Magistrate finalmente. Le prime giudici d’Italia: intervista all’autrice Eliana Di Caro

Qual è il contesto storico in cui è ambientato il libro “Magistrate finalmente”?

Tra i temi affrontati dall’Assemblea Costituente vi fu il divieto per le donne di entrare in magistratura, stabilito da una legge del 1919. L’articolo 7 di quella legge impediva loro di ricoprire incarichi pubblici come quello di prefetto, direttore generale, ufficiale giudiziario, magistrato appunto, oltre a precludere le cariche elettive e molto altro. Le 21 donne elette all’Assemblea si batterono con determinazione per eliminare queste discriminazioni, ma incontrarono forti resistenze e non riuscirono a raggiungere il loro obiettivo. Solo dopo anni, con una nuova legge – la n. 66 del 9 febbraio 1963 – le italiane ottennero finalmente il diritto di accedere alla magistratura.

Chi sono le protagoniste del libro e qual è il loro ruolo nel contesto della magistratura italiana?

Le protagoniste del libro Magistrate finalmente. Le prime giudici d’Italia sono le pioniere che vinsero il primo concorso aperto anche alle donne dopo l’approvazione della legge del 1963. Racconto come si arrivò a quella legge e, nella seconda parte, le sfide affrontate dalle prime magistrate italiane, donne che non solo dovettero dimostrare le proprie capacità professionali in un contesto tradizionalmente dominato dagli uomini, ma anche rompere barriere sociali e culturali. Attraverso le loro esperienze, Magistrate finalmente mette in luce le difficoltà e le battaglie che le otto protagoniste hanno vissuto per affermare la loro presenza in un ambito cruciale della società italiana. Il libro si sofferma sugli anni ‘60, ‘70, ‘80 sino al sorpasso delle donne sugli uomini in magistratura, avvenuto per la prima volta nel 1987, quando su 300 idonei nel concorso, oltre 150 erano donne.

Quali difficoltà e resistenze hanno incontrato le prime donne magistrate italiane nel loro percorso professionale?

Ci sono diversi episodi che raccontano il clima di diffidenza e di non adeguata considerazione delle neo giudici. Ad esempio, alla milanese Emilia Capelli accadde, nel 1977, di essere chiamata una sera per un’emergenza presso il carcere minorile “Beccaria”, dove era scoppiata una rivolta. Al suo arrivo venne scambiata per un’assistente sociale, un equivoco che rifletteva i pregiudizi sull’identità e sui ruoli attribuiti alle donne. Graziana Calcagno (ligure, costruì il suo intero percorso a Torino), quando ormai era già approdata in Corte d’Appello agli inizi degli anni 80, incontrò l’ostilità di un collega che si rifiutava persino di sedere con lei – in quanto donna –  in camera di consiglio (alla fine quest’uomo andò in pensione anticipatamente). Giulia De Marco, originaria di Cosenza ma anche lei attiva prima a Milano e poi a Torino, ricorda come il tradizionale “tocco” (il copricapo formale dei giudici) fosse pensato solo per gli uomini, al punto da caderle continuamente sul viso: un dettaglio simbolico che la dice lunga. Nel tempo, dando prova della loro preparazione e serietà, le otto pioniere hanno conquistato il rispetto dei colleghi e degli avvocati: parlava la qualità del loro lavoro, nel silenzio e lontano dai riflettori.

Quali sono alcuni esempi di casi giudiziari significativi trattati dalle prime donne magistrate italiane?

Le prime magistrate hanno accompagnato l’evoluzione della società che a partire dalla fine degli anni ‘60 cominciò a cambiare pelle con l’approvazione di leggi come quella sul divorzio, sul diritto di famiglia, sull’interruzione della gravidanza.

Tra i vari provvedimenti messi in atto dalle giudici, c’è ad esempio quello deciso da Capelli sul delicato caso di una coppia di Testimoni di Geova che rifiutava una trasfusione di sangue per la propria figlia affetta da una malattia emolitica. Capelli, dopo la segnalazione del medico, nominò immediatamente una curatrice speciale per consentire la trasfusione, agendo nell’interesse della minore contro la volontà dei genitori e così salvando la vita della piccola. Maria Gabriella Luccioli, classe 1940, di Terni, prima donna approdata alla Corte di Cassazione nel 1988, presiedette il collegio dell’Alta Corte che si pronunciò sul caso di Eluana Englaro, autorizzando la sospensione delle cure forzate. Una decisione coraggiosa, che suscitò feroci polemiche e segnò un prima e un dopo.

In che modo l’ingresso delle donne nella magistratura ha influenzato il sistema giudiziario italiano?

Certamente l’arrivo delle donne ha introdotto nuove sensibilità e approcci interpretativi nella giurisprudenza, importanti soprattutto nel diritto di famiglia, nella tutela dei minori e nei diritti civili. La presenza femminile ha permesso una visione più completa e attenta su temi quali la violenza domestica, sulle questioni di genere, ambiti sui quali pesava lo sguardo esclusivamente maschile.

Negli anni anche le donne hanno cominciato a ricoprire incarichi di vertice, ma è proprio nei ruoli apicali che permane ancora una netta distanza tra uomini e donne nel sistema giudiziario italiano. La nomina della prima donna a Prima presidente della Corte di Cassazione, Margherita Cassano, risale solo al marzo 2023: sono dovuti passare 60 anni dalla legge che ha cancellato il divieto di partecipare al concorso.

L’ingresso delle donne ha anche contribuito ad una maggiore attenzione verso l’equilibrio tra vita privata e professionale, influenzando il sistema a livello organizzativo. Ad esempio, negli anni, la magistratura ha iniziato a prendere in considerazione misure che tengano conto delle esigenze familiari, sia per le donne che per gli uomini, creando un ambiente di lavoro più inclusivo.

Qual è il messaggio principale che vuole trasmettere con il libro “Magistrate finalmente”?

Questo è un pezzo della nostra storia che non si conosce a sufficienza, un passo avanti importante verso la parità, e per questo credo sia necessario e istruttivo conoscerlo. Le esperienze delle prime giudici, e ancor prima delle Madri Costituenti che hanno lottato per loro, ci insegnano che bisogna coltivare la memoria, non stancarsi di battersi per i diritti, non darli mai per acquisiti, guardare sempre avanti.

 

Eliana Di Caro è giornalista al Sole 24 Ore dal 2000: dopo aver lavorato al mensile Ventiquattro e alla redazione Esteri del quotidiano, dal 2012 è al supplemento della Cultura “Domenica”, nel ruolo di vice caposervizio e curatrice delle sezioni di Storia ed Economia e società. È tra le autrici di Donne della Repubblica (il Mulino, 2016), Basilicata d’autore (Manni, 2017), Donne nel 68 (il Mulino, 2018), Donne al futuro (il Mulino, 2021). Ha pubblicato Andare per Matera e la Basilicata (il Mulino, 2019), Le vittoriose (Il Sole 24 Ore, 2020), Le Madri della Costituzione (Il Sole 24 Ore, 2021). Scrive dei temi legati alle donne – dei loro diritti e dell’emancipazione femminile – e della terra lucana. Appassionata di tennis, ogni tanto recensisce qualche libro sull’argomento.

Giuseppina Capone

 

Alla FoCS si è parlato di donne e futuro

Si è tenuto Venerdì 8 marzo 2024, in occasione della “Giornata internazionale della Donna” e del Marzo Donna 2024, la Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus – Centro Studi e Ricerche “Mario Borrelli”, in piazzetta San Gennaro a Materdei n. 3, Napoli,  presieduta dal prof. Antonio Lanzaro ha organizzato in collaborazione con le Associazioni “Napoli è”, Voce di… Vento, NomoΣ Movimento Forense un incontro di informazione e formazione dal titolo “Una nuova stagione di diritti: Le Donne e la Società del futuro”.

Si è trattato di “un momento di riflessione sul ruolo fondamentale delle donne nella società, nel mondo del lavoro, nell’impresa, nell’informazione, nella scuola e nella formazione e non solo e che non si esaurisce con questo incontro ma vuole essere un laboratorio di riflessione per parlare di diritti e di concreta tutela delle donne per costruire un futuro in cui la parità di genere nella vita e nella società sia effettiva e non solo sulla carta” hanno evidenziato gli organizzatori.

 

(Foto: Argia Di Donato)

 

Cenacolo poetico Napoli è: Donne

Quante donne a questo mondo…

Donne vive, seducenti,

donne sole, maltrattate.

Ogni giorno violentate,

calpestate, dissanguate,

trascurate dal Divino.

Vittime innocenti

immolate sull’altare

dell’ignobile piacere.

Ignare sacerdotesse

di quell’assurdo e folle rito

che si celebra da sempre

nello scena mente umana.

Peppe Silvestri

Tagliare l’irpef può realmente incentivare le nascite?

Appare essere una buona idea contrastare la bassa natalità in Italia attraverso  la riduzione della tassa IRPEF e rappresenta una misura che potrebbe favorire la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Un intervento sull’Irpef a favore del secondo figlio è un modo di ridurre la tassazione sul reddito da lavoro delle donne, incoraggiando così la loro partecipazione al mercato e quindi di favorire la scelta delle madri di continuare a lavorare dopo la nascita dei figli. Questo rappresenterebbe una condizione concreta e fattibile e consentirebbe alle coppie di decidere di avere  anche un secondo, se non un terzo figlio. Solo l’occupazione di entrambi i coniugi può infatti assicurare quelle risorse necessarie per poter crescere i bambini. Questo intervento  non ha vizi di incostituzionalità, come la tassazione differenziata per genere o la tassazione familiare, implicita nel quoziente familiare.

La relazione tra natalità e tassazione è un fatto non analizzato perché per sua natura non appare immediato, ma di certo nella società contemporanea merita una riflessione. Le politiche a sostengo della natalità richiedono oggi una corretta rappresentazione della relazione che esiste non solo tra tassazione del reddito e occupazione femminile, ma anche tra quest’ultima e la fecondità.

Infatti, se nel 1980 la relazione era negativa, oggi appare positiva e inversa rispetto ad allora. Cioè, nel 1980 il numero medio di figli per donna era più alto nei paesi dove si registravano bassi tassi di occupazione femminile, mentre negli anni Duemila la relazione risulta opposta, il numero medio di figli per donna è più alto laddove  il tasso di occupazione femminile è più alto.  A riguardo confermano gli ultimi dati Oecd (2014) mostrano che in Europa i paesi con tasso di occupazione delle madri tra il 72 e l’83 per cento, registrano tassi di fecondità tra l’1,7 e il 2 e sono  Svezia, Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio, Finlandia, Francia. All’estremo opposto si trovano paesi come Polonia, Italia, Grecia, Spagna, Malta, Cipro e Ungheria con tassi di occupazione femminile delle madri tra il 50 e il 70 per cento, che sono associati a tassi di fecondità tra l’1,3 e l’1,4.

Nel nostro Paese,  si ottiene lo stesso risultato se si osservano i dati regionali su partecipazione femminile al mercato del lavoro e fecondità: sono le regioni del Sud che registrano i valori più bassi di ambedue gli indicatori.

E’ quindi necessario oggi saper ben definire le politiche da intraprendere, con obiettivi precisi e fondati su una corretta conoscenza dei fenomeni sociali sottostanti e che fanno tutti riferimento al generale contrasto alla povertà.

Danilo Turco

La “questione Rohingya”, donne utilizzate come arma di guerra

I sistematici soprusi sopportati dalla minoranza etnica Rohingya si perdono nelle nebbie polverose della storia, tant’è che forse l’inizio della spinosa questione può farsi retroagire a  quando lo Stato di Rakhine, dove i Rohingya vivono da secoli, fu conquistato e annesso al Myanmar nel 1784, diventando prima  dominio dell’impero britannico e rimanendo, poi, parte dell’allora Birmania dopo l’indipendenza del 1948. E pure le origini del popolo Rohingya  sono piuttosto incerte così che la teoria più accreditata, di paternità birmana, li vuole discendenti di un gruppo di mercanti musulmani originari dell’allora Bengala emigrati in loco durante il periodo coloniale e, pertanto, sostanzialmente, stranieri senza possibilità di integrazione.

Sulla fragile base di questa presunta estraneità della popolazione Rohingya al territorio birmano si poggia da sempre la politica del governo di Naypyidaw, oggi guidato dal Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi: mai riconosciuti cittadini birmani, i Rohingya sono stati confinati in Rakhine, non fanno parte dei 135 gruppi etnici che vivono all’interno del paese e sono soggetti di campagne persecutorie dal carattere di pulizia etnica, con moschee distrutte, terre confiscate, stupri etnici e omicidi di massa; tutto ciò ha costretto la popolazione ad abbandonare il paese e rifugiarsi all’estero, per lo più in Bangladesh, già dalla fine degli anni Settanta.

Ed è proprio in Bangladesh, nella inumana miseria degli sconfinati e fangosi campi profughi, che Onu ed alcune associazioni umanitarie, tra cui Amnesty International, dal 2011 raccolgono le testimonianze delle donne musulmane rohingya, vittime delle violenze sistematiche da parte dell’esercito buddista birmano. Ultimo, solo in ordine di tempo, il rapporto di novembre della Associated Press, che ha dato voce a 29 donne e ragazzine tra i 13 ed i 55 anni, tutte scampate non senza danno, alla rappresaglia posta in atto dal governo birmano dopo l’attacco ad un posto di blocco dell’esercito, lo scorso ottobre, da parte del gruppo estremista jihadista locale Arsa.

Quei racconti dell’orrore parlano di stupri di gruppo, ripetuti sistematicamente più volte tra ufficiali e soldati semplici, di percosse fino alla morte su donne incinte e di esposizione dei poveri corpi vituperati e dati alle fiamme come monito nei villaggi di Rakhine dove, ormai da mesi, è impossibile entrare sia per le organizzazioni umanitarie che per i media.

Le parole di queste sopravvissute sono tutto ciò di cui la Comunità Internazionale ha bisogno per fare pressione ed esigere spiegazioni da Naypyidaw  e, affinché la campagna di violenze contro le donne e più in generale contro la minoranza Rohingya possa condurre al riconoscimento di crimine contro l’umanità.

Rossella Marchese

Un ponte tra due ricorrenze: la campagna ONU contro la violenza sulle donne

Inizia il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, la campagna dell’Onu contro le sopraffazioni di genere in tutto il mondo, per concludersi in un’altra data simbolo, il 10 dicembre, la Giornata internazionale per i diritti umani.

Un ponte di attivismo ed iniziative di ogni genere di 16 giorni che ha come comune denominatore quello di diffondere la cultura del rispetto e della dignità verso il genere femminile: una battaglia sociale e culturale per i diritti di tutte le donne, che quest’anno mette in moto i social media in maniera massiccia, per comunicare il messaggio più velocemente e capillarmente in ogni angolo del globo.

Si può aderire alla campagna attraverso i canali di Facebook (https://www.facebook.com/SayNO.UNiTE/) e Twitter (https://twitter.com/sayno_unite), ma si può condividere anche attraverso gli hastag #16days e #orangetheworld, postando foto e video riguardanti il proprio contributo in questa battaglia culturale.

Da segnalare tra le celebrazioni internazionali di questo 2017 contro la violenza sulle donne, il movimento One Billion Rising dell’attivista e drammaturga americana Eve Ensler, autrice del celebre I Monologhi della vagina, che lancia la campagna Solidarietà che culminerà il 14 febbraio 2018, coinvolgendo un miliardo di persone, per celebrare insieme in modo gioioso irriverente e libero, la volontà di fermare ogni forma di abuso sulle donne e sulle bambine.

Solidarietà, Creatività e  Unione sono le parole che si ritrovano anche nel documentario City of Joy, scritto e diretto da Madeleine Gavin, che il 25 novembre arriva in Italia come prima europea, al We World Festival che si tiene a Milano. L’opera che narra della storia del centro per le donne fondato in Congo dalla drammaturga Eve Ensler, insieme a il dottor Denis Mukwege (tra i nominati per il premio Nobel per la pace nel 2016) e all’attivista per i diritti umani Christine Schuler- Deschryver, è la manifestazione dell’obiettivo di accrescere la consapevolezza sulla condizione femminile utilizzando il linguaggio immediato e coinvolgente del cinema.

L’arancione che tinge il 25 novembre dal 2008, diventando il colore delle campagne dell’Onu contro la violenza di genere, scelto come simbolo positivo di calore ed ottimismo per un futuro in cui le donne si saranno liberate della violenza degli uomini, anche quest’anno illuminerà i monumenti italiani da Nord a Sud, nei comuni di Roma, Milano, Caserta, Napoli, Venezia, Torino, Firenze, Genova, Matera, Cagliari, Perugia Pisa, Assisi, Ancona, Bari, Massa Carrara, Parma, Orvieto, Siena, Lecco, Pordenone Brescia e Prato.

Rossella Marchese

Violenza sulle Donne: se ne discute alla Fondazione Casa dello Scugnizzo

Un’occasione importante quella del 25 novembre per gridare NO alla violenza contro le Donne. Tantissime le iniziative in tutto il mondo per quella che è la giornata dedicata alla lotta a ogni violenza di genere, piaga della nostra società che vede coinvolte le donne senza alcuna distinzione di razza, cultura, posizione professionale o sociale. Quelli che dovrebbero essere i luoghi protetti, i luoghi degli affetti e dell’amore, sono invece i luoghi del dolore e del terrore per quelle giovani o per quelle donne che vengono maltrattate, picchiate e a volte, troppe volte, uccise da padri, mariti, partner, ex partner, fratelli, fidanzati. Moltissime non denunciano i maltrattamenti per paura, perchè sono costrette a continuare a vivere nel loro ambiente familiare. Un altro aspetto della violenza è quella nei luoghi di lavoro dove diventa fattore ancor più complesso.

Di alcuni di questi aspetti e delle possibili tutele si discuterà venerdì 24 novembre alle ore 10.00, proprio in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle Donne organizzata dall’Associazione “Spazio Donna” e dalla Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus , in piazzetta San Gennaro a Materdei n. 3, Napoli, nel corso della mattinata di riflessione e confronto dal titolo dal titolo “Violenza contro le Donne: quali tutele?”.

“L’iniziativa – evidenzia Antonio Lanzaro, presidente della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus –  vuole essere un contributo concreto al dibattito su questa piaga che affligge la nostra società e che spesso si tramuta in vera e propria tragedia. L’incontro rappresenta, inoltre, un momento di riflessione per fornire risposte alle tante domande alle quali le vittime di violenza non trovano risposta non disponendo delle necessarie informazioni per poter affrontare il dramma in cui si trovano coinvolte”.

Interverranno: Antonio Lanzaro, presidente della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Maria Aprile, presidente dell’Associazione “Spazio Donna”; Antonella Verde, avvocato giuslavorista e consigliera FOCS; Assunta Landri, psicologa – psicoterapeuta.

Modera l’incontro la giornalista Bianca Desideri.

Salvatore Adinolfi

I costi della violenza sulle donne

Più che una piaga sociale, la violenza contro le donne mina non solo la sfera della pubblica morale, della legge e dei diritti umani, ma i danni ricadono anche in ambito economico, con costi di spesa altissimi per il nostro Paese in termini di mancato sviluppo economico. Ad affermarlo un interessante dossier commissionato dall’Associazione Onlus WeWorld dal titolo esplicativo “Quanto costa il silenzio?”, la prima indagine stesa in Italia per dare sistematicità ai dati che indicano i costi economici e sociali della violenza contro le donne, non solo per le singole vittime, ma per la comunità nel suo complesso.

Con questo nuovo punto di vista la ricerca è stata in grado di stimare i costi economici più evidenti: salute, farmaci, giustizia, legali etc.., gli effetti moltiplicatori economici, quali quelli legati alla mancata produttività, i costi sociali, stimati in base ad una simulazione di risarcimento danni, nonché il valore degli investimenti nella prevenzione. Uno strumento di indagine, questo dossier, certamente perfettibile, data la povertà dei dati di partenza che non vengono raccolti in maniera sistematica dalla varietà di istituzioni e soggetti che si occupano della questione, ma che può costituire l’inizio di una nuova valutazione del fenomeno, partendo da un punto di vista diverso per stimolare nuove strategie i  vista di una sempre più fattiva ed efficace azione di contrasto alla violenza di genere. Dei 17 miliardi di euro di costi diretti e indiretti calcolati in “Quanto costa il silenzio?”, la percentuale più alta è rappresentata dal costo umano e di sofferenza che le donne subiscono lungo tutto l’arco della loro vita e che si ripercuote inevitabilmente e inesorabilmente sull’intera società. Le conseguenze esistenziali patite dalle donne in termini di danni fisici, morali e biologici e l’impatto sui figli e sulle figlie e sulle generazioni future ci costano approssimativamente 14,3 miliardi di euro.

Il progetto prende il via dall’unica ricerca nazionale sul fenomeno (Istat 2006). Partendo da quei dati e con il conforto di alcuni pionieristici studi internazionali e la validazione di un Comitato Scientifico multidisciplinare, si è potuto ricostruire un valore approssimato, per difetto, dei costi della violenza sulle donne in Italia.

L’intera ricerca è fruibile gratuitamente online sul sito www.weworld.it.

 

Rossella Marchese

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