Non è la ricetta della pizza napoletana, rigorosamente disciplinata dall’attestazione di specificità Stg che definisce le materie prime e le modalità di cottura, ma sono bensì la cultura e l’identità di chi ci lavora a essere tutelati dal riconoscimento dell’Unesco.
Dal “masto pizzaiuolo”, che insegna e tramanda la tradizione e sceglie i materiali per la lavorazione, al “guaglione” che apprende e realizza le pizze, fino al “masto fornaio”, che sceglie la legna, controlla la temperatura del forno e gestisce le cotture con le diverse pale a disposizione, di legno e di ferro.
L’Arte del pizzaiuolo napoletano è Patrimonio dell’Umanità. Il 12 Comitato per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale dell’UNESCO, riunito in sessione sull’isola di Jeju in Corea del Sud, ha valutato positivamente la candidatura italiana. Per il Belpaese si tratta del 58esimo Bene tutelato, settimo Patrimonio immateriale riconosciuto, il nono in Campania. Con grande soddisfazione, ha annunciato la vittoria in diretta Facebook la delegazione italiana che sull’isola sudcoreana ha seguito da vicino i lavori del Comitato UNESCO. A Jeju hanno atteso la proclamazione l’Ambasciatore Vincenza Lomonaco, Rappresentante Permanente d’Italia presso l’UNESCO, il Presidente della Fondazione UniVerde Alfonso Pecoraro Scanio, già Ministro delle Politiche Agricole e dell’Ambiente, Pierluigi Petrillo, curatore legale del dossier di candidatura.
I lavori del Comitato UNESCO si concluderanno il 9 dicembre e solo al termine di questa ultima sessione l’Arte del pizzaiuolo napoletano sarà ufficialmente iscritta nella Lista rappresentativa del Patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO. Appena arrivata la notizia che la pizza napoletana è stata riconosciuta “Patrimonio culturale dell’Umanità” dall’Unesco, la fantasia dei napoletani si espressa in mille iniziative: feste in strada, pizze offerte a passanti nel centro storico, gadget. E, con una tempestività da primato, anche dal salotto della moda partenopea arrivano proposte a tema. Cilento, maison centenaria di moda maschile, ha prodotto e messo in vendita una preziosa cravatta sette pieghe che celebra la pizza. Del resto, non poteva mancare questo esemplare nella prestigiosa collezione dell’azienda di Ugo Cilento che è solita scandire tempi ed eventi della città con una collezione di cravatte ormai nota nel mondo e di importante valore. “Unire cibo, moda e cultura, è questo il segreto che ci rende unici e ricercati nel mondo. Con entusiasmo celebro oggi il risultato che finalmente riconosce la pizza patrimonio dell’umanità”, commenta Ugo Cilento. Quello che non hanno capito i signori dell’Expo lo ha capito l’Unesco, riconoscendo la pizza come patrimonio culturale dell’Umanità. Oggi l’ingresso dei pizzaioli nell’Olimpo delle Arti suona anche come uno schiaffo alla miopia di una certa politica, assai piccina, che ha preferito, e preferisce, rincorrere le grandi filiere industriali, i grandi brand, i grandi interessi, senza comprendere che questo capolavoro dell’arte povera, in un mondo di piccole patrie, è riuscito a fare da collante e cemento all’identità collettiva di una comunità e di una nazione.
Nel riconoscimento dell’Unesco c’è l’orgoglio di un mondo artigiano che non ha smarrito il rapporto con la propria terra, con i colori e i sapori del Mediterraneo; viceversa ne resta ancorato, soprattutto del Mezzogiorno. Dietro la pizza non ci sono le grandi multinazionali, non c’è alcun McDonald’s, alcuna filiera nello scacchiere geopolitico del gusto.
La pizza è un affare di popolo che trae origine dagli alimenti più sani dell’agricoltura italiana, il grano, l’olio, la mozzarella e il pomodoro: per questi motivi era e resta il più universale e unificante dei pasti – perché facilmente replicabile ovunque, e a basso costo – ma nello stesso tempo quello in cui meglio si esprime l’identità culturale di un territorio. Dunque è una cosa seria, serissima. Questo avrebbero dovuto capire i signori dell’Expo, che nel 2015 hanno pensato alla pizza solo perché c’erano da sfamare milioni di visitatori arrivati da ogni angolo del pianeta, derubricandola così a prodotto di catering, anziché elevarla a simbolo non solo di Napoli ma dell’Italia nel mondo.
Matilde Serao, nel Ventre di Napoli, raccontò dell’intuizione e del fallimento di un industriale napoletano che aveva pensato di aprire una pizzeria a Roma. “Sulle prime la folla vi accorse: poi andò scemando”.
Nicola Massaro