Immigrazione e abbandono scolastico

Negli ultimi dieci anni la quota di immigrati regolari in Italia è passata dal 3,9 per cento (2006) al 7,6 (2016) (fonte ISTAT)e, pur essendo con numeri inferiori rispetto ai maggiori Paesi europei, si può comunque riconoscere come l’Italia sia meta dell’emigrazione internazionale e per il 90% degli immigrati proviene da Paesi in via di sviluppo e di questi, meno del dieci per cento ha un titolo di studio universitario. Questo ci porta facilmente a considerare che nel nostro Paese si ha un’immigrazione con competenze limitate e che contribuisce a generare il tradizionale modello economico che divide il lavoro in due tipologie e da cui consegue come  le retribuzioni del lavoro poco qualificato facciano aumentare quelle del lavoro qualificato. Da questo ne dovrebbe conseguire che gli Italiani dovrebbero investire di più in istruzione. Investendo in maggior istruzione, i giovani italiani potrebbero ambire alle mansioni che utilizzano in modo intensivo competenze comunicative e di astrazione, più qualificate e meglio retribuite. Questo in realtà non accade se si osservano i dati di abbandono scolastico (fonte MIUR) e gli effetti negativi si porteranno negli anni incidendo negativamente sul piano del tasso di integrazione sociale nel lungo periodo, se non si interviene con correttivi socio culturali ed economici.

In questo processo al ribasso, le richieste di retribuzioni delle mansioni con competenze intermedie tendono a diminuire, rinforzando l’dea fra molti giovani che non ci sia convenienza a conseguire un livello di istruzione intermedio. Fatto molto preoccupante, considerando che l’effetto dell’immigrazione sulle retribuzioni basse può ritenersi un fenomeno temporaneo, ma quello sull’istruzione bassa degli Italiani non può modificarsi facilmente per invertire la rotta nel breve tempo per indirizzarci verso il meglio del Paese.

Danilo Turco

Migranti e lavoro

Negli ultimi anni si sta riaccendendo il dibattito sugli effetti sul mercato del lavoro che i flussi migratori incontrollati producono. Dibattito che si svolge soprattutto in Italia. Gli studi sono diversi, alcuni evidenziano altri no, differenze significative tra immigrati e nativi e sulla effettiva “pericolosità” degli immigrati per l’occupazione dei cittadini residenti. A riguardo un caso particolarmente interessante preso in esame è rappresentato in Italia dagli immigrati albanesi che, per la loro marcata specializzazione settoriale (settori edile e manifatturiero), assorbono oltre il 46 per cento della manodopera (contro il 26 per cento degli Italiani). Inoltre, la comunità albanese, più giovane di quella italiana (età media di 36 anni, contro i 42 anni  dell’altra), ha anche un basso livello di istruzione, mentre quasi un quarto degli Italiani ha una formazione universitaria.

Le statistiche sembrano però mostrare che, anche a parità di caratteristiche come l’età o il settore, l’ultima crisi economica abbia colpito di più gli immigrati albanesi degli italiani. Ci si chiede allora: si tratta di “discriminazione etnica” per gli immigrati albanesi nel mercato del lavoro italiano? L’analisi dei risultati relativi nel mercato del lavoro (ISTAT) mostra che, rispetto ai nativi, gli immigrati albanesi registrano una probabilità di occupazione di quasi 5 punti percentuali più bassa rispetto agli italiani e il divario è significativamente aumentato negli anni dal 2012 al 2014. A riguardo si è osservato che l’aumento del differenziale nel tasso di occupazione tra Albanesi e Italiani negli anni della crisi dipende dalle differenze nelle caratteristiche socio-demografiche osservabili nei dati (genere, coorte, età, livello di istruzione e regione), che hanno reso gli Albanesi più vulnerabili alla crisi rispetto ai lavoratori italiani. In conclusione si può considerare che lo status di immigrato albanese in sé non è stato causa penalizzante per l’inserimento nel mercato del lavoro italiano negli anni della crisi, secondo una equa interpretazione di quanto sia stato riportato nell’ultimo Rapporto annuale sulla presenza dei migranti, del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, che nel 2015 evidenzia per gli Albanesi un tasso di occupazione del 51 per cento, un valore inferiore a quello rilevato per tutti i gruppi studiati nel rapporto, e un tasso di disoccupazione relativamente alto (22,7%).

Danilo Turco

Istruzione e disuguaglianze

Il rapporto della Commissione europea “Education and Training Monitor 2017” esamina la posizione dei diversi paesi membri rispetto agli obiettivi di Europa 2020 su istruzione e formazione (ET2020). Quest’anno l’attenzione si è focalizzata sulla diseguaglianza nell’istruzione.   Anche se molti Paesi europei fanno progressi su alcuni importanti indicatori come l’abbandono scolastico, la riduzione della diseguaglianza non sembra realizzarsi concretamente,  ma solo formalmente. Questo si riscontra osservando la quota di alunni che non raggiungono il livello di base nel test Pisa in lettura, matematica o scienze. Tale test è riconosciuto necessario per misurare un adeguato inserimento sociale e culturale delle giovani generazioni. I dati rilevano che la maggior parte degli Stati membri ha registrato tassi di successo più bassi nel 2015 rispetto al 2012. La media UE relativa alla percentuale di studenti con risultati bassi nella lettura è cresciuta dal 17,8 nel 2012 al 19,7 nel 2015, annullando i progressi realizzati dal 2009. Per quanto riguarda l’Italia, dopo i miglioramenti ottenuti tra il 2006 e il 2009, nel 2015 si ha un aumento rispetto al 2012 nella percentuale di studenti con punteggi scarsi in scienze e lettura. Tutto questo si concentra tra le famiglie con background socio-economico più svantaggiato: in media nella UE il 33,8 per cento di questi alunni si colloca nel quartile più basso dell’indicatore di status socio-economico e culturale (Escs), mentre solo il 7,6 per cento appartiene al quartile più alto, con uno spread di 26,2 punti percentuali e per l’Italia, è di circa 27 punti percentuali.

Le disuguaglianze di reddito e di benessere generano queste differenze e quindi si apre un’importante questione di giustizia sociale. Ancora oggi, nonostante la scuola di massa diffusa nei diversi Paesi europei e nel mondo occidentale, solo le famiglie benestanti fanno grandi sforzi per aiutare i propri figli a sviluppare abilità cognitive e non cognitive, scegliendo le scuole migliori, assistendoli nello svolgimento dei compiti, pagando lezioni di recupero o vacanze studio (shadow education). Tutto questo implica la necessità che vengano effettuati importanti investimenti in istruzione in favore dei bambini con differente background socio-economico familiare. Infatti, i suddetti sforzi, insieme alla rete di conoscenze familiari, consentono a chi ha un background più vantaggioso, a parità di capacità, di giungere anche da adulto posizioni migliori sul mercato del lavoro, rispetto a chi proviene da una condizione più povera. Ovunque i genitori fanno del proprio meglio per aiutare i figli, ma poiché non tutti hanno le stesse possibilità, le politiche pubbliche dovrebbero cercare di compensare i bambini con background peggiore. Oggi, molto resta ancora da fare per migliorare la qualità delle scuole nelle aree più svantaggiate, incentivando anche i docenti professionalmente migliori a prestare in queste scuole la loro attività, agendo in favore dei meno fortunati.

Danilo Turco

La tragedia dimenticata di Cap Arcona

Tra gli episodi più truci della Seconda Guerra Mondiale, quello della Cap Arcona è certamente uno dei più drammatici, nonché, forse, il meno conosciuto. Un disastro navale che ha fatto cinque volte più vittime del naufragio del Titanic, uno dei più incredibili casi di fuoco amico della storia. Il nome Cap Arcona è legato a molti, tristissimi record, ma è ancora una delle tragedie meno conosciute della storia del Novecento; si tratta di una vicenda controversa, per molti aspetti ancora oscura e destinata a lungo a rimanere tale, perché imbarazzante per tutte le parti in gioco.

Cap Arcona era una nave di lusso, disegnata per attraversare gli oceani, costruita nei cantieri di Amburgo alla fine degli anni Venti con le tecnologie ingegneristiche più moderne del tempo. Ma la sua storia inizia sulla terraferma, in mezzo alle baracche e alle fabbriche di mattoni di Neuengamme, il più grande lager della Germania settentrionale. Secondo recenti stime passarono dentro i suoi reticolati oltre 100mila persone: prigionieri politici ebrei, cristiani e comunisti, artisti e intellettuali, “devianti” di ogni tipo, secondo le classificazioni della folle ideologia nazista, provenienti dalla Germania, dal Belgio, dalla Francia, dalla Polonia.

Morirono in 60mila, decimati da lavori forzati, epidemie di tifo, esecuzioni arbitrarie, esperimenti medici a base di batteri della tubercolosi. Per molti sopravvissuti al lager, però, la fine fu solo rimandata.

Poco prima della fine della guerra, il 3 maggio 1945, più di 7mila deportati morirono sotto il tiro incrociato della Royal Air Force e delle truppe tedesche, nell’affondamento del piroscafo Cap Arcona e delle altre navi-prigione ormeggiate al largo della baia di Lubecca dove si trovavano rinchiusi. Il giorno successivo, il 4 maggio 1945, le truppe inglesi entrarono nel campo di concentramento di Neuengamme, trovandolo completamente vuoto.

Cosa era successo nel frattempo? A bordo di quella che fu costruita per essere la perla della flotta tedesca, c’erano migliaia di prigionieri sfollati da Neuengamme, stipati sulla nave senza cibo né acqua. Probabilmente l’intenzione era quella di affondare la Cap Arcona e altre due navi  portate appositamente nella baia di Lubecca in modo da eliminare le tracce dei crimini commessi nei campi di concentramento. Durante l’imbarco gli uomini delle SS chiusero tutte le possibili vie di fuga e bloccarono le scialuppe di salvataggio. Un particolare che viene interpretato dagli storici come l’indizio dell’intenzione di affondare la nave tramite un’esplosione. Furono bloccate le paratie antincendio e la nave venne provvista di una quantità moderata di carburante, il minimo necessario per il suo ultimo viaggio. Migliaia di deportati morirono nel rogo del piroscafo o annegati nelle acque del Baltico; tra chi riuscì a raggiungere la terraferma, molti furono raggiunti e uccisi dalle truppe tedesche.

La Croce rossa svizzera informò le truppe di terra alleate dell’esistenza delle navi e del tipo di carico da esse trasportato, ma l’informazione non arrivò ai piloti della Royal Air Force che, durante i voli di ricognizione, non riconobbero nei passeggeri dei prigionieri.

L’intera triste vicenda della Cap Arcona è stata di recente ricostruita in un bel libro, ricco di testimonianze e documenti autentici dell’epoca, a cura degli storici Pierre Vallaud e Mathilde Aycard: Le dernier camp de la mort. La tragédie du Cap Arcona.

Una pietra, almeno, a futura memoria.

Rossella Marchese

Moby Prince: l’intera ricostruzione nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta

La sera del 10 aprile 1991, nel porto di Livorno, mentre si consumava una strage a bordo del traghetto Moby Prince, non c’era nebbia. Questa è l’ultima dichiarazione rilasciata da Guido Frilli davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta, istituita nel 2015 proprio per fare luce sull’incidente accaduto 26 anni fa, quando per colpa della collisione tra la  petroliera Agip Abruzzo ed il traghetto Moby Prince morirono 140 persone.

Le parole di Frilli, testimone della tragedia, che quel 10 aprile dalla sua abitazione assistette all’accaduto, non sono mai cambiate in tutto questo tempo: egli ha sempre dichiarato che non v’era nebbia quella sera in rada che poteva impedire la visuale alla petroliera. Un particolare non da poco, dato che proprio sulla persistenza di una densa foschia si sono basate le giustificazioni di chi non ha soccorso tempestivamente i passeggeri a bordo del traghetto. Eppure la sua testimonianza non è mai entrata a far parte del fascicolo giudiziario.

Pertanto la Commissione parlamentare, costituita ad hoc e presieduta dall’esponente PD Silvio Lai, potrebbe fornire una chiave importante nella riapertura del caso in Tribunale, dopo due  processi che hanno visto tutti i possibili responsabili assolti.

La relazione della Commissione, approvata lo scorso dicembre all’unanimità, sarà presentata nel corso del mese di gennaio in un incontro con i famigliari delle vittime, al quale seguirà una conferenza stampa.

Dunque, è auspicabile che grazie al lavoro della Commissione le cause della tragedia saranno a tutti più chiare, soprattutto ai parenti delle vittime, che dopo 26 anni ancora aspettano di capire quale sia la verità e cosa sia realmente accaduto quella notte che ha fatto ritardare i soccorsi così a lungo da procurare tante vittime. Due, in particolare, i fatti che potrebbero essere reinterpretati: la disattenzione dell’equipaggio della Moby Prince, che sarebbe stata causata proprio dalla nebbia che invece pare non ci fosse; e la durata dell’incendio, che secondo quanto appurato in seguito all’audizione di circa 72 testimoni, avrebbe consumato la nave per ore e non in soli 20 minuti, come hanno concluso le due sentenze che nel corso degli anni hanno chiuso il caso senza colpevoli.

Rossella Marchese

L’onda di ghiaccio

L’eccezionale freddo polare che ha colpito la costa atlantica degli Stati Uniti nei giorni scorsi  ha davvero dell’incredibile. Mai si erano sentite temperature del genere a New York e le copiose nevicate dei primi giorni dell’anno trovano precedenti nei lontani anni Cinquanta.

Tuttavia, in mezzo a tanta apocalisse climatica non sono mancati fenomeni straordinari e suggestivi legati al così detto “polar vortex”. Tra tutti, le onde ghiacciate di Nantucket.

Certamente il nome del luogo rievoca avventure marinaresche leggendarie, come baleniere a caccia di bianchi cetacei..ed è proprio così; ma Nantucket non è famosa soltanto per essere stata il punto di imbarco più importante di tutti gli Stati Uniti nell’Ottocento segnato dalla caccia alle balene, né soltanto per essere stata parte dell’ambientazione di Moby Dick, Nantucket è famosa per le sue onde di ghiaccio.

Le chiamano “slurpee” e sono un fenomeno naturale e rarissimo dovuto alla cristallizzazione dell’acqua salata a causa della temperatura esterna di molto sotto lo zero.

A differenza delle grandi onde di ghiaccio comparse negli inverni scorsi, fra il Canada, l’Alaska e le coste della Siberia orientale, dove si sono generati dei veri e propri muri di ghiaccio alti fino a più di 4-5 metri, in questo caso il fenomeno non assume dimensioni talmente significative da arrecare danni a cose e persone, eppure, su queste onde congelate recentemente si è acceso un interessante dibattito scientifico. Molti glaciologi sostengono che non basta una temperatura estremamente bassa, sotto il punto di congelamento, per fare congelare le onde e, in effetti,  sembrerebbe più logico pensare che le onde rompano il ghiaccio marino, piuttosto che sia questo a congelare le onde. Tuttavia, nella formazione di questo fenomeno larga parte è da attribuire all’azione dei venti.

Le onde ghiacciate sono destinate a durare pochissimo per il continuo movimento subacqueo, così il surfista e fotografo Jonathan Nimerfroh ha potuto immortalarle per sole 3 ore in una serie di immagini e video divenuti subito virali sulla rete.

Già nel 2015, e prima ancora nel 2012, le onde ghiacciate si erano formate sulle coste di Nantucket, e già allora Nimerfroh per primo le aveva fotografate, rendendole un simbolo per la città.

Rossella Marchese

Auguri di Buon 2018

La Redazione di Networknews24 e l’Associazione Culturale “Napoli è” augurano a tutte le Lettrici e a tutti i Lettori, a tutte le Amiche e agli Amici dell’Associazione, a quanti ci sono  vicini e hanno sostenuto le nostre iniziative e attività, i migliori auguri di un sereno e felice 2018, ricco di pace e di positività.

 

Il 2017 in un positivo punto di vista

La verità è che il marcio ci salta subito agli occhi; sarebbe semplice stendere un elenco di quanto di più rilevante e negativo è successo negli scorsi 12 mesi, dagli attacchi terroristici alle minacce di guerra nucleare, dai disastri naturali a quelli provocati dall’uomo, solo per procedere per macro categorie.

Eppure, l’ottimismo che contraddistingue la nostra specie ha spinto un ragazzo dell’Università dell’Iowa a twittare una carrellata di buone notizie passate inosservate ai più, ma che  ha finito per essere ripostata migliaia di volte in tutto il mondo.

Pertanto apprendiamo che il 2017 è stato l’anno in cui gli scienziati hanno trovato un modo per alimentare artificialmente la barriera corallina; l’anno in cui il leopardo delle nevi è stato depennato dalle specie a rischio; l’anno in cui l’AIDS per la prima volta risulta non essere la maggior causa di morte in Africa. Ed ancora, a dispetto di quanto si crede, nel 2017 le api, insetti così importanti per la nostra sopravvivenza, sono aumentate del 27%, e gli scienziati sono anche riusciti a trovare un insetticida non nocivo per loro. Ma il 2017 è stato anche l’anno del Brasile che ha dato l’ok ad un progetto che prevede di piantare 73 mln di alberi per i prossimi sei anni nella foresta amazzonica; e sulla scia delle best practice per il pianeta, c’è anche la Cina, che ad inizio gennaio ha annunciato la messa al bando del commercio interno di avorio: una decisione storica che chiude il più grande mercato d’avorio del mondo e che potrebbe assestare un colpo decisivo al bracconaggio di elefanti in Africa. E poi c’è la questione del fiume Whanganui, in Nuova Zelanda, che è stato riconosciuto persona giuridica e, di conseguenza, portatore di interessi tutelabili ed azionabili legalmente, grazie ad una sentenza storica che potrà fungere da precedente per il diritto internazionale. La battaglia legale per ottenere questo risultato è durata oltre 140 anni, la più lunga della storia del Paese.

Pare proprio che, tutto sommato, ci sia ancora del buono di cui parlare e l’augurio è che per il prossimo anno si possa fare altrettanto.

Rossella Marchese

Approvata la legge che tutela gli orfani di femminicidio

Alla fine di ogni legislatura sembra che l’attività parlamentare si faccia più frenetica, quasi si volesse porre rimedio alla connaturata lentezza della nostra macchina legislativa, eppure in molti casi questa accelerata non si rivela un male. È il caso della disposizione di legge approvata dal Senato lo scorso 21 dicembre e che tutela i figli non economicamente autosufficienti della vittima di omicidio commesso dal coniuge (anche se separato o divorziato), dal partner di un’unione civile (anche se cessata), o da una persona che è o è stata legata da una relazione affettiva e stabile convivenza.

Gli orfani di crimini domestici potranno accedere al gratuito patrocinio a prescindere dai limiti di reddito. Lo Stato si farà carico delle spese sia nel processo penale sia in quello civile, compresi i procedimenti di esecuzione forzata.

Un altro tassello a completare il quadro di tutele necessarie che devono entrare in campo di fronte al problema della violenza di genere, che porta con sé devastanti effetti collaterali.

Agli orfani costituiti parte civile, in sede di condanna (anche non definitiva), spetta, ora, a titolo di provvisionale, una somma pari al 50% del presumibile danno che sarà liquidato in sede civile, e a tal fine è prevista la conversione del sequestro in pignoramento già con la condanna in primo grado.

Inoltre, nei confronti del familiare per il quale è chiesto il rinvio a giudizio per omicidio viene sospeso il diritto alla pensione di reversibilità. Durante tale periodo (e fino a quando vi siano i requisiti di legge) la pensione, senza obbligo di restituzione, sarà percepita dai figli della vittima. In caso di proscioglimento o archiviazione, la sospensione verrà meno e lo Stato, salvo vi sia stato subentro dei figli, dovrà corrispondere gli arretrati.

La condanna e il patteggiamento comporteranno, invece, l’indegnità a succedere, dichiarata direttamente dal giudice penale, senza necessità di un’azione civile da parte degli eredi.

Ed infine, dopo molte  e controverse ipotesi, è stata stabilita la natura e l’entità del fondo di solidarietà alle vittime; pertanto, quello che è già il fondo per le vittime di mafia, usura e reati intenzionali violenti viene esteso anche agli orfani di crimini domestici con una apposita dotazione aggiuntiva di 2 milioni di euro all’anno per borse di studio e reinserimento lavorativo. Ai figli delle vittime verrà pure assicurata assistenza medico-psicologica gratuita fino al pieno recupero psicologico, ed attribuita una quota di riserva prevista per l’assunzione di categorie protette.

Rossella Marchese

Fino alla fine ed oltre, la legge dello Stato sul testamento biologico

Non parliamo né di eutanasia, né tanto meno di suicidio assistito, entrambi non sono contemplati nel testo di legge approvato dal Senato lo scorso 15 dicembre con 180 voti favorevoli. Il disegno di legge 2801 sul testamento biologico, ora precetto dello Stato contiene, infatti, le “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”; un compromesso legislativo che non rende certo l’Italia all’avanguardia su queste problematiche, ma che, finalmente, ci dota di strumenti legislativi necessari a farvi fronte.

Lo spirito del progetto di legge, mantenutosi intatto per tutto l’iter, è quello per cui nessun trattamento sanitario possa essere cominciato o continuato senza il consenso libero e informato della persona interessata. La legge, inoltre, prevede che nella relazione di cura tra il medico e il paziente siano coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari, o una persona di sua fiducia. Viene pure disciplinato il diritto di ogni persona a conoscere le proprie condizioni di salute ed essere informata in modo completo della diagnosi, la prognosi, i benefici e i rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari proposti, le possibili alternative e le conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento. Il consenso deve essere dato in forma scritta o videoregistrata, con mezzi che consentano anche alla persona con disabilità di comunicare.

Il paziente ha il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso dato.

Tra i punti salienti della legge vi è certamente l’inclusione della nutrizione e dell’idratazione artificiali nei trattamenti sanitari, somministrabili secondo prescrizione medica e, dunque, rifiutabili o sospendibili dal paziente. Anche la terapia del dolore entra a far parte delle disposizioni legislative, pur se in maniera poco incisiva ed alquanto interpretabile; secondo la norma, infatti: “il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati, ma deve comunque alleviare le sofferenze del paziente, anche in caso di rifiuto del trattamento sanitario», di contro, il paziente: «non può esigere dal medico trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale e alla buone pratiche clinico-assistenziali”.

Per quanto riguarda le così dette disposizioni anticipate di trattamento (Dat), ogni persona in previsione di una sua futura incapacità a comunicare, potrà esprimere anticipatamente le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari e dovranno essere redatte in forma scritta, ma saranno rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento.

Spetterà alle amministrazioni pubbliche responsabili della materia attuare la legge per quanto riguarda le risorse umane, strumentali e finanziarie. Ma, specifica il testo, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Anche questo è un punto controverso, dal quale nasceranno future polemiche.

Rossella Marchese

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