Il patrimonio culturale di Napoli e della Campania: eventi di Carnevale a Napoli

Ormai ci siamo, è carnevale e sabato 3 febbraio 2024 si è dato inizio ai festeggiamenti a Napoli della festa più pazza dell’anno.

Le associazioni Vivere a Napoli e Borbonica Sotterranea hanno dato vita alla prima edizione del “carnevale in galleria borbonica”.

Gli ospiti sono stati accolti nelle misteriose gallerie sotterranee illuminate da luci  multicolori da suoni e balli e da personaggi in costume che hanno allietato la serata con allegre  performance.

Cortei in maschera e carri carnevaleschi sfileranno per le strade della città  da venerdì 9 a martedì 13 rappresentando in pieno l’originale spirito carnevalesco di ribaltare l’ordine sociale dove non è più possibile esercitare la distinzione tra  ricchi padroni oppressori ed i poveri popolani.

Città della Scienza organizza per domenica 11 un carnevale-laboratorio di divertimento ed apprendimento, un modo per insegnare modalità di comportamento sociale, immergendo i partecipanti nel mondo dell’evoluzione del terzo regno.

Un modo originale e divertente ma scientifico per coinvolgere i giovani che tra palloncini e bolle di sapone in un programma di educazione civica.

E per concludere nel modo più inerente alla tradizione borbonica da sabato 10 a martedì 13 a Palazzo Reale in “Largo Palazzo” Re Ferdinando e la sua consorte  Regina Maria Carolina accoglieranno gli ospiti nelle sontuose sale  della Reggia  per dare inizio al Gran Ballo di Corte sulle note del minuetto e gustando un gustoso babà.

Tutti gli ospiti potranno indossare la mascherina.

A Pietrarsa domenica 4 febbraio un’esperienza musicale in costume: “A corte da Pulcinella” un’esperienza interattiva unica, occasione per sbirciare dietro le quinte del teatro.

Ed infine ad Edenlandia, nel parco dei divertimenti della città di Napoli da sabato 10 a martedì 13, i  bambini potranno accedere in maschera  per una giornata di vera festa.

Alessandra Federico

Distretto Lions 108 Ya: nascono due nuovi Club

Il Distretto Lions 108 Ya, che unisce Campania, Basilicata e Calabria, continua il rafforzamento operativo ed organizzativo. Nello spazio di pochi giorni, il Distretto ha salutato la nascita di due nuovi club. Domenica 21 gennaio è stata salutata la fondazione e la consegna della Carta Costitutiva, la cosiddetta Charter, al Lions Club di Gerace, in provincia di Reggio Calabria. Il nuovo club, di cui è stato sponsor il Lions Club di Monasterace Kaulon presieduto da Mariateresa Spagnolo, è composto da 20 soci fondatori ed è presieduto da Adele Careri. Nel corso della cerimonia di consegna della carta, il presidente ha espresso tutto il suo orgoglio e la sua emozione per la nuova mission a cui è stata chiamata, garantendo il proprio impegno e quello di tutti i componenti del club “per rispondere ai bisogni della nostra comunità, agendo in sinergia con l’amministrazione comunale e con le altre istituzioni ed associazioni del territorio”.

Domenica 28 gennaio, è stata celebrata la fondazione del nuovo club Capaccio Paestum – Magna Graecia, il cui club sponsor è stato il Club di Mercato San Severino con la presidente Immacolata Romano.

La cerimonia di consegna e sottoscrizione della Charter si è svolta presso il Royal Paestum Hotel. A consegnarla, come già accaduto a Gerace, è stato il Governatore del Distretto 108 Ya, Pasquale Bruscino. Alla cerimonia hanno partecipato, tra gli altri, l’immediato past governatore Franco Scarpino, il primo vicegovernatore Tommaso Di Napoli, il secondo vicegovernatore Pino Naim, il GMT del Multidistretto Italy di Lions International e del Distretto 108Ya Rita Franco e tanti altri officer e soci Lions.

Il Club Capaccio Paestum – Magna Graecia può contare su 42 soci fondatori ed è presieduto da Vincenzo Mallamaci.

“Sono particolarmente felice di salutare la nascita dei primi due club del mio anno di governatorato. La crescita associativa e la fondazione di club sono fondamentali per rafforzare la nostra associazione e metterci nelle condizioni di adempiere con sempre maggiore efficacia alla realizzazione della nostra mission, che è quella di servire le nostre comunità e l’umanità, dando risposte concrete, anche in termini di proposte e progetti, per la risoluzione dei problemi e per il soddisfacimento dei bisogni, favorendo al tempo stesso la difesa di valori essenziali come la pace, la democrazia, la tolleranza, l’inclusione, i principi della buona cittadinanza. Un’azione ancora più importante in una contingenza storica caratterizzata da difficoltà economiche, bisogni crescenti, rigurgiti di odio e di intolleranza, guerre.  La nostra azione di volontariato ha il suo motore nei club, cuore pulsante della nostra associazione, e nei soci che decidono di aderirvi, cervelli e gambe che fanno marciare la nostra azione di servizio umanitario e comunitario. Per questo la crescita è un elemento fondamentale” afferma il Governatore del Distretto 108Ya, Pasquale Bruscino.

“La nascita di due nuovi club è il riconoscimento all’impegno del nostro Distretto nell’ambito della mission 1.5, l’obiettivo ambizioso che ci siamo posti come associazione di arrivare ad 1,5 milioni di soci nel mondo, per rafforzare sempre di più la nostra azione di servizio a favore dei territori di riferimento e dell’umanità sofferente. Il nostro sogno, come vuole il nostro presidente internazionale Patti Hill, è cambiare il mondo partendo dalle nostre comunità attraverso i services dei nostri club” spiega Rita Franco, responsabile della membership.

Lions Club International è la più grande associazione di servizio al mondo. Fondata nel 1917 negli Stati Uniti da Melvin Jones, conta oggi oltre 1,4 milioni di soci in oltre 50.000 club operanti in più di 200 Paesi ed aree geografiche del mondo. La mission dell’associazione è di dare modo ai Lions Club, ai volontari e ai partner di migliorare la salute e il benessere, rafforzare le comunità, supportare le persone bisognose tramite servizi umanitari e contributi di impatto globale, incoraggiare la pace e la comprensione internazionale.

Pierluigi Benvenuti

 

Il patrimonio culturale di Napoli e della Campania: Il Carnevale a Napoli

Tradizionalmente le festività del Carnevale a Napoli hanno inizio il 17 gennaio, Sant’Antuono quando in suo onore vengono “appicciat ‘e cippi” che vogliono significare il buttare sul fuoco e  bruciare tutte le cose negative del passato anno.

Il Carnevale è una festività cristiana che si fonda su antiche festività quali le feste dionisiache del periodo classico greco  e i Saturnali della Roma antica ed Il suo nome  deriva dal termine “levare la carne”, indicando l’usanza di mangiare per l’ultima volta la carne il martedì (martedì grasso) prima dell’astinenza e del digiuno della Quaresima.

Già nell’ottavo secolo a Napoli, nel periodo di Carnevale avvenivano grandi festeggiamenti  con feste, tornei e balli dove nobiltà e popolo si mischiavano tra loro coperti da maschere e costumi, riprendendo gli usi delle comunità egiziane che durante le feste in onore della dea Iside si travestivano con maschere e costumi per allontanare gli spiriti malvagi. Ma il travestirsi aveva anche significato simbolico di ribaltare la realtà e livellare l’ordine sociale.

Durante il Carnevale era lecito lasciarsi andare e dedicarsi agli scherzi ed il travestimento rendeva irriconoscibile la differenza tra le classi sociali.

A causa  delle violenze che si scatenavano durante i festeggiamenti il carnevale fu sospeso per un lungo periodo. Furono i Borboni nel sedicesimo secolo a ristabilire la celebrazione della festa facendo divenire una grande festa popolare diffondendo l’uso delle maschere e incentivando  balli e musica per tutta le strade delle città del Regno delle due Sicilie.

E’ di quel periodo la nascita della maschera di Pulcinella a cavallo di una vecchia (da cui il detto “’a vecchia ‘o Carnevale”) allegoria del passaggio dal vecchio e appassito tempo alla nuova stagione.

Un altro rito introdotto da re Carlo di Borbone durante la festività del Carnevale fu l’albero della cuccagna, che simboleggia la gioia e la prosperità ma anche la fatica e l’impegno necessari per ottenerli.

Nelle piazze e strade delle grandi città, venivano installati alti pali di legno che venivano resi scivolosi cospargendoli di grassi ed oli o saponi e alla cui sommità erano poste cibarie di ogni tipo.

A Napoli nel giorno di carnevale il palo, carico di ogni ben di Dio, veniva issato in piazza Mercato poi in Largo Palazzo (oggi piazza del Plebiscito).

Naturalmente per accaparrarsi delle prelibatezze il popolo si lanciava senza considerare difficoltà e pericoli e molto spesso accadevano gravi incidenti con morti e feriti.

Sempre in quel periodo i nobili napoletani organizzavano le sfilate dei carri di carnevale, riempiendoli di cibarie e bontà di ogni genere posti sulla cima di pali anche 20 metri  insaponati, posti al centro dei carri.

Attualmente anche presso altri comuni d’Italia per le celebrazioni di carnevale sono sorti giochi e percorsi legati all’albero della cuccagna, anche sostituendo i cibi con altri premi e con denaro, ma molto più spesso con comuni bandierine al fine di renderlo solo un gioioso gesto sportivo.

Nel prossimo articolo parleremo dei festeggiamenti a Napoli  per il Carnevale 2024.

Alessandra Federico

Il patrimonio culturale di Napoli e della Campania

La regione Campania possiede in patrimonio inestimabile costituito non solo dalle bellezze  del suo ambiente  naturale, ma anche da tutto ciò che i suoi abitanti  sono riuscito a produrre  nel corso della sua storia.

Lo testimoniano le meraviglie costudite  nelle chiese, nei musei e nei palazzi storici, che hanno stupito il mondo intero: le opere letterarie, musicali scientifiche  che hanno contribuito al progresso  di tutta l’umanità; il patrimonio archeologico che dimostra il grado di conoscenza e di raffinatezza raggiunto dai nostri avi già migliaia di anni fa.

Non secondo per importanza e dignità è poi la cultura enogastronomica, un patrimonio immenso, certamente  tra i più vasti e completi al quale si sono ispirate  molte altre “scuole di cucina”.

Una particolarità della nostra gastronomia è che molti piatti tipici e dolci non sono considerati, come nei Paesi nordici, cibo di routine, ma sono consumati nelle celebrazioni di feste  ed eventi particolari come la pastiera a Pasqua, gli struffoli a Natale, le zeppole a San Giuseppe, lasagne e sanguinaccio a Carnevale. Questi sono certamente i più noti ma esistono nella tradizione di Napoli e dei paesi della sua regione altri piatti e dolci legati ad eventi e festività meno note, che noi ci accingiamo  a riportare alla comune conoscenza dedicando ogni mese un racconto  che ne  descriverà l’origine e la storia.

Questo è  tempo di Carnevale e  il piatto  simbolo di questa festività è certamente la  lasagna, uno dei piatti simboli dell’Italia  che riesce a combinare  radici storiche e che in ogni regione  presenta una variante.

L’origine della lasagna  risale ai tempi dei romani conosciuta con il termine “laganon” ed indicava  una sottile sfoglia di pasta a base di grano e cotta su fuoco.

Nei secoli a venire la lasagna si diffonde su tutto il territorio nazionale e venendo  utilizzata per accompagnare i  piatti di carne.

Nel corso del rinascimento all’impasto furono aggiunte le uova che sostituendo l’acqua  darà all’impasto una maggiore consistenza e sapore.

Attualmente due sono le città, Bologna e Napoli che si contendono  le origini  del piatto che oggi conosciamo.

Nel 1863 in Emilia, Francesco Zambrini pubblica nel suo “libro di cucina” la ricetta della lasagna che prevedeva l’alternarsi di strati di pasta e di formaggi mentre in Campania, nel 1881 Fancesco Palma nel suo libro “Principe dei cuochi o la vera cucina napolitana”  pubblicala ricetta della lasagna al pomodoro che in sostituzione della besciamella e della carne macinata della ricetta originale, utilizza ricotta, ragù, polpettine e mozzarella.

Il menù di carnevale napoletano è molto ricco e oltre alla lasagna comprende un numero davvero infinito di secondi piatti e dolci. Tra i secondi piatti abbiamo solo l’imbarazzo della scelta tra carne al ragù, braciole, polpette, involtini di carne e le tracchiulelle, etc. Ad accompagnare il tutto c’è sempre una bella e succulenta  parmigiana di melenzane  preparata  con melenzane fritte, passate nell’uovo e farina e gratinate in forno con salsa di pomodoro, mozzarella, formaggio aglio e basilico.

Passando ai dolci troviamo il migliaccio, le cui origini risalgono al Medioevo e significa pane di miglio ed è un pane contadino che di solito si prepara il martedì grasso.

Per ultimo incontriamo  il dolce  che  “non  tace mai” e che rappresenta insieme alla lasagna il  simbolo del Carnevale a Napoli: le chiacchiere che possono essere  cotte al forno o fritte e che per tradizione si fanno accompagnare, per farle zittire, con una tipica crema: il sanguinaccio.

Buon Carnevale e buon appetito.

Alessandra Federico

Metin Tunç: La Lingua Madre di Sa’piens. Archeologia orale

Metin Tunç, nato a Bingol nell’est Anatolia Turca, ha voluto chiamare “archeologia orale” il suo lavoro di ricerca “perché non conosco un’espressione più adatta alla teoria che espongo in questo libro”.
“La Lingua Madre di Sa’piens. Archeologia orale”, edito da Effigi, è un volume articolato,  dove il linguaggio scorrevole e le illustrazioni a supporto del testo rendono piacevole affrontare la lettura del complesso lavoro portato avanti sulla lingua. “Attraverso l’archeologia orale – evidenzia ancora l’autore –  possiamo affermare che la lingua rappresenta l’unico filo conduttore, garante della continuità dell’intera storia dell’homo sapiens, poiché non ha subito interruzioni e rallentamenti, come nel caso dell’archeologia classica che è basata soprattutto sullo studio dei reperti; il tempo ha cancellato quasi ogni traccia del viaggio dell’homo sapiens sulla Terra”.
Tunç  articola ancora il suo pensiero affermando che “nel campo dell’archeologia orale si può anche verificare quanto un concetto sia antico. Gran parte dei concetti antichi nascono durante il paleolitico e il mesolitico, ma nel neolitico li vediamo applicati alla neonata epoca agraria. Ma per poterli distinguere abbiamo bisogno d’analizzare il loro utilizzo sulla linea del tempo e dello spazio sul piano scientifico, accademico e sociale”.

Interessante la divisione in tre sezioni del libro che . La prima ha il suggestivo titolo “nascere dalle ceneri”; la seconda analizza le tre rivoluzioni, quella del Paleolitico, del Mesolitico e del Neolitico; la terza parte, intitolata “Inizio dell’agricoltura e nascita delle prime città cosmopolite”, affronta il tema cardine dello studio abbracciando vari secoli e civiltà.

Il volume si conclude con una rassegna di alcuni monoconcetti dell’antico lessico in diverse lingue.

Antonio Desideri

 

Viaggiando tra passato e futuro con la Macchina del Tempo

A chi non piacerebbe viaggiare nel tempo? Con i progressi della scienza e della tecnologia probabilmente in un futuro forse non tanto lontano il sogno dell’uomo potrebbe realizzarsi.

Nella letteratura e nella cinematografia questo sogno, quasi impossibile, si è materializzato in libri e film. Molti ricorderanno la mitica trilogia di “Ritorno al futuro”  con il giovanissimo Marty  e il suo bizzarro e geniale amico scienziato Emmett Brown che lui chiama “Doc” che ha costruito una macchina del tempo modificando una DeLorean DMC-12 con la quale scorazzano scoprendo passato e futuro. E come non ricordare il famosissimo romanzo di H.G. Wells “La macchina del tempo” che ha fatto e continua a far sognare generazioni di ragazzi. Questo capolavoro della letteratura è uscito da poco in edicola come primo volume di una collana dedicata ai maestri del fantastico da RBA che calerà i lettori nelle opere nate dalla mente geniale di autori del XIX secolo.

Fantasie scientifiche, mostri, avventure, terrore, fantastico questi gli ingredienti delle opere di autori di fama mondiale: H. G. Wells, E.A. Poe, B. Stroker, M. Skelley, H.P. Lovecraft sono per citarne alcuni in un’elegante veste editoriale con copertine illustrate che si ispirano ai cataloghi delle prestigiose edizioni d’epoca: Hetzel, William Heinemann, Scribner, ecc. I volumi sono arricchiti da illustrazioni e frontespizi originali dei grandi maestri Harry Clarke, H. Alvim Corrêa, Harry Rountree, Nino Carbe, e altri e da disegni interni e decorazioni che riprendono le prime edizioni originali.

Grandi capolavori da leggere e collezionare.

Antonio Desideri

Tommaso Greco: Curare il mondo con Simone Weil

Professore, Simone Weil è nota, oltre che per la vasta produzione saggistico-letteraria, anche per le drammatiche vicende esistenziali che attraversò, a cominciare dalla scelta di lasciare l’insegnamento per sperimentare la condizione operaia. Quale tratto della sua figura ritiene sia ancora celato?

Non credo ci siano aspetti della biografia weiliana che sono rimasti celati. La biografia scritta dalla sua amica Simone Pètrement, e i vari volumi che sono usciti sin dal dopoguerra, danno un quadro completo delle sue vicende, magari mettendo in luce un aspetto piuttosto che l’altro. Anche dal punto di vista dell’analisi del suo pensiero si è fatto moltissimo e direi che esso è stato scandagliato in maniera abbastanza approfondita. Lo sforzo che ancora va fatto è quello di “prendere sul serio” questo pensiero, considerandolo non solo un episodio della filosofia o della storia drammatica del Novecento, quanto piuttosto un pensiero che ci interroga e ci suggerisce strade precise da percorrere oggi.

Nel corso del tempo, Weil legò se stessa all’esperienza della “sequela” cristiana, pur nel volontario distacco dalle forme istituzionali della religione, per fedeltà alla propria vocazione morale di presenziare fra gli esclusi.

Questa risoluzione potrebbe essere indicata come l’elemento chiave per la sua sete di giustizia?

Certamente sì. La vicinanza di Weil al cristianesimo è tutta nel segno della sua sete di giustizia, che passa dal mettersi dalla parte della debolezza. Era questo, d’altra parte, secondo Simone il segno della divinità del Cristo: non la sua potenza, non la sua resurrezione, ma il suo morire da innocente come se fosse un criminale. C’è un brano particolarmente significativo nel quale dice che il punto più alto della vita di Cristo è stato la sua morte in croce, quando si è sentito totalmente abbandonato dal Padre. Insomma, l’innocente che muore, che si sacrifica totalmente è la più chiara manifestazione della divinità, una manifestazione che non appartiene al solo cristianesimo ma a tutte le grandi tradizioni religiose, come Weil si sforza di dimostrare negli appunti dei suoi Cahiers.

La posizione etica fondamentale di Weil è di mettersi costantemente dalla parte degli oppressi.

Oggi, gli sventurati sono un’enormità. Quale idea di giustizia suggerisce Weil per restituire piena dignità a chi è vittima di equilibri ingiusti?

Quella weiliana è stata una posizione etica costantemente accompagnata da una coerente azione personale e politica. Da quando scandalizzava i dirigenti delle scuole in cui insegnava, perché uscendo si univa ai disoccupati, a quando scelse di partire per la guerra di Spagna, a quando cercò in tutti i modi di condividere le sorti di coloro che combattevano, non però imbracciando le armi ma cercando di costituire un corpo di infermiere di prima linea. L’idea di giustizia alla quale lei si richiama, e che ha elaborato in maniera estremamente affascinante, è quella della giustizia-carità, una giustizia che non coincide con la legge perché rifiuta totalmente di accompagnarsi alla forza e alla violenza. È una giustizia che ha come sua prima caratteristica la capacità di vedere l’altro, e che perciò rifiuta il simbolo della benda; e vedere l’altro vuol dire proprio vedere le vittime di equilibri ingiusti, vuol dire vedere gli sventurati di cui nessuno si occupa. Oggi, Simone Weil direbbe che l’opposizione tra legge e giustizia è del tutto evidente nel modo in cui trattiamo i migranti, nel modo in cui facciamo di tutto per non vedere la loro sofferenza e non ascoltare il loro grido soffocato dalle onde del mare in cui affogano. Questa idea di giustizia è impegnativa e scomoda, perché non può aspettare di essere realizzata dentro un tribunale ma chiama ciascuno a realizzarla qui ed ora, momento per momento, situazione per situazione.

Simone Weil nel 1936 scrive tre inviti alla lettura di altrettante tragedie sofoclee: Antigone, Elettra e Filottete. Questi testi possono essere interpretati quali opere paradigmatiche della resistenza all’oppressione esercitata dal potere?

Si tratta di interventi che Simone aveva fatto in un corso serale riservato agli operai. Questo è importante per capire il modo in cui lei operava. Non si trattava di fare operazioni culturali fine a se stesse, o comunque finalizzate a un arricchimento meramente culturale. Si trattava di fare educazione e azione politica, nonché riflessione etico-giuridica al tempo stesso. E di farlo facendo vedere la straordinaria attualità dei grandi classici, che hanno la capacità di parlare a tutti, in ogni tempo. Quelle figure sono tutte rappresentative di un modo di pensare la politica e il diritto radicalmente lontano da quello che Weil vedeva realizzato nella storia e nel suo tempo. Di fronte al dominio e alla cecità della forza, che aveva caratterizzato ogni epoca e che dominava in maniera travolgente gli anni in cui ella scriveva — un dominio che non lasciava alcuna illusione circa la sopravvivenza delle testimonianze di verità e purezza (penso alla civiltà catara, alla quale Simone dedicherà due bellissimi saggi) —, di fronte a questo dominio rimane la necessità di testimoniare una logica differente. La logica dell’attenzione verso gli sventurati (Elettra e Filottete), e la logica dell’amore soprannaturale come unica possibilità di sottrarsi alla forza (Antigone). Antigone, in particolare, non è l’eroina della resistenza al potere, rappresentante di una forza ‘buona’ che si contrappone a quella ‘cattiva’, ma è l’eroina dell’amore soprannaturale che rifiuta totalmente il discorso e la logica del potere. Non un potere che si vuole sostituire ad un altro potere, una forza che vuole vincere su un’altra forza: ciò che Weil legge nelle opere di Sofocle è piuttosto la debolezza che si contrappone alla forza, l’infinitamente piccolo che non rifiuta di combattere, ma lo fa portando avanti un’idea di ‘grandezza’ completamente diversa, una grandezza che si realizza nella compassione e nella cura di ciò che è debole, piuttosto che nel dominio e nella sottomissione.

Professore, qual è il nostro dovere rispetto al presente ed alla materialità?

Se teniamo presente quanto detto finora, direi che è quello di prendere sul serio le suggestioni e le indicazioni che Simone Weil ci ha lasciato, non solo sul piano dell’etica e delle scelte personali, ma anche su quello politico e istituzionale, ad esempio ragionando sul nesso tra consenso e giustizia, sul rapporto tra governanti e governati, sulla funzione del giudice che deve amministrare la giustizia, sulla pace e sulla guerra. In ognuno di questi ambiti, il nostro dovere è di far sì che si sviluppi e realizzi quella facoltà di attenzione che è alla base della giustizia. Se le nostre istituzioni e i nostri comportamenti sono centrati sulla negazione dell’altro; se addirittura organizziamo la nostra convivenza su regole e leggi che scientificamente escludono o impediscono di vedere la sventura, il nostro compito è esattamente quello che fu di Antigone: cercare di mettere all’opera uno sguardo capace di vedere e poi agire di conseguenza, mettendo il nostro io al servizio di coloro che hanno bisogno.

 

Tommaso Greco è professore ordinario di Filosofia del diritto nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, dove è anche direttore del Centro Interdipartimentale di Bioetica. Dirige la collana “Bobbiana” dell’editore Giappichelli e la rivista di storia della filosofia del diritto “Diacronìa”. Ha pubblicato Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale tra filosofia e politica (Donzelli 2000), La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil (Giappichelli 2006) e Diritto e legame sociale (Giappichelli 2012). Per Laterza è autore di La legge della fiducia. Alle radici del diritto (2021, Premio Nazionale Letterario Pisa 2022 per la saggistica) e Curare il mondo con Simone Weil.

Giuseppina Capone

Lo shiatsu, disciplina evolutiva

Definire lo shiatsu come una tecnica di “Massaggio orientale”, per dare alla parola un sapore esotico che attrae, in quanto suscita una curiosità dal fascino misterioso un po’ come tutto ciò che alla nostra cultura occidentale proviene dal lontano ed enigmatico oriente, significa togliere a quest’arte le radici che l’alimentano, i rami che dalla luce del sole si nutrono, i fiori che donano all’albero il frutto dell’energia che l’incessante scambio che avviene tra la terra ed il cielo.

Lo shiatsu è una disciplina evolutiva.

Lo shiatsu valorizza le risorse vitali delle persone coinvolte nella pratica, permettendone la migliore espressione secondo le potenzialità, i tempi, le modalità peculiari di ciascuno. La sua azione è rivolta a tutti, qualunque sia l’età, la condizione e lo stato di salute; esso stimola il naturale processo di “autoguarigione” ripristinando l’armonico fluire dell’energia lungo i meridiani (canali energetici) dell’organismo e favorendo in tal modo un miglioramento delle capacità psico-fisiche.

Lo shiatsu non è, quindi, soltanto massaggio per rilassare il corpo, rimuovere tensioni, sciogliere blocchi, ma diventa un processo unificante che coinvolge tutta la vita. E’ benessere fisico, è alimentazione, è filosofia, è meditazione, è spiritualità, è armonia, è un modo di vivere.

Lo shiatsu diventa veicolo per una profonda trasformazione personale.

Il nome shiatsu, che in giapponese, da cui origina, significa letteralmente  pressione con le dita (shi = dita; atsu=pressione), nasce più o meno all’inizio del secolo scorso, anche se le sue origini  vanno molto indietro nel tempo. Si tratta di una sintesi tra la teoria medica classica orientale, che risale alle origini dell’agopuntura, oltre 4000 anni fa, e la medicina popolare. La sua pratica si svolge mediante pressione effettuate dalle dita, dalle mani, dai gomiti e dalle ginocchia su particolari percorsi chiamati meridiani  sui quali si trovano 361  punti chiamarti tsubo che significa punti di trasporto in quanto sono deputati al passaggio interno esterno dell’energia.

Alessandra Federico

Un anno di fotografia con FOTOIT

Un unico numero raccoglie FOTOIT di dicembre 2023 e gennaio 2024. La rivista ufficiale della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche si apre con l’editoriale della direttrice Cristina Paglionico. Tante le novità e le iniziative editoriali presentate nella rubrica Periscopio che evidenzia anche le attività delle Gallerie FIAF.

Sfogliando le pagine Fulvio Merlak presenta i 20 anni di Portfolio Italia, Vincenzo Gerbasi l’opera vincitrice di Portfolio Jonico –Corigliano-Rossano con il portfolio di Massimo Napoli dal titolo “Omotesando”, e ancora Umberto Verdoliva che presenta il portfolio secondo classificato dal titolo “Verde memoria” di Fabiomassimo Antenozio e Mariateresa Cerretelli che illustra il secondo classificato ex-aequo dal titolo “Taranto non vuole morire” realizzato dal Maria Pansini. Spazio agli autori con Gabriele Lopez e alle attività dei Circoli con il Gran Premio Circoli 2023. Per visti per voi l’esposizione “American Beauty da Robert Cap a Bansky” a cura del Centro Culturale Altinate- San Gaetano – Padova. Sempre per visti per voi protagonista Don McCullin al palazzo delle Esposizioni a Roma. Irene Vitrano introduce Storia di una fotografia proponendo “Anime salve” di Isabel Lima adel 1996. E ancora sempre spazio alla fotografia con “Maurizio Galimberti… e la Storia continua”, Enrico Maddalena, la rubrica singolarmente fotografia che ospita singole fotografie di vari autori, il Gruppo Fotografico Freecamera, la lezione di stereoscopia, i concorsi banditi.

Antonio Desideri

Passeggiata di Natale al Centro Antico di Napoli, la Basilica di Santa Chiara e la Chiesa del Gesù Nuovo

Proseguiamo la nostra passeggiata (n.d.r. iniziata il 27 dicembre) nel Centro Antico di Napoli. Percorso l’ultimo tratto di via Benedetto Croce arriviamo ad un incrocio  dove a sinistra troviamo via Santa Chiara che costeggia le mura dell’Antica Chiesa dedicata alla Santa mentre sulla destra inizia l’antica Via di San Sebastiano, fino a qualche tempo fa conosciuta come la strada della musica per la presenza di numerosi negozi  ed artigiani di strumenti musicali.

Pochi passi ancora per via B. Croce e sulla sinistra notiamo l’ingresso  dell’imponente Basilica di Santa Chiara la cui costruzione risale all’anno 1310 per volontà del re Roberto d’Angiò e della sua seconda moglie Sancia di Maiorca.

La Basilica è la più grande  tra quelle in stile gotico-angioino esistenti nella città di Napoli ed  collegata al  monastero delle monache caratterizzato da ben quattro  chiostri  monumentali, da scavi archeologici e numerose sale arricchito da affreschi di Giotto.

Entriamo all’interno  della Basilica che si presenta  a navata unica  con dieci cappelle   per lato. Al centro della navata la tomba di Roberto d’Angiò mentre sul suo lato destro le tombe di Carlo di Calabria e di Maria di Valois realizzato dal Maestro Tino di Camaino mentre sul lato sinistro  si trova quella di Maria Durazzo.

La Basilica accoglie nell’ultima cappella sulla destra le spoglie della famiglia dei Borbone.

Usciamo dalla Basilica e di fronte a noi  si apre piazza del Gesù Nuovo con la guglia  del 1747  e l’omonima Chiesa, ricavata  dal Palazzo S. Severino edificato nel 1410 da Novello di S. Lucano. Il nobile casato fu costretto all’esilio in seguito ad una rivolta fallita contro il re Ferdinando I d’Aragona i beni furono confiscati alla famiglia e venduti  alla Compagnia di Gesù che vi fece costruire tra l’anno 1584  ed il 1601 la  Basilica dedicata alla Madonna Immacolata e chiamata del Gesù Nuovo.

Una recente scoperta dovuta agli studi dello storico Vincenzo De Pasquale, ha portato alla conoscenza dell’esistenza di note musicali incise su alcune pietre del bugnato. L’attento studioso, appassionato del rinascimento napoletano e   musicologo attento   è riuscito a decifrare l’enigma  dei simbolo occulti presenti sulle bugne che si tratterebbe  di uno spartito musicale  scritto all’inverso in aramaico.

Alla sobrietà dell’esterno contrasta  con un interno  barocco, riccamente decorato, con una pavimentazione ricca di marmi policromi, colonne ed altari.

Le pareti sono coperte di affreschi  di importanti artisti non solo napoletani mentre nelle  cappelle  si possono ammirare  sculture realizzati da artisti quali il Fanzago, e di Jusepe de Ribeira.

Tra le dieci cappelle troviamo la Cappella della Visitazione  che ospita il reliquiario  con i resti di San Giuseppe Moscati, medico dei poveri verso il quale i napoletani  nutrono una  profonda venerazione.

Usciamo dalla Basilica e tutt’intorno notiamo i Palazzi Pandola, Pignatelli di  Monteleone e Morisani, anch’essi del 500, che iniziano la Via della Trinità Maggiore.

La nostra passeggiata alla scoperta dell’arte storia e magia del Centro storico  di Napoli conclude, al momento, tanto ancora c’è da scoprire e da approfondire.

Alessandra Federico

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