. Ogni volta che andavamo a dormire per noi si trasformava in una vera e propria tragedia: sudore, attacchi di panico, convulsioni. Ma l’amore verso Daniel ci ha fatto superare ogni cosa, perché al solo pensiero che avremmo potuto rovinare la vita nostro figlio, mi sentivo stringere la gola e sentivo un dolore al cuore. Ci siamo rovinati abbastanza e ora è il momento di affrontare la vita in un altro modo e poi nostro figlio ci dà la carica giusta. Ho capito che la vita, quando stai per crollare, ti da sempre un’altra opportunità per potercela fare, e, soprattutto, ti fa capire che c’è sempre un motivo per cui valga la pena essere vissuta. Vissuta a pieno, perché è imprevedibile perché quando meno te l’aspetti ci sarà qualcosa che te la rivoluzionerà completamente. Inevitabilmente, ci saranno ancora situazioni difficili da affrontare, ma ho capito che dopo si viene sempre ripagati con qualcosa di bello. Perché dopo la pioggia c’è sempre l’arcobaleno. Anche se alcune ferite me le porterò dietro per tutta la vita, ho capito che bisogna solo abituarsi a conviverci, vedere le cose da un altro punto di vista e prendere magari anche il buono da ciò che accade, cosi da attutire i colpi qualora dovesse accadere qualcosa che fa soffrire. La mia situazione familiare è un po’ cambiata da quando ho avuto Daniel, mia madre è innamorata di suo nipote e questo, forse, potrebbe anche celare ai miei occhi i suoi sbagli. Potrebbe far sbiadire pian piano i brutti ricordi che ho della sua assenza nella mia vita. Una delle cose di cui vado fiero di me è che ho imparato a perdonare. Sento che col tempo le cose andranno sempre meglio. Adesso sono felice, davvero. L’unica cosa che mi fa rende triste, è che nel quartiere in cui vivo sono considerato sempre un tossico. Purtroppo la cattiveria e l’ignoranza riempie la bocca degli stolti. Credo di andar via, di portare la mia famiglia lontano da questo posto in cui quando qualcuno ti vede a terra, fanno un ulteriore gesto per calpestarti definitivamente.

Dove vorresti portare la tua famiglia?

Ci sono delle storie davvero incredibili, che ti tolgono il fiato, che ti fanno rimanere li a pensare per ore e ore che tutto sommato la tua vita non è poi così tanto male se ogni volta riesci a trovare la via d’uscita e ci sono, inoltre, racconti di persone che possono essere grandi insegnamenti di vita, ed è questo che dovrebbero imparare certe persone, ma chi non l’ha vissuto, chi ha vissuto in ambienti sereni, non ha la minima idea di cosa possa passare certa gente e non prova nemmeno a comprendere. Allora io credo che le persone debbano smettere di parlare a vanvera, dovrebbero imparare a giudicare prima la loro vita e soprattutto iniziare ad avere un po’ più di sensibilità e mettersi nei panni degli altri.

Per questo motivo voglio andar via, non so se andremo al Nord Italia o all’estero. Magari in Olanda, o in qualsiasi altro posto dove la mentalità delle persone è aperta, e dove ognuno si fa i cavoli propri e dove ci daranno la possibilità di vivere sereni senza ripensare al passato. Il passato per me sarà solo da insegnamento per condurre una vita completamente diversa e per sapere con determinazione cosa voglio e non voglio, cosa è giusto o meno. Perché non è solo importante trovare chi ti aiuta, ma è ancora più importante – nonché fondamentale – trovare chi non ti giudica e non ti maltratta. Ho anche imparato che quando sei fragile è più facile farsi schiacciare dal prossimo, e che alcune persone sanno essere davvero perfide perché godono dell’infelicità altrui. Un consiglio che mi sento di dare a chi non riesce a smettere di assumere queste sostanze è quella di farsi aiutare, perché da soli non è facile uscirne. Quando chiediamo aiuto abbiamo già fatto un grande passo verso la guarigione. Invece, per chi come me è da poco uscito da questo incubo, il mio consiglio è quello di vivere la vita a pieno senza dare importanza al giudizio altrui. Perché a volte le parole crudeli delle persone, quando si è ancora fragili, possono ancora una volta riuscire a distruggerci. Non bisogna permetterlo, perché la vita potrebbe sempre stupirvi, perché potrebbe essere per voi, come lo è stato per me, una scoperta meravigliosa.

Alessandra Federico

 

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