“[…] tu che ti leghi per la vita e per la morte, quasi t’identifichi con le cose che fai. Ma vedi, tu appunto hai questo dono di ricondurre ad unità gli elementi più disparati […]. Tu senti che il mondo è fatto a pezzi, che le cose da tener presente sono moltissime e incommensurabili tra loro, però con la tua lucida e affezionata ostinazione riesci a far tornare sempre i conti” Così scrisse Italo Calvino. Può definire Elsa Morante?
Questa è una domanda in grado di dar luogo a una risposta vastissima, cerco quindi di non eccedere. Elsa Morante, al di là del suo essere oggettivamente uno dei più grandi scrittori mai apparsi su questo pianeta, è stata una donna, una persona, un essere di grande sensibilità e coraggio, un paradigma vero, e ancora attualismo, di forza, di libertà, di coerenza: pagata a prezzo carissimo. Elsa Morante era una creatura coi suoi particolarismi, con ciò che la rendeva speciale, unica, inimitabile, ma anche con le sue cadute, i suoi inciampi, le sue difficoltà e contraddizioni, che sono anche le nostre, sono quelle che affrontiamo tutti i giorni e in tutte le epoche. Ecco, Elsa Morante è da cercare in questa doppia luce, dolce e tagliente, affilata e morbida allo stesso tempo. Come definirla ancora? Elsa Morante è stata ed è ancora una leggenda, un fatto potremmo dire mitologico, che portava con sé un che di epico anche mentre era in vita, come i suoi libri del resto, che sono diventati immediatamente dei classici, anche prima della morte dell’autrice. Eppure era, rappresentava e viveva anche dell’altro, era quei pezzi di cui parlava Calvino, quei cocci di mondo che Elsa Morante coglieva dentro e fuori di sé, sulla propria pelle come su quella degli altri. Lo sforzo più grande, nella vita come nella letteratura, sforzo suo come di ogni altro vero scrittore, credo sia stato proprio questo: prendere consapevolezza di quelle schegge tremende, accoglierle nella propria esistenza e tentare di dar loro un’unità fondamentale, di riportarle alla Legge, dunque a una forma luminosa – e implacabile – di verità.
Morante riutilizza tematiche, topoi e modelli narrativi del romanzo ottocentesco. Eppure si innalza sul panorama letterario a lei coevo con estrema autonomia, slegata da qualsivoglia corrente. In qual modo plasma la sua coscienza metaletteraria?
Non credo che il suo più intimo riferimento sia il romanzo ottocentesco: lo stesso “Menzogna e sortilegio”, il suo esordio, per quanto possa rimandare a certi schemi del XIX secolo prende a piene mani dall’ “Orlando Furioso” e dal “Don Chisciotte”, quindi da periodi precedenti… Le radici di Elsa Morante ad ogni modo sono classiche, per la precisione greco-omeriche: tentare di comprendere Morante facendo a meno dell’ “Iliade” e dell’ “Odissea” è impossibile, si farebbe solo un grave torto all’autrice; pensiamo anche solo ad Arturo, né più né meno che un Achille in miniatura, e potrei fare molti altri esempi.
Il classicismo di Elsa Morante – fluido, dinamico, interiormente agente e mai meramente citazionale – è comunque quell’elemento che più di ogni altro la spinge verso la preferenza per gli archetipi, i simboli, le mitologie e dunque, di conseguenza, i sentimenti (sempre eterni e trasversali), a discapito delle ideologie (che invece sono circoscritte e caduche). Se perciò si vuol parlare di un’Elsa Morante metaletteraria, è da questa base che bisognerebbe partire.
Sulla rivista “Nuovi Argomenti” Elsa Morante paragonava la funzione del “romanziere-poeta” “a quella del protagonista solare, che nei miti affronta il drago notturno, per liberare la città atterrita” Ebbene, quali sono i riverberi letterari del suo sguardo alla società “piccolo-borghese burocratica”?
Cosa dice Elsa Morante sulla bomba atomica? Parto da questo punto – dalla minaccia nucleare – perché il problema è attuale e crucialissimo per noi come lo era per l’autrice e i suoi contemporanei, e perché ha a che fare con quanto mi chiede. “La nostra bomba è il fiore” scrive Elsa Morante, “ossia l’espressione naturale della nostra società contemporanea, così come i dialoghi di Platone lo sono della città greca; il Colosseo dei romani imperiali; le Madonne di Raffaello, dell’Umanesimo italiano; le gondole, della nobiltà veneziana; la tarantella, di certe popolazioni rustiche meridionali; e i campi di sterminio, della cultura piccolo borghese burocratica già infetta da una rabbia di suicidio atomico. Non occorre, ovviamente, spiegare, che per cultura piccolo borghese s’intende la cultura delle attuali classi predominanti, rappresentate dalla borghesia (o spirito borghese) in tutti i suoi gradi. Concludendo, in poche, e ormai, del resto, abusate parole: si direbbe che l’umanità contemporanea prova la occulta tentazione di disintegrarsi”.
A ben pensarci, la cultura borghese (e per borghese Morante intende disumanizzata, misera, smarrita e avida del superfluo anziché dell’essenziale, meglio ancora dell’assoluto), questa cultura, dicevo, è pericolosamente simile a quella del “Processo” di Kafka: cultura composta per lo più da gente che invece di amare rimane indifferente, o al limite fa esegesi delle emozioni, fa filologia arida degli affetti, fa le cose solo per procura e mai per natura, quindi mai per schiettezza o sincerità, ma sempre per calcolo e tornaconto becero; gente che Kafka descrive preda di un mondo asfissiante e irrespirabile, dove tutto è burocratizzato, con la propensione al processo, per citare il suo titolo, e dunque al delirio dell’accusa, del verdetto, della condanna, dove le cancellerie dei tribunali – come dimenticarle? – vengono stipate nei solai dei palazzi, preda di un’aria viziata e fuligginosa, che mai viene cambiata e che è angosciante immagine della società che siamo, una società che nel finale del romanzo kafkiano si accanisce su un cittadino, Josef K., e lo giustizia assurdamente, senza neppure comunicargli la propria colpa e dopo averlo sottoposto a un calvario surreale – fatto di ansia, paranoie, pensieri deliranti.
Come termina questa storia? L’uomo verrà raggiunto da due uomini col cappello a cilindro, che gli pianteranno infine un coltello nel petto. Ecco dunque la borghesia, o come dice l’autrice lo spirito borghese, spiegatoci da una metafora micidiale: una statalità che ammazza per decreto e senza manco più bisogno di incolpare, per Kafka; un insieme di statalità putrefatte che messe insieme hanno prodotto il fiore folle dell’atomica, per Morante.
La sua scrittura è dunque un tentativo estremo e appassionato di andare contro tutto questo, contro tutta la morte e tutto l’oscuro, tutto il buio e tutta la sfiducia che la borghesia irragionevolmente rappresenta. Da qui l’accento sulla luce, sulla solarità, non solo sulla possibilità ma sull’esigenza, ancora meglio sul dovere di agire, come uomini e quindi anche come poeti-romanzieri, a nome del chiarore, del visibile, del giorno che simboleggia irrimediabilmente la speranza e il bene, in una parola la vita, quella più profonda. Valeva per i tempi di Kafka e Morante questo ragionamento, vale ancora di più oggi.
Il suo è un romanzo biografico: dall’infanzia a Testaccio fino agli ultimi anni segnati dalla malattia. Quali sono state le difficoltà di tradurre la vita in letteratura?
Ogni scrittura porta con sé delle insidie. In questo caso i pericoli potevano annidarsi nel confondere la mia voce con quella dell’autrice, o nel volerla glorificare a tutti i costi lasciando da parte certe zona d’ombra della sua vita, oppure nella paura di non avere sufficienti informazioni per descrivere questa o quella parte… ho superato tutto questo con molto studio e molta pazienza, e molti incontri, molte interviste, molti strumenti – diversificati eppure collegati gli uni con gli altri – che dopo molto tempo mi hanno condotto a questa pubblicazione. Ho infatti dato alle stampe il mio romanzo dopo quasi quindici anni di studi su Elsa Morante. Il libro non nasce quindi dall’improvvisazione, non è un vezzo né un azzardo scriteriato, bensì un movimento del mio cuore e della mia mente, della mia vocazione alla scrittura, che ha avuto bisogno di non poche esperienze per arrivare a “Elsa”. È stato un viaggio difficile, lo ammetto, eppure affascinante, splendido, che tuttora mi commuove.
Elsa Morante appare ormai a tanti la principale scrittrice italiana di ogni tempo. Qual è il suo lasciato?
Quello di tutti poeti autentici, i poeti che per Elsa Morante sono “il sale della terra” e dovrebbero conformarsi a Cristo, anche nel lascito più complesso e sempre rivoluzionario da consegnare al mondo: dire la verità.
Angela Bubba
Col suo primo romanzo, La casa (Elliot 2009), ha vinto la terza edizione del premio What’s Up Giovani Talenti ed è stata finalista al premio Strega, al premio Flaiano, al premio John Fante e al premio Berto. Per Bompiani ha pubblicato nel 2012 il suo secondo libro, MaliNati, a cui sono seguiti Via degli Angeli (2016), scritto insieme a Giorgio Ghiotti e con la prefazione di Sandra Petrignani, e Preghiera d’acciaio (2017).
Suoi scritti sono apparsi anche su «Nuovi Argomenti» e «Nazione indiana». Recentemente un suo saggio, Elsa Morante madre e fanciullo. Intensità di archetipi e sogni nella vita di una scrittura (Carabba, 2016) ha vinto il Premio Elsa Morante per la critica. Vive a Roma, dove ha intrapreso un dottorato di studi in Italianistica su Anna Maria Ortese.
Giuseppina Capone