Francesca Sensini: Afrodite viaggia leggera

Dal IV sec. a.C. l’iconografia della dea Afrodite muta radicalmente, a partire dall’Afrodite cnidia di Prassitele: in tale statua Afrodite è rappresentata mentre sta per immergersi nell’acqua per un bagno, con uno sguardo lontano che ne sottolinea il carattere ultraterreno.

In qual misura il primo nudo femminile dell’arte greca ha influenzato l’immaginario collettivo legato a questa divinità?

Di fatto, nel mondo antico, a partire dal IV sec. a.C., l’iconografia dell’Afrodite cnidia è quella più popolare. La dea è rappresentata completamente nuda, la veste appoggiata a un’idria, un tipo di vaso destinato a contenere dell’acqua. Afrodite sta per immergere in un bagno, o forse ne esce. Con una mano davanti al pube sembra quasi volersi coprire; di fatto, però, il gesto ha l’effetto di attirare lo sguardo di chi contempla la statua proprio su quel punto. L’esposizione della statua nel tempio dedicato alla dea a Cnido – città di traffici e commerci dell’antica Caria, oggi in Turchia – aveva suscitato un tale scandalo e, insieme, un tale successo di pubblico – pellegrini, viaggiatori, curiosi, assediavano il tempio per vedere la dea nuda – da imporsi naturalmente sulle altre immagini, velate e severe, della dea, o addirittura guerresche. Si pensi all’Afrodite “marziale”, areia, rappresentata armata di spada. Afrodite areia era venerata ad Argo, Sparta, Taranto ma anche a Citera e Cipro, le due isole collegate alla nascita della dea dal mare. Il culto di questa Afrodite combattente, in contraddizione con l’immagine vulgata di dea graziosa e imbelle, rinvia alle sue origini mediorientali e alle dee mesopotamiche, la sumerica Inanna, l’accadica Isthar, la fenicia Astarte, tutte dee dell’amore e della guerra, da intendersi come principi alla base del funzionamento del cosmo.

In Afrodite viaggia leggera racconto come Prassitele fosse stato ispirato da un modello dal vero, la cortigiana Frine – una donna intelligente, assai combattiva, anche in politica, e di grande bellezza – di cui era – così alcuni dicono –  innamorato. Fu in questo modo che, accanto ai nudi maschili, cosiddetti eroici, anche il nudo femminile trovò una sua cittadinanza nello spazio pubblico e ancora oggi, se pensiamo a Afrodite/Venere, pensiamo a una figura femminile nuda o seminuda.

Ai nostri giorni l’Afrodite pop è senz’altro la statua di marmo della Venere di Milo, esposta al Louvre, insieme alla Venere del dipinto di Botticelli, La Nascita di Venere, esposto agli Uffizi a Firenze.

Afrodite si presenta già nella Teogonia di Esiodo come la prima figura femminile in forme antropomorfe, emergendo da un contesto di desiderio e di violenza che ne caratterizza i tratti di seduzione e di inganno, poi presenti nella prima donna, Pandora.

Ella incontra la guerra ed il potere. Riesce a vincere, difendendo l’amore da ogni violenza?

La versione più nota della nascita di Afrodite – dalla spuma del mare, come si suole dire – è raccontata da Esiodo nella Teogonia, vv. 176-206. Secondo questo racconto la dea viene al mondo in virtù di una separazione violenta e non di un’unione sessuale. Di fatto non ha una madre ma deriva da una sorta di prodigiosa reazione dello sperma di Urano – evirato dal figlio Crono per costringerlo a interrompere il coito infinito con Gea, impossibilità così a sgravarsi del figli e delle figlie che nutriva nella sue viscere –  a contatto con le onde del mar Mediterraneo. La dea emerge da un abisso marino che è anche un abisso di mistero. Di ogni separazione e incompletezza Afrodite è in qualche modo l’antidoto, la cura, come ho tentato di raccontare nel mio libro, attraverso le storie d’amore e di avventura in cui è coinvolta, direttamente o come regista, complice, osservatrice.

E sì, nelle storie che racconto la dea riesce a difendere l’amore dal desiderio non corrisposto, dalla violenza, anche se lei stessa, ad un certo momento, deve ubbidire alla sua stessa legge e conosce così l’amore umano, destinato a finire, e la sua sofferenza, innamorandosi di un essere mortale, il cacciatore cipriota Adone.

Mentre la dea Era, legittima consorte olimpica di Zeus, presiede all’unione matrimoniale, nodo fondamentale nella grande rete dell’ordine sociale, nella quale i due coniugi si completano l’uno attraverso l’altro e hanno potere solo insieme – la coppia Era-Zeus non si separa, nonostante l’alto grado di conflittualità che regna tra le due divinità, perché il loro regno crollerebbe  – Afrodite è la dea dell’amore come festa, del matrimonio come rito che celebra la vita e la gioia. Anche questi aspetti emergono dalle vicende che ho scelto di raccontare, in parte riprendendo elementi della tradizione e delle fonti storiche e letterarie, in parte inventando intrecci sulla basi però di dati, di indizi, disseminati sulle rotte della dea.

Pandora merita un discorso a parte, essendo un artefatto – si tratta in sostanza di una prima donna-automa ideata e realizzata dall’abilissimo Efesto – che appartiene già a un altro spazio mitico, a un’altra età del mondo rispetto a quello in cui si situa originariamente Afrodite, che è una titana e appartiene all’età di Crono – l’età dell’oro e di un’umanità aurea che non conosceva alcune distinzione di sesso, né la fatica, né il lavoro, e viveva in armonia con il divino, senza bisogno di astuzie, di inganni, di rivalse, di Prometei. Ma, ripeto, è un’altra storia.

La dea viene soventemente riconosciuta con uno specchio, una mela, una corona di mirto, un uccello sacro – una colomba, un passero – fiori come le rose o il mirto.

Può disvelare questi simboli?

Più che simboli si tratta di attributi a cui si sono associati significati simbolici che hanno poi subito cambiamenti e adattamenti semantici nel corso del tempo e a seconda del contesto in cui vengono evocati. Anche la corona, e in generale gli ornamenti d’oro, come la sua famosa “cintura di Afrodite”, che è in realtà una fascia trapunta d’oro, fanno parte della dea e rappresentato i suoi poteri; anzi, sono veri e propri oggetti magici che fanno del corpo della dea uno spazio di potere che agisce nel suo stesso manifestarsi. Del cinto Afrodite viaggia leggera racconta la storia e prova a darne un senso.

Lo specchio serve alla bellezza per contemplarsi – e diventa simbolo di vanità con il mutamento della mentalità  – la mela. o “pomo della discordia”, rimanda al famoso giudizio di Paride e alla vittoria della dea sulle rivali, Atena ed Era (a cui è seguito la famosa guerra di Troia). Il mirto, che ha un suo  spazio nel paesaggio del mio libro, è un arbusto sempreverde e deliziosamente odoroso, con bacche che producono il buonissimo liquore, molto diffuso sui litorali del Mediterraneo. Nella Metamorfosi, Ovidio racconta la storia del mirto e riferisce di come Afrodite, appena nata, avrebbe coperto il suo corpo nudo con alcuni rami di questa pianta per sottrarsi allo sguardo lascivo di un satiro. Le rose sono legate all’amore di Afrodite per il cacciatore Adone e restano nella tradizione, specie se rosse come il sangue e la passione, fiori amorosi e da innamorati. Le colombe venivano talvolte allevate nei suoi santuari e le sono associate alla dea perché sembrare avere comportamenti simili a quelli umani – come il bacio – e perché amoreggiano tutto l’anno. I passeri, invece, le sono associati perché considerati tradizionalmente uccelli lascivi. Anche la melagrana è sacra dea – non solo a Persefone, con cui peraltro esistono legami interessanti e complessi – come la mirra, la lattuga, l’anemone; tra gli animale, l’oca, il cigno e creature marine come i tritoni, i molluschi a conchiglia e le loro perle. L’elenco è lungo e non ne esiste una versione unica, come non restano identici i significati dei vari attributi della dea. Occorre sempre interrogarci sul contesto.

“Afrodite, marina e dorata, celeste e terrena, viaggia leggera sulle rotte del Mediterraneo.”

Qual è il luogo di culto maggiormente rappresentativo?

Posso dire qual è per me, in questo mio libro, il luogo più rappresentativo: Ischia, l’antica Pithekoussai e la storia d’amore che si svolge sull’isola. Ma è una risposta personale che non ho nessuna pretesa di oggettività. Non ho infatti scritto un saggio sulla dea. Il mio è un lungo racconto, fatto di viaggi e avventure che ho scelto seguendo le mie inclinazioni, le mie fissazioni anche; in parte si tratta di materiale tratto dal mito antico, dalla storia, dalla tradizione letteraria, e riscritto, interpretato, completato nei suoi vuoti dovuti alle lacune della tradizione; in parte si tratta di storie di mia invenzione, che ho messo insieme analizzando e riassemblando dati ed elementi che ho rintracciato nei miei studi intorno alla dea.

“Tutto l’universo obbedisce all’Amore”. Così si legge nell’Elogio in Les Amours de Psyché, di Jean de la Fontaine.

Il fascino di Afrodite risiede nell’inspiegabilità d’un sentimento?

Il fascino di Afrodite è legato, a mio avviso, all’ineluttabilità dell’amore, del desiderio, dell’eros – con quello che comporta di istinti, di conflittualità, di lotta – in ciascuna e ciascuno di noi. Perché non lo sappiamo. Così è. In effetti, la spiegazione non c’è, c’è una legge. La forma che questa legge cosmica ha preso alle nostre latitudine è quella di Afrodite La dea è una fantasia mediterranea, nostra, tutta umana. Ed è in effetti una fascinosissima donna fatale, nel senso che appartiene al nostro destino di specie: il sesso, l’amore, le loro varie declinazioni civilizzate e civili, e la bellezza a cui aspiriamo ogni giorno, dopo tutto, come consolazione, come forma di possibile felicità.

Professoressa, Lei si occupa anche di studi di genere in ambito letterario. Le sue ricerche sono influenzate dalla sua formazione formazione classica?

Certo. La mia formazione classica influenza non solo le mie ricerche ma anche il mio sguardo sulle cose. Per questo mi occupo della ricezione del mondo antico nella modernità e oggi. Il ricorso a una lente di genere mi è utile per osservare aspetti e rintracciare nessi che, senza quella lente, non apparirebbero, rimarrebbero sulla sfondo, offuscati da altre prospettive. Un caso emblematico è il famoso incontro sulle mura di Ettore e Andromaca in Il. VI, su cui mi sono soffermata in un articolo “Se delle parola di occupano gli uomini”, apparso su Alias del 2.12.2023, e a cui rimando. Si tratta di un episodio notissimo, che io incontrari la prima volta alle medie e che mi fu spiegato esaltando l’amore dei giovani sposi sullo sfondo sanguinario della guerra, la tenerezza del padre, in una pausa del combattimento, che prende in braccio il figlio neonato dopo essersi tolto l’elmo piumato che spaventava il piccino, la tristezza del destino di un grande e coraggioso guerriero destinato a soccombere alla violenza del nemico straniero. C’è altro da osservare in quella scena, da leggere nei versi di Omero e usare lenti nuove aiuta a vedere di più e meglio. Peraltro, tutto è già in quei testi. Omero è una voce critica e non organica all’ordine sociale che rappresenta e racconta. Va letto e contestualizzato, come ogni autore, autrice, come ogni tema, per evitare di fare strame della storia, anche di quella delle idee, e dire delle solenni sciocchezze, in nome di una modernità senza vero progresso, che finisce per imporsi come un nuovo conformismo.

https://ilmanifesto.it/femminismo-se-della-parola-si-occupano-gli-uomini

 

Francesca Sensini è professoressa associata di Italianistica presso l’Université Côte d’Azur di Nizza. Classicista di formazione, dedica prevalentemente le sue ricerche alla letteratura italiana tra Otto e Novecento, agli studi della ricezione classica e agli studi di genere in ambito letterario. Nel 2023 ha pubblicato il romanzo La Trama di Elena, Ponte alle Grazie. Tra le altre pubblicazioni recenti ricordiamo “Non c’è cosa più dolce”: Giovanni Pascoli ed Emma Corcos, lettere, Il Nuovo Melangolo, 2022; La lingua degli dei: l’amore per il greco antico e moderno, ivi, 2021; Pascoli maledetto, ivi, 2020. Ha curato la ristampa dei romanzi di Marise Ferro, La violenza, Elliot 2022; La ragazza in giardino, ivi, 2022; Le romantiche, Succedeoggi Libri, 2021; La guerra è stupida, Gammarò, 2020.

Giuseppina Capone

 

 

Francesca Sensini: La lingua degli dei. L’amore per il greco antico e moderno

Francesca Sensini è professoressa associata di Italianistica presso la facoltà di Lingue e letterature straniere dell’Université all’Université Côte d’Azur de Nice, dottoressa di ricerca dell’Università Paris IV Sorbonne e dell’Università degli Studi di Genova. Comparatista di formazione, dedica principalmente le sue ricerche alla letteratura italiana tra XVIII e XX sec., alle riscritture e all’ermeneutica dell’antichità classica in Europa e agli studi di genere in ambito letterario. Tra le sue pubblicazioni più recenti Pascoli maledetto, Genova, Il Melangolo, 2020; Marise Ferro, La guerra è stupida, a cura e con un saggio introduttivo di F. Sensini, Sestri Levante, Gammarò, 2021; La lingua degli dei. L’amore per il greco antico e moderno, Genova, Il Melangolo, 2021.

Lei ripercorre una storia ininterrotta, che va da Omero ed arriva fino ad oggi.
Cosa ha inteso illuminare, sottraendolo al buio della nostra dimenticanza?

La storia ininterrotta è quella della Grecia, del suo popolo e della sua lingua sullo sfondo del Mar Mediterraneo. Per un errore di prospettiva, legato alla nostra tradizione culturale, centrata sul destino di Roma, nel nostro immaginario tendono a esistere due Grecie, se così posso dire: da una parte l’antica, modello insuperabile di civiltà, oggetto di studi specialistici ed elitari; dall’altra, la Grecia moderna, di cui perlopiù ignoriamo la storia e la cultura, ridotta com’è a paese vacanziero, scintillante sfondo di cartolina, lembo marginale dell’Europa e sua infelice membro. Invece no, la Grecia è una e come tale va guardata per essere davvero compresa e conosciuta nella sua millenaria avventura, nel suo modo unico di essere nostro specchio e, insieme, prefigurazione di noi stessi, della nostra storia di individui e di comunità. Così, nella pagine di questo libro vago – e divago – dal IX sec. a. C., il tempo di Omero, che a sua volta ci racconta storie ancora più antiche, risalenti al XIII- XII sec. a. C., per arrivare ad oggi, 2021, anno in cui la Grecia festeggia la rivoluzione nazionale che l’avrebbe resa di nuovo una nazione indipendente. Ho tentato così di illustrare l’esperienza di questo paese mirabile e ammirevole attraverso ventiquattro racconti/riflessioni portati alla mia fantasia dalle parole, sia del greco antico che del moderno, come altrettante conchiglie risalite fino a me sulla riva del mare, provenienti chissà da dove, levigate da chissà quali correnti. Al di fuori del discorso specialistico, scientifico, ho voluto ‘illuminare’ il mio amore per questa patria ideale, contradditoria, magmatica, imperfetta, e per questo vivissima, sottrarre all’ombra della dimenticanza e a una memoria inerte, fossilizzata dal culto della tradizione, la Grecia di sempre attraverso il mio legame con lei, partendo da me per rivelarla agli altri, a chi il greco lo ignora del tutto o a chi invece lo conosce da studioso, a chi ama la Grecia d’istinto o a chi la venera per infinite ragioni. Ho tentato quanto meno, raccogliendo frammenti di storie.
Guerra di liberazione, combattuta con orgoglio, e reazione ad una devastante crisi economica.
Ravvede un medesimo moto d’animo, squisitamente greco, che cavalca i millenni?

Tra le qualità che davvero sembrano modellare lo spirito del popolo greco c’è sicuramente il senso di appartenenza a una civiltà che si distingue per la sua aspirazione alla libertà, intesa come espressione piena dell’umano e come condizione relazionale, che tiene conto degli altri intorno a sé, della comunità, e desiderio di fare e conoscere non sottoposto a catene, a dogmi. Altro tratto distintivo è senz’altro la capacità di accogliere in sé il concetto di alterità ed elaborarlo. I Greci sono viaggiatori, migranti, filosofi con la mente e con il corpo. Nella loro lingua il “dubbio” è l’ostacolo che si frappone al loro movimento, l’assenza di passaggio, l’a-poria in senso etimologico. Non è un caso per me. Dalle grandi battaglie di Maratona e Salamina nel V sec. a. C, quando l’impero persiano del Re dei Re, ricchissimo e strapotente, viene sconfitto contro ogni logica aspettattiva da una manciata di soldati coraggiosi fino alla follia e da poche navi inadatte gli scontri navali, fino allo scempio che del paese è stato fatto da una politica rapace e amorale, con la svendita del suo patrimonio nazionale a ricchi compratori esteri, la Grecia continua a opporre la sua resistenza. La Grecia ci insegna da sempre che esiste sempre un processo alternativo alla mera sopravvivenza, che qualcosa può sempre (e deve) accadere, se non ci lasciamo invadere dalla paura, ci insegna la “resistenza”, l’antístasi, il “mettersi davanti e contro qualcosa”, “l’opporsi”, che è tutto il contrario della “resilienza”, l’anthektikótita, quell’idea oramai corriva e detestabile che porta in sé l’idea che la vita non si possa liberare da quanto la opprime, la schiaccia, le spreme via energia e che in greco infatti rinvia al verbo “sopportare”.
Il testo è un encomio che non intende palesare le sue ragioni con ragionamenti logici bensì con i racconti che le parole recano con sé: quelle antiche e quelle moderne. La prima è, appunto, “memoria”.
La Grecia è una “questione” di memoria?

Sì, è una questione di memoria. La parola “memoria” è la stessa in greco antico e moderno, mnéme, μνήμη (oggi pronunciato mními). La lingua e la civiltà greca sono la nostra memoria comune. e non sto parlando di tradizioni. Il discorso del mio libro non è motivato da un’astratta venerazione per i modelli di una cultura dominante, per un bagaglio educativo considerato aprioristicamente illustre e ridotto con il passare del tempo a tecnica o ginnastica mentale. Si tratta di un dato storico e di civiltà. Ugo Foscolo – poeta che consideriamo senza farci troppe domande italiano ma in realtà greco delle Isole ioniche – lo riconduce alla possibilità di definire noi stessi. In una lettera del 1808 al diplomatico prussiano Jacob Salomo Bartholdy, il poeta dice più o meno questo: finché mi ricorderò chi sono, mi ricorderò della Grecia. La Grecia di Foscolo non è solo la sua terra di origine né solo la sua patria (anche l’Italia lo fu, dopo tutto). la Grecia, e quella che si chiama grecità, come a dire l’essenza della nazione, sono il paesaggio su cui si delinea la nostra figura, lo sfondo del nostro ritratto. Possiamo dire di no, far finta di niente obiettando che in fondo è roba antica, difficile, morta, ma sarebbe una rimozione, oltre che una clamorosa falsità. e a privarci di una risorsa vitale, mortificando le possibilità della nostra fantasia, saremmo tristemente noi, in ogni caso.
Omero e Kavafis: Grecia antica e Grecia moderna. Può instaurare qualche relazione e qualche confronto?
Greco di Istanbul nato ad Alessandria d’Egitto, l’antica “Parigi” ellenistica e ancora nell’Ottocento città cosmopolita, Kavafis è senz’altro un luminoso esempio di uomo e poeta autenticamente mediterraneo e perfettamente greco. La Grecia è diffusa nel Mediterraneo, è il viaggio che conta, non l’approdo, per evocare il testo di Kavafis forse più noto, Itaca, ispirato al personaggio di Odisseo/Ulisse. L’ispirazione di Kavafis, così come l’uomo Kavafis, è errante nello spaziotempo – ha cantato il mondo ellenistico pagano, l’impero di Costantinopoli, il suo profondo smarrimento nel presente – come errava Omero, poeta girovago di isola in isola, in tutto simile ai colleghi aedi di cui racconta nell’Iliade e nell’Odissea, Demodoco e Femio. Anche Omero errava col corpo e con la fantasia, pescando a piene mani nei secoli bui dove gli audaci Achei del Meditteraneo occidentale guerreggiavano contro i ricchi orientali di Troia per avere con sé la Bellezza, che i Greci hanno chiamato Elena e che meriterrebbe davvero un libro a parte. Le corrispondenze non mancano e accanto a Kavafis i nomi delle grandi voci della Grecia moderna sarebbero tanti quanti i nomi dei condottieri nel catalogo delle navi di Iliade, II (iperbole epica, mi sia concessa).
Può indicarci un particolare della “sua” Grecia, un elemento per lei inconfondibile?
La “mia” Grecia è uno scrigno senza fondo di storie – i “miti” che sono, etimologicamente, le “parole” pronunciate, dette a voce alta, condivise in uno spazio comune perché diventino codice comune, legame comunitario, emozione condivisa – storie forse mai veramente avvenute, storicamente indocumentabili, galleggianti come relitti nel mare del tempo, ma che, di fatto, sono sempre perché sostanziano il mistero dell’esistere; del nostro di occidentali, di europei, in particolare. È una Pandora al contrario. Non apre il contenitore da cui escono, diffondendosi irrimediabilmente, i mali nel mondo. Dal suo píthos escono doni di ogni genere: possibili strategie per mettere ordine nel disordine del mondo, per sfruttare a proprio vantaggio il disordine stesso dell’essere, parole e pensieri lontanissimi da nostri con cui rinnovare noi stessi e la realtà che ha smesso di meravigliarci. D’altra parte, Pandora significa “colei che è tutto un dono”. Così tutto torna, come si dice. La “mia” Grecia è la domanda ricorrente sull’arché, sul principio: com’è davvero cominciato tutto? La Grecia continua a formulare con me le sue ipotesi, a farmi intravedere risposte. Intanto un ospite sorridente mi porta, a fine pasto, senza che io abbia chiesto nulla, anguria fresca e tsípuro: la “mia” Grecia è anche l’antico simposio che si rinnova su una tovaglia di carta, a due gradini dal Mediterraneo, per poche dracme (oggi euro, qualcuno in più di un paio di decenni fa).

Giuseppina Capone

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