Ogni lotta contro la violenza maschile sulle donne è lotta contro la discriminazione.
Ed ogni manifestazione in tal senso deve avere come obiettivo la sensibilizzazione contro questa violenza trasversale che travolge il corpo delle donne tra le mura domestiche, sul posto di lavoro e per strada. Nessun luogo è sicuro e non c’è un tempo dedicato alla lotta. Anche in un periodo straordinario e ricco di incertezze come quello attuale, in cui gli spazi si restringono e le piazze non possono accogliere le voci della protesta, non possiamo fermarci e dobbiamo parlare.
La discriminazione si perpetua viscida e sistematica a seconda degli ambiti e delle varie parti del mondo in cui si trovano le femmine e quando sfocia nella violenza fisica lo fa fisiologicamente.
Nel mercato del lavoro queste dinamiche non sono un’eccezione: salari più bassi a parità di mansioni, estrema difficoltà nel rivestire cariche apicali, stalking, mobbing, sfruttamento, in un’escalation di comportamenti aggressivi che mirano ad annientare la vittima in quanto persona rendendola ostaggio del proprio aguzzino. E a volte sono gli Stati ad avallare determinate pratiche che favoriscono discriminazione e violenza di genere.
È il caso del Kafala, parola araba che indica un sistema di garanzia o patrocinio, meglio tradotto in inglese con il termine sponsorship, adottato dai Paesi del Golfo per regolare l’ingresso e la residenza legale nei loro confini dei migranti economici.
Kafala è un sistema di controllo. Nel contesto della migrazione è un modo per i governi di delegare la supervisione e la responsabilità dei migranti a cittadini o aziende privati. Il sistema offre agli sponsor (datori di lavoro) una serie di capacità legali per controllare i lavoratori: senza il permesso del datore di lavoro, i lavoratori non possono cambiare, lasciare un lavoro o lasciare il Paese. Se un lavoratore lascia un lavoro senza permesso, il datore di lavoro ha il potere di annullare il visto di residenza, trasformando automaticamente il lavoratore in un residente illegale nel paese. I lavoratori i cui datori di lavoro annullano i loro visti di residenza spesso devono lasciare il paese attraverso procedure di espulsione e molti devono trascorrere del tempo dietro le sbarre.
Declinato sulla pelle delle donne questo sistema è diventato legittimazione di abusi e torture.
Come sempre tutto comincia con la promessa di una vita migliore. Una volta preso servizio nelle case saudite, le lavoratrici si ritrovano spesso a vivere alla stregua di schiave; costrette dalla necessità a sottostare al volere del loro sponsor molte non riescono ad affrancarsi, non ricevono salario e non possono denunciare qualcosa che è consentito dalla legge.
Il forum bengalese Samajtantrik Mohila denuncia che nei primi otto mesi di quest’anno 859 donne sono rientrate in Bangladesh per sottrarsi a condizioni di vita insopportabili, mentre si calcola intorno a 5000, negli ultimi 3 anni, il numero complessivo delle migranti rientrate in patria a causa delle violenze subite. Almeno 19 invece si sono tolte la vita dal 2016 a oggi. Prima di poter ritornare a casa le donne senza passaporto e senza la garanzia dello sponsor devono aspettare mesi, se non anni, alloggiate in strutture gestite dall’Ambasciata del Bangladesh in Arabia Saudita. Una volta rimpatriate, rischiano l’emarginazione sociale a causa delle violenze sessuali che in molti casi hanno subito, non solo da parte dei datori di lavoro sauditi, ma spesso anche nelle agenzie di reclutamento.
Queste ultime ottengono vantaggi cospicui operando da intermediari, arrivando a guadagnare fino a 120 dollari per ogni donna ingaggiata, una cifra consistente in un Paese con un PIL pro capite ancora estremamente basso.
E tutto accade sembra con la compiacenza del governo di Dacca le cui relazioni con l’Arabia Saudita si fanno sempre più strette in materia di commercio e investimenti.
Lo scorso anno il Bangladesh è uscito dalla lista dei Paesi meno sviluppati, sia secondo le Nazioni Unite che per la Banca Mondiale e proprio in un’ottica di espansione economica i rapporti con l’Arabia Saudita non possono essere compromessi, per cui su questa situazione si tace.
Al contrario di ciò che accade in altri Stati, come ad esempio in Indonesia o in Pakistan, in cui sono stati introdotti divieti che impediscono alle lavoratrici di recarsi in alcune zone del Golfo in seguito a ripetuti casi di abusi, il governo bangladese continua a promuovere l’emigrazione di lavoratrici domestiche poiché gli introiti derivati dalle rimesse costituiscono una fonte di entrate irrinunciabile.
Sul corpo delle donne passano investimenti e scelte politiche, si costruiscono voci d’incasso per alcuni governi e per tutti si potrebbero basare opportunità di crescita economica e sociale, basterebbe una maggiore considerazione di quei corpi.
Rossella Marchese