Percorsi alla scoperta della musica con il M° Rosario Ruggiero alla FoCS

L’Associazione Culturale “Napoli è” in collaborazione con il Centro Studi “Mario Borrelli” della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus, presieduta dal prof. Antonio Lanzaro, da anni ormai  promuove l’iniziativa dal titolo “Percorsi alla scoperta della Musica”.

Appuntamento domani giovedì 3 novembre ore 17.30 presso la Fondazione Casa dello Scugnizzo,  piazzetta San Gennaro a Materdei n. 3, Napoli per il primo degli incontri di questa nuova edizione organizzata dall’Associazione Culturale “Napoli è” nata nel 1994 e attiva in vari settori della cultura non solo a livello locale. Poesia, letteratura, fotografia, musica, storia, arte e architettura, pari opportunità e tutela delle differenze di genere, recupero delle tradizioni con “Rivive la Napoli dei Sedili. Il Palio dei Sedili” che ha compiuto quest’anno i 25 anni dall’ideazione, sono i principali impegni che la vedono protagonista.

“La musica è un linguaggio universale in grado di coinvolgere e affascinare persone di differenti lingue e culture, senza distinzioni sociali o di età, di superare le barriere della comunicazione, di creare legami oltre le frontiere, di creare atmosfere e stemperare tensioni – evidenzia la giornalista Bianca Desideri che cura l’organizzazione dell’iniziativa”.

A volte, però, le persone utilizzano termini musicali senza conoscerne l’autentico significato (armonia, ritmo, sincope, canzone, sinfonia, ecc.).

“Gli incontri con il pianista e valente concertista Rosario Ruggiero – prosegue Bianca Desideri – si propongono di rendere fruibili anche ai non esperti termini, curiosità, elementi della storia della musica, spaziando nel tempo e nei vari generi musicali, spiegandoli e facendo scoprire i loro autori, da Bach ad Haydn, Mozart, Beethoven, Chopin, Brahms fino a Rachmaninoff, Debussy, Kachaturian e più”.

Il prossimo incontro è previsto per il 15 dicembre alle ore 17.30.

Per informazioni sul seminario: 3478139937 oppure e-mail associazionenapolie@libero.it. 

 

I grandi romanzi di avventura in edicola

Accompagneranno i lettori della collana ben 65 uscite di grandi romanzi di avventura scritti tra il XIX e il XX secolo, diventate vere e proprie pubblicazioni di pregio editoriale grazie alla presenza di tavole realizzate da grandi maestri dell’illustrazione.

La collana di Hachette, presente in edicola, raccoglie, nelle pagine dei volumi scelti a comporla, incisioni di grandi artisti, tra i quali Bayard, Meryon, Vierge, Morin, Roux o Finnemore.

La tecnica dell’incisione rappresentò, nel periodo del Romanticismo, un vero e proprio genere artistico riuscendo a rendere evidenti e narrare, come è possibile vedere nelle illustrazioni dei libri, emozioni e paure dei protagonisti della narrazione.

Abbiamo scelto di presentare la collana con il primo “capolavoro” illustrato  uscito lo scorso agosto: “L’Isola del Tesoro” di Robert Luis Stevenson, autore che ha lasciato ai posteri opere di grande fascino e successo, come appunto “L’isola del tesoro”, “La freccia nera” e “Lo strano caso del Dottor Jekyll e del signor Hyde”.

La narrazione della ricerca del tesoro ha appassionato generazioni di adulti e ragazzi che hanno letto la storia del misterioso marinaio con una gamba di legno che si rifugia nella locanda “Ammiraglio Benbow” e che è in possesso di una mappa di un tesoro rubato, sepolto in un’isola deserta. Proprio di questa mappa verrà in possesso il giovane Jim Hawkins e da quel momento sarà un susseguirsi di eventi e avventure.

Antonio Desideri

The passenger: a Napoli la mostra dedicata a David Bowie

“The passenger” si intitola la mostra dedicata a David Bowie e, questa volta, dopo Milano sarà Napoli ad ospitare le opere che raccontano la carriera cinematografica della star. Ad organizzare questo evento, per ricordare dopo sei anni dalla sua scomparsa l’amatissimo cantante, attore e musicista londinese, sono stati la società Navigare srl, Vittoria Mainoldi e Maurizio Guidoni di Ono Arte.

L’esposizione ha avuto inizio il 24 settembre 2022, in collaborazione con il Comune di Napoli e il PAN, e terminerà il 29 gennaio 2023. La location è stata selezionata accuratamente ed allestita esclusivamente per l’evento: si svolge all’interno di una sala del Palazzo delle Arti Napoli.

La mostra presenta 60 fotografie prodotte dallo storico fotografo Andrew Kent, con il quale il cantante aveva un forte legame di amicizia, e l’obiettivo è quello di  raccontare, attraverso la fotografia,  un fondamentale quanto esordiente periodo di vita della stella della musica rock: Bowie nel 1976 presenta l’album “Station to station” con 66 concerti in quattro mesi tra Usa, Europa e Canada. Il tour in Europa contava ben 25 tappe e, una volta divenuto un fotografo di fama mondiale Kent, durante ogni spettacolo ebbe il vantaggio di ottenere una posizione riservata esclusivamente a lui la cui veduta gli permise di elaborare un perfetto reportage di ogni concerto di Bowie. Per Kent si prospettava una vita movimentata e di successo dal momento in cui ebbe la grande occasione di seguire la star durante ogni viaggio: navi, hotel, treni, aerei e visitare luoghi incantevoli come Mosca, Berlino, Londra e tanti altri luoghi in compagnia del suo più caro amico. Kent è un noto e stimatissimo fotografo americano, non solo per aver realizzato molti scatti per Bowie, (che senza  dubbio sono i suoi lavori più considerevoli), ma anche per aver  lavorato per molte rock star degli Anni ‘70: Freddie Mercury, Iggy Pope Frank Zappa, Elton John, Jim Morrison, KISS. Considerato che il rapporto tra David e Andrew non era solo professionale ma i due erano legati da una profonda amicizia sincera, all’interno della mostra ci sono anche diverse fotografie che raccontano aneddoti di Bowie con Kent e, soprattutto, momenti speciali per la star come quello che ricorda il poster del film in cui interpretò un importante ruolo. Ancora, video, scatti di abiti originali che indossava durante i suoi concerti, le copertine delle riviste di quegli anni in cui era quasi sempre presente il volto della star. A proposito degli abiti originali di Bowie: il cantante, per il suo abbigliamento eccentrico (spesso si truccava da donna), diventò un’icona capace di abbattere gli stereotipi riguardo l’omosessualità e non solo, riuscì ad avvicinare più generazioni amanti della musica rock e, dunque,  pare proprio  che il suo intento fosse quello di seminare pace. Anche il messaggio che vuole mandare Kent allo spettatore attraverso le sue foto arriva forte e chiaro: una persona muore quando viene dimenticata e questo per David Bowie non accadrà mai.

Alessandra Federico

La Storia d’Italia per i piccoli

Un’avventura alla scoperta della storia d’Italia dai primi uomini che hanno abitato la nostra penisola al boom economico  attraverso la piacevole e interessante narrazione che ne fa il nonno  di Marco e Giulia, due bambini dei nostri tempi affascinati dai suoi racconti.

Un appassionante viaggio nel tempo alla scoperta di tante diverse epoche che portano al nostro presente. Una narrazione che fa conoscere, anche attraverso le ricche illustrazioni, storie, luoghi, eventi, protagonisti e il ruolo che hanno avuto.

40 uscite in edicola per la collana edita da EMSE Italia srl, la prossima, secondo il piano dell’opera, il 3 novembre con il volume dedicato all’impero romano e il successivo il 10 novembre dedicato a Pompei, Ercolano e al Vesuvio.

Antonio Desideri

Naples Fashion Week

Anche a Napoli ha visto finalmente il momento più amato per gli appassionati di moda: la Naples Fashion Week. Da giovedì 20 ottobre fino a sabato 22, un’emozionante ed appassionante sfilata di moda si è svolta nella città partenopea dove meravigliosi abiti, indossati da elegantissime modelle, sono stati presentati presso il Complesso di San Domenico Maggiore e fotografati sul Red Carpet addobbato per il grande evento.

A progettare l’evento è stata l’associazione NoiNo Polo Moda di Alessandro Di Laurenzio con la collaborazione di Bottega Ferrigno, Sorbillo Lievito Madre, NaFashion Magazine, TeleA e CapriEvent TV e Fashion Week MAG  magazine.

L’obiettivo di questa sfilata-evento moda, è stato quello di lanciare idee di outfit cercando di abbinare abiti semplici alla portata di tutti e adatti ad ogni tipo di circostanza e, difatti, allo show erano presenti diverse influencer di moda che, grazie alla loro notorietà nel mondo dei Social Network, erano pronte ed entusiaste di collaborare postando foto e video degli outfit.  Un altro fruttuoso intento è stato, con questo evento, quello di restituire alla città di Napoli il suo valore, la sua importanza che da troppi anni le era stata ingiustamente sottratta. Pare proprio che, negli ultimi tempi Napoli stia rifiorendo: si organizzeranno una serie di entusiasmanti eventi di moda e non solo; mostre, spettacoli e tanto altro. D’altro canto, tutti i  turisti  presenti sono rimasti piacevolmente incantati dalla accattivante atmosfera che si era creata, non solo per lo show e il clamore circostante, bensì per tutto lo scenario che la spettacolare città partenopea è riuscita a regalare anche stavolta.

 

“Questo evento è stato emozionante, non perché sia stata la prima fashion week a cui ho partecipato, ma perché è stata organizzata e realizzata a Napoli”

Marina è una ragazza di 26 anni napoletana ed è un’appassionata di moda. Ci racconta la sua esperienza alla Naples Fashion Week.

Marina, cosa in particolare ti ha colpito di questa sfilata?

Di certo i meravigliosi outfit che proponevano e anche l’obiettivo che gli organizzatori avevano per questo evento, che a mio parere risulta molto interessante e costruttivo perché è ora che Napoli torni a splendere. E gli sguardi del pubblico, prima di ogni cosa. Quelli dei napoletani e quelli di tutti i turisti che osservavano lo show e fotografando esclamavano: stupendo, stupendo come Napoli! Erano tutti affascinati dagli abiti ma soprattutto dalla bella Napoli che contribuisce, e non poco, a rendere tutto più magico.

Ti piace vivere a Napoli?

Come in tutti i posti nel mondo ci sono i pro e contro. Ma se c’è una cosa che posso affermare con fierezza della mia città è che Napoli è un teatro a cielo aperto.  Per me questa frase racchiude due cose: la bellezza estetica di Napoli e quella del suo popolo che collabora a renderla tale. Perché il calore dei cittadini con il loro entusiasmo, la musica, il profumo costante di buon cibo, il buon clima, l’arte dell’artigiano, e tanto altro fanno la storia di Napoli, una storia che ti racconta ogni angolo della città.

Studi moda oppure è solo una tua passione?

Sono una grande appassionata di moda ma non ho mai frequentato alcun corso, anche se in realtà è come se l’avessi studiata perché sono sempre informatissima su tutto ciò che riguardi il mondo del fashion. Studio per diventare Social Media Manager ma non escludo un giorno di frequentare l’accademia di fashion designer e chissà, le cose potrebbero anche andare di pari passo. Napoli, per quanto riguarda le facoltà di design e cucito, penso sia una delle città migliori, soprattutto per quanto riguarda la sartoria.

Dunque consiglieresti di studiare moda a Napoli?

Se si ha intenzione di diventare fashion design consiglio di studiare anche a Napoli ma poi emigrare verso Milano, che è sempre la capitale della moda, per quanto riguarda l’Italia. altrimenti direi Parigi o New York. Per quanto riguarda la sartoria, invece, Napoli offre anche di più, i migliori capi di artigianato sono da sempre quelli napoletani.

Alessandra Federico

Maschilismo: necessario un cambio di mentalità

La donna lotta da sempre per ottenere diritti alla pari di quelli degli uomini e, nonostante sia riuscita a conquistare alcuni diritti, non gode ugualmente di tutti quelli di cui  beneficia il genere maschile. Nei paesi orientali, ad esempio, la donna è ancora totalmente sottomessa all’uomo, (prima dal padre e poi dal marito). Nei paesi occidentali, invece, con la democrazia la donna può vivere in uno stato di libertà. Questa libertà, però, pare celarsi dietro ad una realtà fatta ancora di mentalità profondamente maschilista: al lavoro, ad esempio, le donne non ricevono lo stesso stipendio degli uomini. A quanto pare, tale mentalità, consiste sempre in una sorta di prevaricazione sulla donna, basta pensare che gli incarichi più importanti sono da sempre stati ricoperti dai maschi; le prime riviste di moda erano scritte da uomini con pseudonimi femminili per poter dettare leggi sull’abbigliamento e sull’aspetto estetico delle donne. Viene perfino considerata di facili costumi colei che decide di vivere relazioni non costanti, a differenza dell’uomo che, anche se sposato, al quale è sempre stata concessa completa libertà.

La donna viene tuttora considerata quasi un oggetto, viene ancora costretta a concentrarsi eccessivamente sul suo aspetto estetico e indotta a rassegnarsi che sia questo l’unico obiettivo da perseguire. Sembra, pertanto, che la donna debba ancora combattere per conquistare gli stessi diritti, lo stesso rispetto, e la stessa considerazione che ha l’uomo.

Ma cos’è che ostacola la fine della mentalità maschilista? Forse anche alcuni comportamenti a volte agiti dalle donne possono favorire la persistenza di questa scorretta mentalità. Sembra che a volte la donna stessa, un minoranza, esiga ancora che ci siano ruoli da rispettare, soprattutto nel momento in cui pretende che sia sempre l’uomo, in qualsiasi occasione, quello che deve pagare. D’altronde, questo potrebbe essere uno dei motivi che autorizza l’uomo ad avere sempre il dominio sulla donna e a convincersi che chi ha i soldi possiede anche il potere. Ma non solo, a volte la donna dimostra di sottomettersi ad un uomo anche quando cerca continue approvazioni da parte sua (quando si sottopone addirittura a chirurgie plastiche pur di compiacere loro) sottovalutando che, in questo modo, non diventa  altro che un burattino nelle sue mani. Ragion per cui, se la donna vuole ottenere ogni diritto alla pari di quello di un uomo, deve continuare a combattere per i propri diritti e per un cambio complessivo di mentalità di entrambi i sessi.

“Ho trascorso gran parte della mia vita credendo che ciò che mi diceva mio padre fosse la verità assoluta. Ora credo sia arrivato il momento di ragionare con la mia testa perché una donna maschilista non può che essere deleteria per una società ancora retrograda. Bisogna completamente rinnovare la propria struttura mentale, le proprie consuetudini di pensiero, le proprie abitudini, le tradizioni, la cultura.”

Marisa, donna di trentaquattro anni, racconta la sua storia e come ha lottato per ribellarsi alla mentalità maschilista.

Marisa, cos’è che ti ha insegnato tuo padre?

Sin da quando ero molto piccola amavo studiare, leggere ed acculturarmi. Mio padre, invece, pensava che sarebbe stato inutile perché diceva che quello che soddisfa una donna è trovare un buon marito (un buon partito). Mi sono quindi sposata all’età di ventitre anni, naturalmente con un uomo benestante. Il mio coniuge si chiama Franco ed è un architetto. Mio padre, con tanta prepotenza, mi ha imposto (più che insegnato) ad avere una mentalità maschilista come la sua. Dunque, per anni e anni, mi sono convinta che tutto ciò di cui io avessi bisogno è di un uomo accanto che si prendesse cura di me.

Tu volevi lavorare?

Il mio sogno era quello di diventare medico pediatra. Sono però cresciuta con il pensiero che un uomo doveva fare tutto al mio posto e quindi anche pagare ogni volta che uscivamo a cena, quindi anche guidare la macchina e tanto altro. Mi sono resa conto, ad un certo punto, che la prima ad avere una mentalità maschilista ero proprio io, conseguenza di tutto ciò che mi aveva inculcato mio padre.

Cosa hai fatto per ribellarti?

Ho detto a mio marito che voglio studiare e lavorare e così sto facendo: un paio di sere a settimana lavoro in un pub (giusto per essere indipendente su alcune cose, anche se gli studi me li paga lui per adesso) e di mattina seguo i corsi all’università. Sono rinata. Abbiamo anche tre splendidi bambini io e Franco: Damiano, Massimiliano e Penelope.

Come l’ha presa tuo marito al riguardo?

Non benissimo ma non può impedirmelo. Mi ha ribadito che inizialmente i patti erano altri: lui avrebbe lavorato e io badato ai bambini. Ma io non ero felice, nonostante i miei figli siano stati la gioia più grande della mia vita, sento il bisogno di sentirmi appagata, fiera di me, come donna e poi come mamma, soprattutto per poter crescere i miei figli nel modo migliore possibile e potergli dare amore, senza rimpianti personali. Ma Franco, purtroppo, è quel tipo di uomo che si spaventa al pensiero che la moglie potrebbe diventare una donna in carriera, o peggio ancora guadagnare più soldi di lui. Per me deve farci l’abitudine, perché potrebbe accadere.

Riuscite a seguire i vostri figli così?

Certamente, per me una cosa non esclude l’altra; posso riuscire a concretizzare i miei sogni ed essere una mamma presente e amorevole. Mentre i piccoli sono a scuola io seguo i corsi all’università. Nel pomeriggio, invece, mentre loro eseguono i compiti io studio per gli esami, e nel tempo libero facciamo tante attività  insieme. E poi per fortuna c’è Lara, una meravigliosa donna che ci aiuta con le faccende domestiche. Quando le due sere a settimana lavoro, Franco si occupa dei bambini, è giusto così. Penso che tutte le donne abbiano il diritto di fare quello che desiderano, di sentirsi libere di essere. Oramai, al giorno d’oggi, per alcune è stato più facile raggiungere i propri obiettivi, ma posso confermare con certezza che non per tutte è così, almeno non lo è per chi nasce in una famiglia all’antica che ti annulla la personalità. In una famiglia in cui ti convincono che da sola non puoi farcela, e invece fuori c’è un mondo che ti aspetta e tutte noi donne dobbiamo essere pronte a conquistarlo.

Alessandra Federico

 

 

 

 

Lucrezia: desiderio di futuro nella Roma antica

È il febbraio del 509 a.C., una sera fatale in un’Urbe soffocata dalla sopraffazione politica. Governano i Tarquini, imprimendo un pesante dispotismo tirannico ed un notevole segno assolutistico. Il potere non è più trasmesso per elezione popolare bensì per via ereditaria. Le vie romane hanno già visto Tarquinio Prisco celebrare un trionfo vestito con una toga ricamata d’oro ed una tunica palmata, ovvero con tutte le decorazioni e le insegne per cui risplende l’autorità del comando assoluto.  Lucrezia, moglie di Collatino, matrona pacata, laboriosa, fedele, si trova a casa propria: accoglie Sesto Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo; viene stuprata; dopo poco si suicida. L’episodio è arcinoto con modiche e collaterali varianti. “Gara delle mogli” durante l’assedio di Ardea, o incontro casuale fra i giovani della famiglia reale e la moglie di Collatino? Richiesta d’accoglienza da parte di Sesto Tarquinio, in nome della parentela con lo stesso Collatino o congegna d’una fuorviante e falsa epistola in cui quest’ultimo chiede alla consorte di porgere ospitalità per la notte? Lucrezia chiama a sé, convocandoli a Collazia, il padre ed il marito o si reca lei stessa a Roma per esporre il vituperio di cui è stata vittima? Bruto, il futuro eversore della monarchia, è presente mentre Lucrezia si toglie la vita o sopraggiunge successivamente?

Non importa: quell’abuso scatena una sequenza di eventi che sfocia nel giro di pochi giorni alla rivolta popolare destinata a decretare la fine del regime monarchico ed alla cacciata dei Tarquini. Una storia di vibrante passione: vita e morte di Lucrezia. Eroina mitizzata dal fluire fantasioso del tempo. Icona lanifica, casta, pia, frux, domiseda.

L’evento è indubbiamente coinvolgente e pregno di stimoli alla riflessione. Mediante Lucrezia si può scrutare un affresco sociale estremamente affascinante e sicuramente illuminante per i molteplici riverberi che produce sulla storia delle istituzioni così come sulle attuali questioni di genere.

Tatuata da una cicatrice indelebile non cincischia in lagnanze e decide per sé, determina il suo avvenire. Vessillo di pudicitia, ripresa mentre tesse la lana con le sue ancelle, mentre le nuore del re si divertono in banchetti ed orge, sferra il colpo mortale ai Tarquini.

Afferrando il coltello e piantandoselo nel cuore, uccide se stessa e partorisce la Repubblica. Lucrezia mi piace assai: pone e dispone della propria esistenza. Mette al centro d’un fatto privato il suo corpo e lo usa per sovvertire le forze politiche in campo. È la prima onda di una marea: la sua mano é legata al divenire, il suo petto ammicca ad un futuro ancora da dipanare.

Lucrezia, irreprensibile matrona, dedita alla cura domestica, dona pace e spinge alla battaglia; è casta e si concede eternamente; terrorizza ed ammalia; fertilizza e sterilizza. Ogni suo aspetto possiede una funzione politico-sociale trasformatrice. Scandisce la lotta per il rinnovamento. Volge uno sguardo sistemico. Possiede una mentalità affatto fossile. Abbatte con fiera determinazione gabbie concettuali ancestrali. Mobilita la massa, scuote l’opinione pubblica e muta il corso della storia di Roma. Decostruisce l’idea di “donna” come categoria ontologica e la intende, invece, come “costrutto sociale”.

Qual è la lezione di Lucrezia? Reagire alle posizioni identitarie. Cura, appeal erotico, docilità? Non semplifichiamo!

“Lucrezia chiudi la bocca! Sono Sesto Tarquinio e ho una spada in mano. Una sola parola e sei morta!” scrive Livio. E Lucrezia ai suoi cari “Da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l’esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!”

Affrancata da gioghi vetusti e da costrizioni culturali, braccio armato nella lotta di liberazione, Lucrezia sa di non essere una monade: il suo personale è politico. Eh, no: la donna perfetta non è quella morta. Lucrezia desidera il futuro.

Giuseppina Capone

Isabella Bignozzi: Il segreto di Ippocrate

Ippocrate, autore del celebre giuramento e padre della medicina occidentale: perché ha scelto di srotolare i fili della vita del maestro di Kōs?

Ho svolto per molti anni la professione odontoiatrica, ho avuta una lunga frequentazione universitaria e ospedaliera, e un mio studio privato per lungo tempo. Nei miei anni di attività clinica ho avuto la fortuna di avere molte soddisfazioni e innumerevoli difficoltà, incontri più o meno positivi, riflessioni accorate sul mio lavoro. Ho attraversato a un certo punto della mia attività un momento difficile e confuso, non ero serena con la realtà che mi circondava, e trovavo che alcune situazioni cui il mio lavoro in quel momento mi induceva non fossero in sintonia con le mie pulsioni più profonde. Il nome di Ippocrate a volte riecheggiava nei miei pensieri, lo vivevo come un simbolo etico, avendo conosciuto le sue parole alte nel giuramento che ogni medico fa a inizio carriera; era dunque per me una specie di padre spirituale.

È stato allora che ho trovato le opere di arte medica di Ippocrate disponibili nel web, in particolare il Corpus Hippocraticum, compendio di tutte le opere attribuite a Ippocrate (a torto o a ragione) e raccolte da Émile Littré in: Hippocrate. Oeuvres Completes, Jean-Baptiste Baillière, 1839. All’inizio non avevo alcuna intenzione di scrittura, mi guidava solo la curiosità, e un’esigenza di ascolto, di pura lettura e meditazione. Cercavo forse conforto, e alcune risposte.

Dunque ho letto per esteso i suoi scritti e ho sviluppato, nei mesi, una strana amicizia a distanza con questo sapiente vissuto tanti secoli prima di me. Ho trovato sia il conforto sia le risposte che cercavo e in più l’ho sentito vicino, come se lo conoscessi personalmente. Volevo a quel punto cercare di trasmettere questa sensazione di protezione e di saggezza a chiunque altro ne sentisse la necessità. Per questo ho voluto dargli un volto, delle vicende, dei pensieri. È venuto tutto in modo molto naturale.

Va detto che i suoi trattati sono per la maggior parte di natura molto tecnica: parlano di febbri, di epidemie, di umori; di pozioni, unguenti, suffumigi; di antichi anestetici e manovre chirurgiche. Sono anche frammentari, spesso, e sibillini, per il gran numero di secoli che intercorrono tra noi e l’età greca classica durante la quale sono stati redatti.

Ma sentivo in essi una voce di fondo, riflessiva, attenta al paziente, rispettosa. Una voce che mi ha confortato e, infine, conquistato. Nel rispetto di un’ampia documentazione storica da me consultata, ma facendo uso – laddove possibile e necessario per mancanza di informazioni – della mia immaginazione, nel corso di circa un anno è nato il romanzo.

Ippocrate sfiora eventi storici grandiosi, penso alla politica periclea ed al conflitto peloponnesiaco: in che misura la Grecia del V sec. a.C. tange la sua narrazione?

L’età classica è un’epoca che mi è rimasta nel cuore fin dal liceo. La Grecia e Atene in quel momento storico rappresentavano il cuore della cultura occidentale. Ne ho sempre immaginato l’atmosfera, i mercati, i templi; i teatri, l’agorà. Il desiderio di partecipazione politica dei cittadini, di disquisizione filosofica, di condivisione delle conoscenze.

La bellezza era ovunque: l’architettura e le arti animavano le poleis; il Partenone era in costruzione sull’acropoli, un tempio inondato di luce; e poi il Pireo, le Lunghe Mura; e infine, il senso di pace: Atene e Sparta proprio allora avevano stipulato un trattato che auspicava trent’anni di non belligeranza e prosperità tra la Lega Delio-Attica e la Lega Peloponnesiaca.

Ippocrate da ragazzo ebbe modo di vedere la polis nel suo massimo splendore: vi era cultura, indagine, speculazione. Anche nelle zone più periferiche della civiltà ellenica vi era grande fermento culturale. Penso alle scuole filosofiche della Magna Grecia, ad esempio. Gli studiosi di quell’epoca osservavano la natura e il mondo animale, facevano congetture sull’essenza dell’universo, ma anche sulle malattie degli uomini. Alcmeone e Democede di Crotone, Empedocle e Acrone di Agrigento furono tra questi. Senza dimenticare Democrito, Parmenide di Elea, Zenone; la scuola Pitagorica tutta. Gli studiosi di Crotone e Agrigento dissezionavano gli animali, mentre i filosofi inserivano nelle nozioni mediche le loro ipotesi sugli elementi primordiali dell’universo: l’acqua, l’aria, il fuoco e la terra servivano a spiegare la composizione dei corpi così come quella del mondo.

È in questa temperie che si sviluppa la medicina di Ippocrate. Le vecchie cosmologie iniziavano a dare stimolo allo studio empirico dei fatti, a un atteggiamento che potremmo definire proto-scientifico.

È vero che Ippocrate ha vissuto la sua giovinezza agli antipodi di questa parte del mondo greco, e ha risentito soprattutto degli stimoli culturali della propria regione geografica, quella orientale: fu influenzato dalla scuola medica di Cnido, ad esempio, dove vi era un Asklepieion di grande tradizione, e queste furono le sue conoscenze iniziali, se pur reinterpretate e integrate in relazione alle pratiche della scuola di Kos, cui lui propriamente apparteneva; ma è vero anche che in un secondo momento della sua vita, Ippocrate iniziò a viaggiare. Dalle fonti è molto chiaro che fu un medico cosmopolita, se così si può dire, per i suoi tempi. Le basi della sua scienza erano profondamente correlate alla medicina egizia e medio-orientale, da cui ha traslato molte conoscenze; è ben noto che in età matura fosse divenuto un viaggiatore instancabile, e che fosse spesso ad Atene, in Magna Grecia, in Tracia, in Egitto. Viaggiò, curò gli infermi, insegnò e apprese in tutte le terre conosciute del bacino del mediterraneo; visitò regioni allora inospitali, come la Scizia, la Libia, le regioni interne all’Asia Minore. Dunque la sua cultura medico-scientifica era variegata, e frutto di numerosi contatti avuti anche ai margini o al di fuori del mondo greco.

Gli episodi storici di quel periodo sono molteplici, in quanto esso fu denso di avvenimenti e ricco di storiografi accurati, di cui conserviamo le cronache. Basti pensare a Erodoto e, meno fantasiosi e più essenziali, Tucidide e Senofonte.

Nel mio romanzo ho cercato di trasfondere molto di tutto ciò; il mio Ippocrate cresce nella sua piccola isola, apprendendo dal padre. Ma poi viaggia a lungo, incontra grandi personalità, ne assorbe i precetti e le riflessioni. La sua vita procede tra conquiste e grandi delusioni, come accade per ognuno di noi. Dalla sofferenza di alcuni eventi tragici forgerà la sua tenacia, il suo equilibrio, le sue incredibili capacità. Dal punto di vista della cornice storica, ho inserito molto di quell’epoca, sia come riferimenti alla situazione politica, sia a quella culturale; inoltre ho voluto introdurre anche un piccolo divertissement, un viaggio che Ippocrate ho immaginato abbia fatto al seguito dei Diecimila di Ciro. Questo episodio, di pura fantasia (benché nulla provi né vieti, per la coincidenza di tempi e luoghi), mi è stato funzionale per descrivere una svolta di pensiero cui il mio Ippocrate va incontro, in tarda età, smantellando l’ultimo pregiudizio che gli aveva impedito, fino ad allora, di realizzarsi appieno e divenire compiutamente sé stesso, come uomo e come medico.

Dunque nella narrazione ho evocato numerosi avvenimenti e circostanze dell’epoca, creando – questa è la mia speranza – un’ambientazione storica e filosofica il più possibile ricca e veritiera. Tutto questo però, ci tengo molto a dirlo, senza tediare il lettore con particolari nozionistici, bensì facendo sì che la temperie culturale, i fatti politici, l’architettura e la natura, gli eventi storici entrino come arabeschi a cornice di una favola.

Quali sono i testi che ha letto e consultato per redigere il suo romanzo?

La fonte principale che ho usato è il già citato Corpus Hippocraticum; in realtà, soltanto alcuni degli scritti in esso inclusi sono da ritenersi più certamente suoi, e su questi ho fatto una consultazione più serrata, basandovi l’intelaiatura filosofica del romanzo: Sull’antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il prognostico, Gli aforismi, Sul regime delle malattie acute, alcuni scritti di ortopedia (che trattano la riduzione delle fratture, delle lussazioni, la terapia delle ferite della testa), Il Giuramento.

Nella parte introduttiva di tale raccolta del Littré si tratta a lungo anche della vita di Ippocrate, delle sue teorie e dei suoi maestri, riportando in modo critico le informazioni a suo riguardo che ci vengono fornite dalle tre biografie esistenti: quella di Sorano di Efeso, risalente al II secolo d.C.; quella contenuta nella Suda, un’enciclopedia storica del X secolo d.C. scritta in greco bizantino e riguardante il mondo antico del bacino del mediterraneo; quella di Giovanni Tzetzes, un filologo bizantino vissuto nel XII secolo d.C.. Questi storici pongono le loro fonti in autori ancora precedenti: Eratostene, Ferecide, Apollodoro, Ario di Tarso, Sorano di Kos, Istomaco e Andreas.

Per la ricostruzione geografica e storica mi sono aiutata con i seguenti testi i quali, benché successivi, mi hanno dato un’idea abbastanza fedele della natura e delle vicende del periodo storico di cui dovevo narrare:

la Biblioteca storica di Diodoro Siculo (frammenti, I sec a.C.)

la Periegesi della Grecia di Pausania (II sec d.C.)

la Geografia di Strabone (14-23 d.C.)

Inoltre ho attinto informazioni da alcuni testi classici e intramontabili, ricchissimi di dettagli e di episodi, più o meno veritieri, che mi hanno aiutata a entrare pienamente nello spirito dell’epoca:

Esiodo: Le opere e i giorni

Erodoto: Le storie

Tucidide: La guerra del Peloponneso

Senofonte: Anabasi

Infine, vi è una parte finale del libro in cui Ippocrate giungerà in Egitto, in visita a un collega e maestro, un sacerdote di Sekhmet che dirige la Casa della vita di Memphis. Tutte le nozioni di medicina egizia cui si fa riferimento in questa parte e anche altrove le ho tratte dai Papiri di Smith e di Ebers.

In particolare ho consultato il testo integrale del papiro Edwin Smith, che ho trovato disponibile per intero, traslitterato e tradotto in inglese, ad opera della University of Chicago Oriental Institute Publication. Si tratta di un testo scritto in ieratico, datato al 1650 a.C., ma secondo alcuni storici trascritto e rielaborato da un documento più antico, risalente al 2500-3000 a.C., che sarebbe addirittura opera del leggendario Imhotep; tale papiro è di contenuto principalmente chirurgico, e le informazioni in esso contenute, davvero sorprendenti, includono l’esame obiettivo, la diagnosi, il trattamento e la prognosi di numerose patologie (ferite della testa e del massiccio facciale; fratture cervicali, vertebrali, clavicolari, omerali; lussazioni articolari; tumori al seno), con speciale interesse per diverse tecniche operative e descrizioni anatomiche, ottenute anche nel corso dei processi di imbalsamazione e mummificazione dei cadaveri.

Ho letto inoltre su alcuni testi di medicina egizia numerosi frammenti tratti dal Papiro di Ebers (datato al 1550 a.C.), uno scritto immenso: basti pensare che l’originale misura più di 20 metri di lunghezza e trenta centimetri di larghezza e contiene 877 commi che descrivono numerose malattie in vari campi della medicina come l’oftalmologia, la ginecologia, la gastroenterologia, e le loro corrispondenti prescrizioni. Questo papiro include la prima relazione scritta sui tumori.

Lei è un medico ed una scrittrice: quale riflessione può offrirci circa il nesso tra cultura umanistica e cultura scientifica?

Sia la parola medico sia la parola scrittore sono definizioni troppo grandi per me. In ogni caso, ho sempre avuto grande amore per la medicina e la scienza, ma anche per la letteratura in ogni sua forma, e in modo precipuo per la filosofia. Quest’ultima disciplina, di carattere eminentemente speculativo per definizione, penso sia l’ambito che più compiutamente esprime il nesso tra i due versanti del pensiero umano: le discipline cosiddette umanistiche e quelle scientifiche.

Nell’antichità questi due regni erano molto più vicini tra loro. Ai tempi di Ippocrate – e così per lunghi secoli, fino a tutto il medioevo – lo stesso studioso era spesso medico, filosofo, poeta; a volte pittore, narratore, musicista. I numerosi Perí Physeos (Sulla natura) dei filosofi naturalisti presocratici erano opere che cercavano di cogliere l’essenza dell’universo, del mondo vegetale e animale, del corpo umano e delle sue malattie; l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco erano i quattro elementi primordiali che servivano a spiegare la composizione dei corpi così come quella del mondo; opere eminentemente proto-scientifiche, che però erano scritte spesso in versi, avevano un’attitudine lirica dichiarata, a dimostrazione del sacro e del poetico che pervade l’esistenza di ogni essere vivente.

Leonardo da Vinci viene spesso citato per la sua genialità onnicomprensiva e circonferenziale (era inventore, ingegnere, esperto di anatomia ma anche scrittore e pittore) ma il suo non è un caso isolato. Le attitudini speculativa e creativa nell’antichità si mischiavano, traevano forza l’una dall’altra.

Poi è accaduto qualcosa, in particolare a partire dall’illuminismo e a seguire con la rivoluzione industriale e l’avvento della tecnologia, che ci ha abituati a pensare che la scienza e le materie umanistiche siano universi lontani, e che presuppongano atteggiamenti di pensiero opposti, tra loro inconciliabili. Il metodo scientifico proposto per primo da Galileo nel sedicesimo secolo introdusse la sperimentazione e il risultato ripetibile come unici elementi adatti a convalidare o confutare l’ipotesi dello scienziato, senza che nessuna sua opinione o pregiudizio potessero andarne a contaminare i risultati. E questo è senz’altro giusto e desiderabile, ma non esclude che lo scienziato possa far tesoro delle sue conoscenze e spingersi oltre, in altro ambito. Lo scienziato è tale solo se ha solide conoscenze acquisite, ma questa è condizione necessaria e non sufficiente per attuare nuove scoperte, per le quali serve un atto artistico d’intuizione. Albert Einstein ha saputo immaginare, quasi sognare dimensioni diverse spazio-temporali, prima di cercare le formule matematiche per dimostrarne la possibile esistenza. E così Stephen Hawking nelle sue teorie cosmologiche.

Il pregiudizio colpisce allo stesso modo le discipline umanistiche, e si pensa che per poter essere narratore o poeta basti la fantasia, o una presunta attitudine artistica o sensibilità specifica, allestita con qualche improvvisata nozione di espressione verbale che possa stupire il lettore. Ma questa, secondo la mia personale opinione chiaramente, trovo sia una grande bugia. Nelle discipline umanistiche la base dell’evolversi del letterato o del poeta risiede nell’applicazione, nella lettura, nella meditazione profonda di ciò che già è stato scritto e pensato; solo così un autore può ambire a dare a chi legge un messaggio ancora degno di questo nome. Non esiste creazione senza istruzione, senza familiarità intensa e affettuosa con i letterati e i poeti che ancora risuonano nell’aria; e, a saperla ascoltare, l’aria risuona di molte grida. Allo stesso modo in cui non esiste scoperta basata sul solo arido studio, senza essere benedetti dalla meraviglia dell’intuizione.

Anche per chi si avvicina come fruitore al prodotto culturale – sia esso letterario, filosofico, o scientifico – la condizione principe è quella dell’accoglienza: essere pronti a una frequentazione intima, prolungata, a un’intensa contemplazione dei contenuti, finché non si senta quello sgomento che si prova di fronte all’opera d’arte: sia essa la perfezione di una fuga di Bach o l’immagine delle interconnessioni tra masse stellari (che appaiono incredibilmente simili a quelle neuronali); sia essa un’immagine endocellulare presa al microscopio elettronico, o il verso di un poeta che scandagli i recessi dell’animo umano.

Ogni musicista è un grande matematico; ogni poeta frequenta quotidianamente l’infinito e l’eterno, ogni medico o biologo conosce il pulsare del miracolo della vita. È necessario poter essere pronti alla fatica, a un’intima ascesi, allo spavento della comprensione, prima di essere illuminati dall’intuizione.

Qual è il messaggio etico ippocrateo?

Ippocrate ha avuto molti meriti, primo tra tutti quello di essersi distaccato da una visione sacerdotale della medicina, e di aver dato origine alla scienza medica razionale dei popoli d’occidente; di aver perseguito la speculazione guidata dall’osservazione, dallo studio, dal ragionamento, di aver messo da parte rituali e superstizioni, di aver posto le basi di un seppure rudimentale metodo scientifico; di aver elaborato la teoria degli umori, della salute come equilibrio, della forza rigeneratrice della natura come prima alleata del terapeuta.

Entrando nello specifico dei suoi scritti, sicuramente le nozioni che ci ha trasmesso riguardo l’ortopedia, la riduzione delle fratture, la risoluzione delle lussazioni articolari hanno rivestito grande importanza per i medici che sono venuti dopo di lui; assolutamente innovativa inoltre la sua abitudine di tenere quello che ora definiremmo un diario clinico dove appuntava anamnesi, segni e sintomi alla prima visita, terapie somministrate, osservazioni nei giorni delle successive visite, che svolgeva con attenta sollecitudine; è così che nasce il primo abbozzo di cartella clinica, che è ancora oggi lo strumento base di osservazione e monitoraggio del paziente, di formulazione di diagnosi integrate, di monitoraggi puntuali dell’andamento terapeutico, di prognosi ragionate, di raccolta dati a scopo statistico e di ricerca.

Ippocrate inoltre fu tra i primi a considerare lo stile di vita del malato come uno degli elementi chiave per comprendere la causa del malanno e per sconfiggerlo. Fu il primo a osservare, accanto agli elementi dietetici, anche quelli atmosferici, psicologici e persino sociali del paziente, con un’ampiezza di vedute che ci ha lasciato intuizioni moderne e grandi insegnamenti.

Ma quello che più sorprende ed emoziona, a mio avviso, sono proprio gli scritti etici di Ippocrate, in cui egli dà disposizioni di comportamento. Nel romanzo le sue parole vengono a volte riportate testualmente:

«Quando voi dovete visitate il malato … sappiate prima di entrare cosa si deve fare; poiché molti casi necessitano non di ragionamento, ma di un intervento caritatevole […] Entrando, ricordatevi la maniera di sedersi, la riservatezza, l’abbigliamento, l’austerità, la brevità del linguaggio, il sangue freddo che non si confonde, la diligenza verso il malato, la cura, la risposta alle obiezioni, il mantenimento della calma nelle confusioni che sopraggiungono…».

Tali precetti di condotta toccano la punta più elevata nel Giuramento, con cui il libro si chiude e sul quale ogni medico ancora oggi fa la sua dichiarazione d’intenti a inizio professione: un testo profondo, intriso di un rispetto per la persona e di un amore per la vita che somigliano ai migliori afflati etici e principi deontologici dell’epoca moderna.

Ippocrate dai suoi testi appare un ricercatore implacabile, ma anche un grande umanista, pieno d’ideali: è ben documentata l’avversione che Ippocrate avesse per la furbizia, la sua refrattarietà agli insegnamenti dei sofisti, alle superstizioni e ai rituali che inquinassero il rigore scientifico e la morale integrità.

In questo momento storico di pandemia, in questo clima ansioso, surreale, in cui alcuni minimizzano e altri vedono l’apocalisse, dalle parole alte di Ippocrate non può che venire un senso di equilibrio e di speranza, insieme alla sensazione che le difficoltà dell’essere umano di fronte a queste calamità siano sempre state molto simili. Non è difficile immaginare che lo stato d’animo di Ippocrate ad Atene, durante l’epidemia di peste contro la quale si trovò a combattere, e durante la quale morì lo stesso Pericle, fosse molto somigliante a quello dei nostri medici e infermieri in questo momento storico.

Gli scritti di Ippocrate ci restituiscono uno studioso ostinato, strenuo nel combattere il male degli altri, fino a mettere in pericolo la sua stessa incolumità; un guaritore tormentato dalla purezza, non disposto a barattare in alcun modo la propria integrità.

I principi etici di Ippocrate che ho potuto riscontrare nel giuramento e in alcuni passaggi di altri suoi scritti sono espressi senza retorica ma in semplici precetti che egli rivolge ai colleghi per aiutarli ad avvicinarsi all’arte medica: lo studio implacabile, l’umiltà nell’apprendimento, l’ascolto attento – privo di alterigia o di presunzione – dei sintomi e delle sofferenze del paziente; la fedeltà alla propria causa, la difesa della vita, la dignità di ogni essere umano. La generosità e precisione nel trasmettere le proprie acquisizioni agli altri studiosi.

Un grande insegnamento, valido ancora oggi, e da molti applicato quotidianamente senza troppi clamori: i medici e i ricercatori che in questo momento particolare della storia umana si stanno adoperando, spesso ponendosi a rischio in prima persona, per contenere e sconfiggere la pandemia, a beneficio di noi tutti.

 

Isabella Bignozzi ha esercitato la professione di medico Odontoiatra per 22 anni. Ha studiato a Bologna (Laurea presso la facoltà di Medicina e Chirurgia), a Roma (Specializzazione e Dottorato di ricerca internazionale), a Torino (Master internazionale). Ha scritto innumerevoli lavori scientifici indicizzati e impattati. Ha svolto consulenze editoriali di tipo medico-scientifico per Springer Healthcare. Appassionata di lettura ha scritto per AltriAnimali, exLibris, Spore, Risme, Offline, Narrandom, Futura, L’Irrequieto, CrackRivista, Sulla quarta corda, Pangea.

Collabora stabilmente con PulpLibri e Formicaleone rivista.

Alcune sue poesie sono state pubblicate sul sito «Inverso – Giornale di Poesia», e una silloge poetica è in pubblicazione per la casa editrice Transeuropa.

Si è formata come redattore editoriale presso Oblique (www.oblique.it) frequentando il Corso Principe per redattori editoriali, edizione ottobre 2019 – gennaio 2020.

Giuseppina Capone

Kit Teller il piccolo Ranger in edicola con una nuova avventura

Lo scorso giugno in edicola con la Gazzetta dello Sport è ritornato un personaggio che nel passato ha appassionato i ragazzi, il mitico Kit Teller nato nel 1958 dalla fantasia di Andrea Lavezzolo e disegnato da Francesco Gamba che hanno raccontato a grandi e piccini del secolo scorso le avventura di un ragazzo che era cresciuto nel west tra i ranger.

Il primo numero uscì nel lontano dicembre del 1963 in edicola al costo di 200 lire con una bella copertina realizzata da Franco Donatelli.

Era nato come striscia settimanale dal costo di 50 lire pubblicato dal 1958 al 1971, per trasformarsi proprio nel 1963 in un albo da 128 pagine.

Le due serie di fumetti incentrate sul giovane Kit furono edite in Italia dalle Edizioni Audace di Gian Luigi Bonelli dal 1963 al 1985.  L’ultimo numero fu scritto da Guido Nolitta.

A partire dal febbraio 2012, il Piccolo Ranger è stato ristampato in un’edizione per le edicole dalla If Edizioni ed oggi ritorna nella bella veste a colori frutto di restauro degli originali e con le copertine storiche di Donatelli per la Gazzetta dello Sport.

100 albi da raccogliere fino ad aprile 2024.

Antonio Desideri

Benedetta Carrara: Una cosa bella

Una cosa bella: può esemplificare se e quanto il titolo dell’opera teatrale aderiscono all’elegante edizione realizzata con copertina bianca in Fedrigoni Old Mill 300, cartoncino naturale di pura cellulosa ecologica, certificato FSC e marcato a feltro, le cui pagine interne sono in carta Arena Ivory Bulk extralusso a grammatura 140?

Non sono mai stata brava a giudicare da sola il valore di quello che scrivo. Per riuscire a capire se quello che scrive è valido mi affido ai miei amici, a cui sottopongo ogni stesura di quello che scrivo, col serio rischio di annoiarli a morte: dedico molto tempo alla ricerca stilistica, quindi spesso i cambiamenti tra una stesura e l’altra sono minimi, e raramente rivolti alla trama. Il fatto che Divergenze abbia creduto in me mi ha lusingato e mi ha dato un po’ di sicurezza circa la qualità di Una cosa bella: i loro libri sono sempre di grande qualità,  audaci, capaci di scuotere l’anima, di portarla a riflettere su temi universali. Inoltre hanno grande cura per il lato materiale delle loro pubblicazioni, come giustamente hai notato: tali materiali di pregio non solo rendono i loro testi gradevoli nell’estetica, ma anche resistenti al tempo. Io spero che la mia opera meriti tutto questo, che ne sia all’altezza, ma non sono io a doverlo stabilire… I lettori sono i migliori giudici di un’opera: mi rimetto al loro giudizio!

John Keats e la fidanzata Fanny Brawne: quali sono gli spunti a cui ha attinto per redigere il suo Atto unico?

Gran parte della mia ispirazione deriva dall’opera di Keats, in particolare dalla poesia La belle dame sans merci. Ballata costruita sul modello delle ballate medievali (come ad esempio Lord Randall), descrive l’incontro tra un giovane cavaliere e una bellissima dama, figlia di una fata, che lo seduce e lo annienta. L’immagine del cavaliere che, pallido e malinconico, guarda nel vuoto, incapace di smuoversi e di agire, mi ha molto colpito, e mi ha aiutato a modellare la figura di Keats. L’immagine della giovane seducente, invece, ha contribuito solo in parte alla creazione del personaggio di Fanny: sarebbe del tutto errato, infatti, farla coincidere con la belle dame. Fanny era sì giovane, graziosa, affascinante, a tratti un po’ civetta, ma era anche dolce e capace di una grande profondità di sentimento.

Le lettere, poi, sono state una grande fonte di ispirazione. Esse coprono quasi tutta la relazione: i primi, timidi, approcci di Keats, che le scrive una lettera, la butta perché troppo ricca di pathos e allora ne scrive un’altra, nella quale comunque scrive parole dolcissime, come “Vorrei solo che fossimo farfalle, e vivessimo tre soli giorni d’estate; tre simili giorni con voi li colmerei di tali delizie che cinquant’anni comuni non potrebbero mai contenere”; i brevi bigliettini scritti quando vivevano nella stessa casa; le ultime lettere – quelle scritte col peggiorarsi della malattia e poco prima del viaggio verso Roma –  cariche di angoscia, di gelosia, di disperazione, ma dentro alle quali continua a vibrare il suo amore per lei.

Da un punto di vista teatrale, invece, una probabile influenza è derivata dalla lettura di L’odore assordante del bianco di Stefano Massini, testo che ho letto intorno al periodo in cui ho iniziato a lavorare a Una cosa bella. Lì, Van Gogh dialoga con il fratello, solo per poi scoprire che non è realmente… Ma non facciamo troppi spoiler!

L’opera è un lampo per la sua brevità: quali sono i concetti su cui ha inteso veicolare la focalizzazione dei lettori?

Bisogna distinguere due piani: quello particolare e quello universale.

Per quanto riguarda il piano individuale, cioè la biografia di Keats, ho voluto porre l’attenzione su quelli che ritengo i punti fondamentali nella sua vita: la relazione con la sua musa, Fanny Brawne; il difficile rapporto con la critica, che aveva a più riprese massacrato le sue opere, accusate di essere acerbe; la morte prematura per tubercolosi.

Sul piano universale, mediato ovviamente da quello particolare, ho cercato di invitare il lettore/spettatore a riflettere su diversi temi: l’amore e il suo persistere nonostante le avversità, la lontananza e addirittura la morte della persona amata; il rapporto con l’arte pura, svincolata dal successo critico ed editoriale; l’incessante scorrere del tempo e l’angoscia dell’oblio.  Ecco, soprattutto su quest’ultimo punto mi sono concentrata parecchio. Al momento della sua morte, John Keats aveva solo 25 anni, e si era dedicato totalmente alla scrittura solo tre anni: la sua produzione – abbastanza estesa, considerato il breve periodo di attività – non era stata particolarmente apprezzata, e rischiava quindi di cadere ben presto nel dimenticatoio. Keats riconosceva i limiti delle sue opere, come l’Endimione, e al contempo sapeva di poter fare di più, di poter scrivere qualcosa degno di essere ricordato. Ma non ne aveva il tempo. Aveva 25, e già si stava spegnendo, tormentato dalla tosse, coi polmoni distrutti dalla tubercolose e il fisico provato dalla dieta restrittiva che il medico gli aveva imposto. E non aveva nemmeno la consolazione di poter passare i suoi ultimi giorni con la sua amata: non potendosi sposare, Fanny era dovuta rimanere a casa, in Inghilterra.  La scelta di insistere sulla paura dell’oblio, però, è stata particolarmente influenzata dall’epigrafe che Keats chiese di incidere sulla sua lapide: “Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua.”.

Nel testo sono presenti numerose citazioni. Perché ha reputato necessario dare voce a  Keats?

Ogni personaggio, in un testo, ha una propria voce, un proprio peculiare modo di parlare e di porsi. Prima di iniziare a scrivere, cerco di conoscere i personaggi come se fossero degli amici di vecchia data, di quelli che si conoscono come le proprie tasche o quasi. Per questo, prima di scrivere di Keats ho letto (o meglio, riletto) le sue poesie e le sue lettere a Fanny; nel farlo, ho sottolineato le frasi che più mi piacevano, e mi son detta “perché non usarle?”. Sarebbe stato assurdo non usare le parole di Keats per descrivere i suoi sentimenti: da poeta, aveva una grande comprensione del peso di ogni parola, di ogni figura e di ogni riferimento letterario. Non sarebbe stato possibile rappresentarlo in modo completo, o anche solo soddisfacente, senza fare riferimento alla sua produzione.

Ci sarà una messa in scena de “Una cosa bella”?

Sì, e ci stiamo lavorando proprio ora! Nel 2019, il mio amico Alberto Camanni mi aveva contattato chiedendomi di scrivere un testo per lui e per due suoi colleghi attori, Giorgia Fasce e Matteo Dagnino. Il testo, quindi, è nato per la scena, e la pubblicazione è stata un evento tanto bello quanto inaspettato: già pubblicare è difficile, pubblicare teatro lo è anche di più…  Ovviamente l’epidemia ci ha rallentati un po’, soprattutto perché ha fatto slittare di qualche mese la fine degli studi degli attori. Ma già da dicembre 2020 abbiamo iniziato, tra una videochiamata e l’altra, a lavorare alla messa in scena, e al nostro gruppo si è aggiunto Davide De Togni, che si occupa della regia.  Da un paio di settimane siamo chiusi in teatro: analizziamo il testo, i personaggi, proviamo le scene… Trovo affascinante e stimolante vedere sensibilità diverse dalla mia rielaborare il mio testo, portarlo in direzioni che io non avevo nemmeno pensato: trasforma un processo solitario, come lo è la scrittura, in un processo collettivo, un’occasione di crescita artistica ma anche personale. Sono certa che il risultato finale sarà meraviglioso (anche se passerà di certo un po’ di tempo prima di poter andare in scena), ma questa esperienza mi sta lasciando molto di più di un singolo spettacolo.

Benedetta Carrara frequenta Lettere all’Università di Pavia. Autrice di articoli e racconti, ed editor per la rivista Efemera, ha esordito con il testo teatrale “Una cosa bella” (Divergenze, 2020).

Giuseppina Capone

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