Lucrezia: desiderio di futuro nella Roma antica

È il febbraio del 509 a.C., una sera fatale in un’Urbe soffocata dalla sopraffazione politica. Governano i Tarquini, imprimendo un pesante dispotismo tirannico ed un notevole segno assolutistico. Il potere non è più trasmesso per elezione popolare bensì per via ereditaria. Le vie romane hanno già visto Tarquinio Prisco celebrare un trionfo vestito con una toga ricamata d’oro ed una tunica palmata, ovvero con tutte le decorazioni e le insegne per cui risplende l’autorità del comando assoluto.  Lucrezia, moglie di Collatino, matrona pacata, laboriosa, fedele, si trova a casa propria: accoglie Sesto Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo; viene stuprata; dopo poco si suicida. L’episodio è arcinoto con modiche e collaterali varianti. “Gara delle mogli” durante l’assedio di Ardea, o incontro casuale fra i giovani della famiglia reale e la moglie di Collatino? Richiesta d’accoglienza da parte di Sesto Tarquinio, in nome della parentela con lo stesso Collatino o congegna d’una fuorviante e falsa epistola in cui quest’ultimo chiede alla consorte di porgere ospitalità per la notte? Lucrezia chiama a sé, convocandoli a Collazia, il padre ed il marito o si reca lei stessa a Roma per esporre il vituperio di cui è stata vittima? Bruto, il futuro eversore della monarchia, è presente mentre Lucrezia si toglie la vita o sopraggiunge successivamente?

Non importa: quell’abuso scatena una sequenza di eventi che sfocia nel giro di pochi giorni alla rivolta popolare destinata a decretare la fine del regime monarchico ed alla cacciata dei Tarquini. Una storia di vibrante passione: vita e morte di Lucrezia. Eroina mitizzata dal fluire fantasioso del tempo. Icona lanifica, casta, pia, frux, domiseda.

L’evento è indubbiamente coinvolgente e pregno di stimoli alla riflessione. Mediante Lucrezia si può scrutare un affresco sociale estremamente affascinante e sicuramente illuminante per i molteplici riverberi che produce sulla storia delle istituzioni così come sulle attuali questioni di genere.

Tatuata da una cicatrice indelebile non cincischia in lagnanze e decide per sé, determina il suo avvenire. Vessillo di pudicitia, ripresa mentre tesse la lana con le sue ancelle, mentre le nuore del re si divertono in banchetti ed orge, sferra il colpo mortale ai Tarquini.

Afferrando il coltello e piantandoselo nel cuore, uccide se stessa e partorisce la Repubblica. Lucrezia mi piace assai: pone e dispone della propria esistenza. Mette al centro d’un fatto privato il suo corpo e lo usa per sovvertire le forze politiche in campo. È la prima onda di una marea: la sua mano é legata al divenire, il suo petto ammicca ad un futuro ancora da dipanare.

Lucrezia, irreprensibile matrona, dedita alla cura domestica, dona pace e spinge alla battaglia; è casta e si concede eternamente; terrorizza ed ammalia; fertilizza e sterilizza. Ogni suo aspetto possiede una funzione politico-sociale trasformatrice. Scandisce la lotta per il rinnovamento. Volge uno sguardo sistemico. Possiede una mentalità affatto fossile. Abbatte con fiera determinazione gabbie concettuali ancestrali. Mobilita la massa, scuote l’opinione pubblica e muta il corso della storia di Roma. Decostruisce l’idea di “donna” come categoria ontologica e la intende, invece, come “costrutto sociale”.

Qual è la lezione di Lucrezia? Reagire alle posizioni identitarie. Cura, appeal erotico, docilità? Non semplifichiamo!

“Lucrezia chiudi la bocca! Sono Sesto Tarquinio e ho una spada in mano. Una sola parola e sei morta!” scrive Livio. E Lucrezia ai suoi cari “Da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l’esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!”

Affrancata da gioghi vetusti e da costrizioni culturali, braccio armato nella lotta di liberazione, Lucrezia sa di non essere una monade: il suo personale è politico. Eh, no: la donna perfetta non è quella morta. Lucrezia desidera il futuro.

Giuseppina Capone

Isabella Bignozzi: Il segreto di Ippocrate

Ippocrate, autore del celebre giuramento e padre della medicina occidentale: perché ha scelto di srotolare i fili della vita del maestro di Kōs?

Ho svolto per molti anni la professione odontoiatrica, ho avuta una lunga frequentazione universitaria e ospedaliera, e un mio studio privato per lungo tempo. Nei miei anni di attività clinica ho avuto la fortuna di avere molte soddisfazioni e innumerevoli difficoltà, incontri più o meno positivi, riflessioni accorate sul mio lavoro. Ho attraversato a un certo punto della mia attività un momento difficile e confuso, non ero serena con la realtà che mi circondava, e trovavo che alcune situazioni cui il mio lavoro in quel momento mi induceva non fossero in sintonia con le mie pulsioni più profonde. Il nome di Ippocrate a volte riecheggiava nei miei pensieri, lo vivevo come un simbolo etico, avendo conosciuto le sue parole alte nel giuramento che ogni medico fa a inizio carriera; era dunque per me una specie di padre spirituale.

È stato allora che ho trovato le opere di arte medica di Ippocrate disponibili nel web, in particolare il Corpus Hippocraticum, compendio di tutte le opere attribuite a Ippocrate (a torto o a ragione) e raccolte da Émile Littré in: Hippocrate. Oeuvres Completes, Jean-Baptiste Baillière, 1839. All’inizio non avevo alcuna intenzione di scrittura, mi guidava solo la curiosità, e un’esigenza di ascolto, di pura lettura e meditazione. Cercavo forse conforto, e alcune risposte.

Dunque ho letto per esteso i suoi scritti e ho sviluppato, nei mesi, una strana amicizia a distanza con questo sapiente vissuto tanti secoli prima di me. Ho trovato sia il conforto sia le risposte che cercavo e in più l’ho sentito vicino, come se lo conoscessi personalmente. Volevo a quel punto cercare di trasmettere questa sensazione di protezione e di saggezza a chiunque altro ne sentisse la necessità. Per questo ho voluto dargli un volto, delle vicende, dei pensieri. È venuto tutto in modo molto naturale.

Va detto che i suoi trattati sono per la maggior parte di natura molto tecnica: parlano di febbri, di epidemie, di umori; di pozioni, unguenti, suffumigi; di antichi anestetici e manovre chirurgiche. Sono anche frammentari, spesso, e sibillini, per il gran numero di secoli che intercorrono tra noi e l’età greca classica durante la quale sono stati redatti.

Ma sentivo in essi una voce di fondo, riflessiva, attenta al paziente, rispettosa. Una voce che mi ha confortato e, infine, conquistato. Nel rispetto di un’ampia documentazione storica da me consultata, ma facendo uso – laddove possibile e necessario per mancanza di informazioni – della mia immaginazione, nel corso di circa un anno è nato il romanzo.

Ippocrate sfiora eventi storici grandiosi, penso alla politica periclea ed al conflitto peloponnesiaco: in che misura la Grecia del V sec. a.C. tange la sua narrazione?

L’età classica è un’epoca che mi è rimasta nel cuore fin dal liceo. La Grecia e Atene in quel momento storico rappresentavano il cuore della cultura occidentale. Ne ho sempre immaginato l’atmosfera, i mercati, i templi; i teatri, l’agorà. Il desiderio di partecipazione politica dei cittadini, di disquisizione filosofica, di condivisione delle conoscenze.

La bellezza era ovunque: l’architettura e le arti animavano le poleis; il Partenone era in costruzione sull’acropoli, un tempio inondato di luce; e poi il Pireo, le Lunghe Mura; e infine, il senso di pace: Atene e Sparta proprio allora avevano stipulato un trattato che auspicava trent’anni di non belligeranza e prosperità tra la Lega Delio-Attica e la Lega Peloponnesiaca.

Ippocrate da ragazzo ebbe modo di vedere la polis nel suo massimo splendore: vi era cultura, indagine, speculazione. Anche nelle zone più periferiche della civiltà ellenica vi era grande fermento culturale. Penso alle scuole filosofiche della Magna Grecia, ad esempio. Gli studiosi di quell’epoca osservavano la natura e il mondo animale, facevano congetture sull’essenza dell’universo, ma anche sulle malattie degli uomini. Alcmeone e Democede di Crotone, Empedocle e Acrone di Agrigento furono tra questi. Senza dimenticare Democrito, Parmenide di Elea, Zenone; la scuola Pitagorica tutta. Gli studiosi di Crotone e Agrigento dissezionavano gli animali, mentre i filosofi inserivano nelle nozioni mediche le loro ipotesi sugli elementi primordiali dell’universo: l’acqua, l’aria, il fuoco e la terra servivano a spiegare la composizione dei corpi così come quella del mondo.

È in questa temperie che si sviluppa la medicina di Ippocrate. Le vecchie cosmologie iniziavano a dare stimolo allo studio empirico dei fatti, a un atteggiamento che potremmo definire proto-scientifico.

È vero che Ippocrate ha vissuto la sua giovinezza agli antipodi di questa parte del mondo greco, e ha risentito soprattutto degli stimoli culturali della propria regione geografica, quella orientale: fu influenzato dalla scuola medica di Cnido, ad esempio, dove vi era un Asklepieion di grande tradizione, e queste furono le sue conoscenze iniziali, se pur reinterpretate e integrate in relazione alle pratiche della scuola di Kos, cui lui propriamente apparteneva; ma è vero anche che in un secondo momento della sua vita, Ippocrate iniziò a viaggiare. Dalle fonti è molto chiaro che fu un medico cosmopolita, se così si può dire, per i suoi tempi. Le basi della sua scienza erano profondamente correlate alla medicina egizia e medio-orientale, da cui ha traslato molte conoscenze; è ben noto che in età matura fosse divenuto un viaggiatore instancabile, e che fosse spesso ad Atene, in Magna Grecia, in Tracia, in Egitto. Viaggiò, curò gli infermi, insegnò e apprese in tutte le terre conosciute del bacino del mediterraneo; visitò regioni allora inospitali, come la Scizia, la Libia, le regioni interne all’Asia Minore. Dunque la sua cultura medico-scientifica era variegata, e frutto di numerosi contatti avuti anche ai margini o al di fuori del mondo greco.

Gli episodi storici di quel periodo sono molteplici, in quanto esso fu denso di avvenimenti e ricco di storiografi accurati, di cui conserviamo le cronache. Basti pensare a Erodoto e, meno fantasiosi e più essenziali, Tucidide e Senofonte.

Nel mio romanzo ho cercato di trasfondere molto di tutto ciò; il mio Ippocrate cresce nella sua piccola isola, apprendendo dal padre. Ma poi viaggia a lungo, incontra grandi personalità, ne assorbe i precetti e le riflessioni. La sua vita procede tra conquiste e grandi delusioni, come accade per ognuno di noi. Dalla sofferenza di alcuni eventi tragici forgerà la sua tenacia, il suo equilibrio, le sue incredibili capacità. Dal punto di vista della cornice storica, ho inserito molto di quell’epoca, sia come riferimenti alla situazione politica, sia a quella culturale; inoltre ho voluto introdurre anche un piccolo divertissement, un viaggio che Ippocrate ho immaginato abbia fatto al seguito dei Diecimila di Ciro. Questo episodio, di pura fantasia (benché nulla provi né vieti, per la coincidenza di tempi e luoghi), mi è stato funzionale per descrivere una svolta di pensiero cui il mio Ippocrate va incontro, in tarda età, smantellando l’ultimo pregiudizio che gli aveva impedito, fino ad allora, di realizzarsi appieno e divenire compiutamente sé stesso, come uomo e come medico.

Dunque nella narrazione ho evocato numerosi avvenimenti e circostanze dell’epoca, creando – questa è la mia speranza – un’ambientazione storica e filosofica il più possibile ricca e veritiera. Tutto questo però, ci tengo molto a dirlo, senza tediare il lettore con particolari nozionistici, bensì facendo sì che la temperie culturale, i fatti politici, l’architettura e la natura, gli eventi storici entrino come arabeschi a cornice di una favola.

Quali sono i testi che ha letto e consultato per redigere il suo romanzo?

La fonte principale che ho usato è il già citato Corpus Hippocraticum; in realtà, soltanto alcuni degli scritti in esso inclusi sono da ritenersi più certamente suoi, e su questi ho fatto una consultazione più serrata, basandovi l’intelaiatura filosofica del romanzo: Sull’antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il prognostico, Gli aforismi, Sul regime delle malattie acute, alcuni scritti di ortopedia (che trattano la riduzione delle fratture, delle lussazioni, la terapia delle ferite della testa), Il Giuramento.

Nella parte introduttiva di tale raccolta del Littré si tratta a lungo anche della vita di Ippocrate, delle sue teorie e dei suoi maestri, riportando in modo critico le informazioni a suo riguardo che ci vengono fornite dalle tre biografie esistenti: quella di Sorano di Efeso, risalente al II secolo d.C.; quella contenuta nella Suda, un’enciclopedia storica del X secolo d.C. scritta in greco bizantino e riguardante il mondo antico del bacino del mediterraneo; quella di Giovanni Tzetzes, un filologo bizantino vissuto nel XII secolo d.C.. Questi storici pongono le loro fonti in autori ancora precedenti: Eratostene, Ferecide, Apollodoro, Ario di Tarso, Sorano di Kos, Istomaco e Andreas.

Per la ricostruzione geografica e storica mi sono aiutata con i seguenti testi i quali, benché successivi, mi hanno dato un’idea abbastanza fedele della natura e delle vicende del periodo storico di cui dovevo narrare:

la Biblioteca storica di Diodoro Siculo (frammenti, I sec a.C.)

la Periegesi della Grecia di Pausania (II sec d.C.)

la Geografia di Strabone (14-23 d.C.)

Inoltre ho attinto informazioni da alcuni testi classici e intramontabili, ricchissimi di dettagli e di episodi, più o meno veritieri, che mi hanno aiutata a entrare pienamente nello spirito dell’epoca:

Esiodo: Le opere e i giorni

Erodoto: Le storie

Tucidide: La guerra del Peloponneso

Senofonte: Anabasi

Infine, vi è una parte finale del libro in cui Ippocrate giungerà in Egitto, in visita a un collega e maestro, un sacerdote di Sekhmet che dirige la Casa della vita di Memphis. Tutte le nozioni di medicina egizia cui si fa riferimento in questa parte e anche altrove le ho tratte dai Papiri di Smith e di Ebers.

In particolare ho consultato il testo integrale del papiro Edwin Smith, che ho trovato disponibile per intero, traslitterato e tradotto in inglese, ad opera della University of Chicago Oriental Institute Publication. Si tratta di un testo scritto in ieratico, datato al 1650 a.C., ma secondo alcuni storici trascritto e rielaborato da un documento più antico, risalente al 2500-3000 a.C., che sarebbe addirittura opera del leggendario Imhotep; tale papiro è di contenuto principalmente chirurgico, e le informazioni in esso contenute, davvero sorprendenti, includono l’esame obiettivo, la diagnosi, il trattamento e la prognosi di numerose patologie (ferite della testa e del massiccio facciale; fratture cervicali, vertebrali, clavicolari, omerali; lussazioni articolari; tumori al seno), con speciale interesse per diverse tecniche operative e descrizioni anatomiche, ottenute anche nel corso dei processi di imbalsamazione e mummificazione dei cadaveri.

Ho letto inoltre su alcuni testi di medicina egizia numerosi frammenti tratti dal Papiro di Ebers (datato al 1550 a.C.), uno scritto immenso: basti pensare che l’originale misura più di 20 metri di lunghezza e trenta centimetri di larghezza e contiene 877 commi che descrivono numerose malattie in vari campi della medicina come l’oftalmologia, la ginecologia, la gastroenterologia, e le loro corrispondenti prescrizioni. Questo papiro include la prima relazione scritta sui tumori.

Lei è un medico ed una scrittrice: quale riflessione può offrirci circa il nesso tra cultura umanistica e cultura scientifica?

Sia la parola medico sia la parola scrittore sono definizioni troppo grandi per me. In ogni caso, ho sempre avuto grande amore per la medicina e la scienza, ma anche per la letteratura in ogni sua forma, e in modo precipuo per la filosofia. Quest’ultima disciplina, di carattere eminentemente speculativo per definizione, penso sia l’ambito che più compiutamente esprime il nesso tra i due versanti del pensiero umano: le discipline cosiddette umanistiche e quelle scientifiche.

Nell’antichità questi due regni erano molto più vicini tra loro. Ai tempi di Ippocrate – e così per lunghi secoli, fino a tutto il medioevo – lo stesso studioso era spesso medico, filosofo, poeta; a volte pittore, narratore, musicista. I numerosi Perí Physeos (Sulla natura) dei filosofi naturalisti presocratici erano opere che cercavano di cogliere l’essenza dell’universo, del mondo vegetale e animale, del corpo umano e delle sue malattie; l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco erano i quattro elementi primordiali che servivano a spiegare la composizione dei corpi così come quella del mondo; opere eminentemente proto-scientifiche, che però erano scritte spesso in versi, avevano un’attitudine lirica dichiarata, a dimostrazione del sacro e del poetico che pervade l’esistenza di ogni essere vivente.

Leonardo da Vinci viene spesso citato per la sua genialità onnicomprensiva e circonferenziale (era inventore, ingegnere, esperto di anatomia ma anche scrittore e pittore) ma il suo non è un caso isolato. Le attitudini speculativa e creativa nell’antichità si mischiavano, traevano forza l’una dall’altra.

Poi è accaduto qualcosa, in particolare a partire dall’illuminismo e a seguire con la rivoluzione industriale e l’avvento della tecnologia, che ci ha abituati a pensare che la scienza e le materie umanistiche siano universi lontani, e che presuppongano atteggiamenti di pensiero opposti, tra loro inconciliabili. Il metodo scientifico proposto per primo da Galileo nel sedicesimo secolo introdusse la sperimentazione e il risultato ripetibile come unici elementi adatti a convalidare o confutare l’ipotesi dello scienziato, senza che nessuna sua opinione o pregiudizio potessero andarne a contaminare i risultati. E questo è senz’altro giusto e desiderabile, ma non esclude che lo scienziato possa far tesoro delle sue conoscenze e spingersi oltre, in altro ambito. Lo scienziato è tale solo se ha solide conoscenze acquisite, ma questa è condizione necessaria e non sufficiente per attuare nuove scoperte, per le quali serve un atto artistico d’intuizione. Albert Einstein ha saputo immaginare, quasi sognare dimensioni diverse spazio-temporali, prima di cercare le formule matematiche per dimostrarne la possibile esistenza. E così Stephen Hawking nelle sue teorie cosmologiche.

Il pregiudizio colpisce allo stesso modo le discipline umanistiche, e si pensa che per poter essere narratore o poeta basti la fantasia, o una presunta attitudine artistica o sensibilità specifica, allestita con qualche improvvisata nozione di espressione verbale che possa stupire il lettore. Ma questa, secondo la mia personale opinione chiaramente, trovo sia una grande bugia. Nelle discipline umanistiche la base dell’evolversi del letterato o del poeta risiede nell’applicazione, nella lettura, nella meditazione profonda di ciò che già è stato scritto e pensato; solo così un autore può ambire a dare a chi legge un messaggio ancora degno di questo nome. Non esiste creazione senza istruzione, senza familiarità intensa e affettuosa con i letterati e i poeti che ancora risuonano nell’aria; e, a saperla ascoltare, l’aria risuona di molte grida. Allo stesso modo in cui non esiste scoperta basata sul solo arido studio, senza essere benedetti dalla meraviglia dell’intuizione.

Anche per chi si avvicina come fruitore al prodotto culturale – sia esso letterario, filosofico, o scientifico – la condizione principe è quella dell’accoglienza: essere pronti a una frequentazione intima, prolungata, a un’intensa contemplazione dei contenuti, finché non si senta quello sgomento che si prova di fronte all’opera d’arte: sia essa la perfezione di una fuga di Bach o l’immagine delle interconnessioni tra masse stellari (che appaiono incredibilmente simili a quelle neuronali); sia essa un’immagine endocellulare presa al microscopio elettronico, o il verso di un poeta che scandagli i recessi dell’animo umano.

Ogni musicista è un grande matematico; ogni poeta frequenta quotidianamente l’infinito e l’eterno, ogni medico o biologo conosce il pulsare del miracolo della vita. È necessario poter essere pronti alla fatica, a un’intima ascesi, allo spavento della comprensione, prima di essere illuminati dall’intuizione.

Qual è il messaggio etico ippocrateo?

Ippocrate ha avuto molti meriti, primo tra tutti quello di essersi distaccato da una visione sacerdotale della medicina, e di aver dato origine alla scienza medica razionale dei popoli d’occidente; di aver perseguito la speculazione guidata dall’osservazione, dallo studio, dal ragionamento, di aver messo da parte rituali e superstizioni, di aver posto le basi di un seppure rudimentale metodo scientifico; di aver elaborato la teoria degli umori, della salute come equilibrio, della forza rigeneratrice della natura come prima alleata del terapeuta.

Entrando nello specifico dei suoi scritti, sicuramente le nozioni che ci ha trasmesso riguardo l’ortopedia, la riduzione delle fratture, la risoluzione delle lussazioni articolari hanno rivestito grande importanza per i medici che sono venuti dopo di lui; assolutamente innovativa inoltre la sua abitudine di tenere quello che ora definiremmo un diario clinico dove appuntava anamnesi, segni e sintomi alla prima visita, terapie somministrate, osservazioni nei giorni delle successive visite, che svolgeva con attenta sollecitudine; è così che nasce il primo abbozzo di cartella clinica, che è ancora oggi lo strumento base di osservazione e monitoraggio del paziente, di formulazione di diagnosi integrate, di monitoraggi puntuali dell’andamento terapeutico, di prognosi ragionate, di raccolta dati a scopo statistico e di ricerca.

Ippocrate inoltre fu tra i primi a considerare lo stile di vita del malato come uno degli elementi chiave per comprendere la causa del malanno e per sconfiggerlo. Fu il primo a osservare, accanto agli elementi dietetici, anche quelli atmosferici, psicologici e persino sociali del paziente, con un’ampiezza di vedute che ci ha lasciato intuizioni moderne e grandi insegnamenti.

Ma quello che più sorprende ed emoziona, a mio avviso, sono proprio gli scritti etici di Ippocrate, in cui egli dà disposizioni di comportamento. Nel romanzo le sue parole vengono a volte riportate testualmente:

«Quando voi dovete visitate il malato … sappiate prima di entrare cosa si deve fare; poiché molti casi necessitano non di ragionamento, ma di un intervento caritatevole […] Entrando, ricordatevi la maniera di sedersi, la riservatezza, l’abbigliamento, l’austerità, la brevità del linguaggio, il sangue freddo che non si confonde, la diligenza verso il malato, la cura, la risposta alle obiezioni, il mantenimento della calma nelle confusioni che sopraggiungono…».

Tali precetti di condotta toccano la punta più elevata nel Giuramento, con cui il libro si chiude e sul quale ogni medico ancora oggi fa la sua dichiarazione d’intenti a inizio professione: un testo profondo, intriso di un rispetto per la persona e di un amore per la vita che somigliano ai migliori afflati etici e principi deontologici dell’epoca moderna.

Ippocrate dai suoi testi appare un ricercatore implacabile, ma anche un grande umanista, pieno d’ideali: è ben documentata l’avversione che Ippocrate avesse per la furbizia, la sua refrattarietà agli insegnamenti dei sofisti, alle superstizioni e ai rituali che inquinassero il rigore scientifico e la morale integrità.

In questo momento storico di pandemia, in questo clima ansioso, surreale, in cui alcuni minimizzano e altri vedono l’apocalisse, dalle parole alte di Ippocrate non può che venire un senso di equilibrio e di speranza, insieme alla sensazione che le difficoltà dell’essere umano di fronte a queste calamità siano sempre state molto simili. Non è difficile immaginare che lo stato d’animo di Ippocrate ad Atene, durante l’epidemia di peste contro la quale si trovò a combattere, e durante la quale morì lo stesso Pericle, fosse molto somigliante a quello dei nostri medici e infermieri in questo momento storico.

Gli scritti di Ippocrate ci restituiscono uno studioso ostinato, strenuo nel combattere il male degli altri, fino a mettere in pericolo la sua stessa incolumità; un guaritore tormentato dalla purezza, non disposto a barattare in alcun modo la propria integrità.

I principi etici di Ippocrate che ho potuto riscontrare nel giuramento e in alcuni passaggi di altri suoi scritti sono espressi senza retorica ma in semplici precetti che egli rivolge ai colleghi per aiutarli ad avvicinarsi all’arte medica: lo studio implacabile, l’umiltà nell’apprendimento, l’ascolto attento – privo di alterigia o di presunzione – dei sintomi e delle sofferenze del paziente; la fedeltà alla propria causa, la difesa della vita, la dignità di ogni essere umano. La generosità e precisione nel trasmettere le proprie acquisizioni agli altri studiosi.

Un grande insegnamento, valido ancora oggi, e da molti applicato quotidianamente senza troppi clamori: i medici e i ricercatori che in questo momento particolare della storia umana si stanno adoperando, spesso ponendosi a rischio in prima persona, per contenere e sconfiggere la pandemia, a beneficio di noi tutti.

 

Isabella Bignozzi ha esercitato la professione di medico Odontoiatra per 22 anni. Ha studiato a Bologna (Laurea presso la facoltà di Medicina e Chirurgia), a Roma (Specializzazione e Dottorato di ricerca internazionale), a Torino (Master internazionale). Ha scritto innumerevoli lavori scientifici indicizzati e impattati. Ha svolto consulenze editoriali di tipo medico-scientifico per Springer Healthcare. Appassionata di lettura ha scritto per AltriAnimali, exLibris, Spore, Risme, Offline, Narrandom, Futura, L’Irrequieto, CrackRivista, Sulla quarta corda, Pangea.

Collabora stabilmente con PulpLibri e Formicaleone rivista.

Alcune sue poesie sono state pubblicate sul sito «Inverso – Giornale di Poesia», e una silloge poetica è in pubblicazione per la casa editrice Transeuropa.

Si è formata come redattore editoriale presso Oblique (www.oblique.it) frequentando il Corso Principe per redattori editoriali, edizione ottobre 2019 – gennaio 2020.

Giuseppina Capone

Kit Teller il piccolo Ranger in edicola con una nuova avventura

Lo scorso giugno in edicola con la Gazzetta dello Sport è ritornato un personaggio che nel passato ha appassionato i ragazzi, il mitico Kit Teller nato nel 1958 dalla fantasia di Andrea Lavezzolo e disegnato da Francesco Gamba che hanno raccontato a grandi e piccini del secolo scorso le avventura di un ragazzo che era cresciuto nel west tra i ranger.

Il primo numero uscì nel lontano dicembre del 1963 in edicola al costo di 200 lire con una bella copertina realizzata da Franco Donatelli.

Era nato come striscia settimanale dal costo di 50 lire pubblicato dal 1958 al 1971, per trasformarsi proprio nel 1963 in un albo da 128 pagine.

Le due serie di fumetti incentrate sul giovane Kit furono edite in Italia dalle Edizioni Audace di Gian Luigi Bonelli dal 1963 al 1985.  L’ultimo numero fu scritto da Guido Nolitta.

A partire dal febbraio 2012, il Piccolo Ranger è stato ristampato in un’edizione per le edicole dalla If Edizioni ed oggi ritorna nella bella veste a colori frutto di restauro degli originali e con le copertine storiche di Donatelli per la Gazzetta dello Sport.

100 albi da raccogliere fino ad aprile 2024.

Antonio Desideri

Benedetta Carrara: Una cosa bella

Una cosa bella: può esemplificare se e quanto il titolo dell’opera teatrale aderiscono all’elegante edizione realizzata con copertina bianca in Fedrigoni Old Mill 300, cartoncino naturale di pura cellulosa ecologica, certificato FSC e marcato a feltro, le cui pagine interne sono in carta Arena Ivory Bulk extralusso a grammatura 140?

Non sono mai stata brava a giudicare da sola il valore di quello che scrivo. Per riuscire a capire se quello che scrive è valido mi affido ai miei amici, a cui sottopongo ogni stesura di quello che scrivo, col serio rischio di annoiarli a morte: dedico molto tempo alla ricerca stilistica, quindi spesso i cambiamenti tra una stesura e l’altra sono minimi, e raramente rivolti alla trama. Il fatto che Divergenze abbia creduto in me mi ha lusingato e mi ha dato un po’ di sicurezza circa la qualità di Una cosa bella: i loro libri sono sempre di grande qualità,  audaci, capaci di scuotere l’anima, di portarla a riflettere su temi universali. Inoltre hanno grande cura per il lato materiale delle loro pubblicazioni, come giustamente hai notato: tali materiali di pregio non solo rendono i loro testi gradevoli nell’estetica, ma anche resistenti al tempo. Io spero che la mia opera meriti tutto questo, che ne sia all’altezza, ma non sono io a doverlo stabilire… I lettori sono i migliori giudici di un’opera: mi rimetto al loro giudizio!

John Keats e la fidanzata Fanny Brawne: quali sono gli spunti a cui ha attinto per redigere il suo Atto unico?

Gran parte della mia ispirazione deriva dall’opera di Keats, in particolare dalla poesia La belle dame sans merci. Ballata costruita sul modello delle ballate medievali (come ad esempio Lord Randall), descrive l’incontro tra un giovane cavaliere e una bellissima dama, figlia di una fata, che lo seduce e lo annienta. L’immagine del cavaliere che, pallido e malinconico, guarda nel vuoto, incapace di smuoversi e di agire, mi ha molto colpito, e mi ha aiutato a modellare la figura di Keats. L’immagine della giovane seducente, invece, ha contribuito solo in parte alla creazione del personaggio di Fanny: sarebbe del tutto errato, infatti, farla coincidere con la belle dame. Fanny era sì giovane, graziosa, affascinante, a tratti un po’ civetta, ma era anche dolce e capace di una grande profondità di sentimento.

Le lettere, poi, sono state una grande fonte di ispirazione. Esse coprono quasi tutta la relazione: i primi, timidi, approcci di Keats, che le scrive una lettera, la butta perché troppo ricca di pathos e allora ne scrive un’altra, nella quale comunque scrive parole dolcissime, come “Vorrei solo che fossimo farfalle, e vivessimo tre soli giorni d’estate; tre simili giorni con voi li colmerei di tali delizie che cinquant’anni comuni non potrebbero mai contenere”; i brevi bigliettini scritti quando vivevano nella stessa casa; le ultime lettere – quelle scritte col peggiorarsi della malattia e poco prima del viaggio verso Roma –  cariche di angoscia, di gelosia, di disperazione, ma dentro alle quali continua a vibrare il suo amore per lei.

Da un punto di vista teatrale, invece, una probabile influenza è derivata dalla lettura di L’odore assordante del bianco di Stefano Massini, testo che ho letto intorno al periodo in cui ho iniziato a lavorare a Una cosa bella. Lì, Van Gogh dialoga con il fratello, solo per poi scoprire che non è realmente… Ma non facciamo troppi spoiler!

L’opera è un lampo per la sua brevità: quali sono i concetti su cui ha inteso veicolare la focalizzazione dei lettori?

Bisogna distinguere due piani: quello particolare e quello universale.

Per quanto riguarda il piano individuale, cioè la biografia di Keats, ho voluto porre l’attenzione su quelli che ritengo i punti fondamentali nella sua vita: la relazione con la sua musa, Fanny Brawne; il difficile rapporto con la critica, che aveva a più riprese massacrato le sue opere, accusate di essere acerbe; la morte prematura per tubercolosi.

Sul piano universale, mediato ovviamente da quello particolare, ho cercato di invitare il lettore/spettatore a riflettere su diversi temi: l’amore e il suo persistere nonostante le avversità, la lontananza e addirittura la morte della persona amata; il rapporto con l’arte pura, svincolata dal successo critico ed editoriale; l’incessante scorrere del tempo e l’angoscia dell’oblio.  Ecco, soprattutto su quest’ultimo punto mi sono concentrata parecchio. Al momento della sua morte, John Keats aveva solo 25 anni, e si era dedicato totalmente alla scrittura solo tre anni: la sua produzione – abbastanza estesa, considerato il breve periodo di attività – non era stata particolarmente apprezzata, e rischiava quindi di cadere ben presto nel dimenticatoio. Keats riconosceva i limiti delle sue opere, come l’Endimione, e al contempo sapeva di poter fare di più, di poter scrivere qualcosa degno di essere ricordato. Ma non ne aveva il tempo. Aveva 25, e già si stava spegnendo, tormentato dalla tosse, coi polmoni distrutti dalla tubercolose e il fisico provato dalla dieta restrittiva che il medico gli aveva imposto. E non aveva nemmeno la consolazione di poter passare i suoi ultimi giorni con la sua amata: non potendosi sposare, Fanny era dovuta rimanere a casa, in Inghilterra.  La scelta di insistere sulla paura dell’oblio, però, è stata particolarmente influenzata dall’epigrafe che Keats chiese di incidere sulla sua lapide: “Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua.”.

Nel testo sono presenti numerose citazioni. Perché ha reputato necessario dare voce a  Keats?

Ogni personaggio, in un testo, ha una propria voce, un proprio peculiare modo di parlare e di porsi. Prima di iniziare a scrivere, cerco di conoscere i personaggi come se fossero degli amici di vecchia data, di quelli che si conoscono come le proprie tasche o quasi. Per questo, prima di scrivere di Keats ho letto (o meglio, riletto) le sue poesie e le sue lettere a Fanny; nel farlo, ho sottolineato le frasi che più mi piacevano, e mi son detta “perché non usarle?”. Sarebbe stato assurdo non usare le parole di Keats per descrivere i suoi sentimenti: da poeta, aveva una grande comprensione del peso di ogni parola, di ogni figura e di ogni riferimento letterario. Non sarebbe stato possibile rappresentarlo in modo completo, o anche solo soddisfacente, senza fare riferimento alla sua produzione.

Ci sarà una messa in scena de “Una cosa bella”?

Sì, e ci stiamo lavorando proprio ora! Nel 2019, il mio amico Alberto Camanni mi aveva contattato chiedendomi di scrivere un testo per lui e per due suoi colleghi attori, Giorgia Fasce e Matteo Dagnino. Il testo, quindi, è nato per la scena, e la pubblicazione è stata un evento tanto bello quanto inaspettato: già pubblicare è difficile, pubblicare teatro lo è anche di più…  Ovviamente l’epidemia ci ha rallentati un po’, soprattutto perché ha fatto slittare di qualche mese la fine degli studi degli attori. Ma già da dicembre 2020 abbiamo iniziato, tra una videochiamata e l’altra, a lavorare alla messa in scena, e al nostro gruppo si è aggiunto Davide De Togni, che si occupa della regia.  Da un paio di settimane siamo chiusi in teatro: analizziamo il testo, i personaggi, proviamo le scene… Trovo affascinante e stimolante vedere sensibilità diverse dalla mia rielaborare il mio testo, portarlo in direzioni che io non avevo nemmeno pensato: trasforma un processo solitario, come lo è la scrittura, in un processo collettivo, un’occasione di crescita artistica ma anche personale. Sono certa che il risultato finale sarà meraviglioso (anche se passerà di certo un po’ di tempo prima di poter andare in scena), ma questa esperienza mi sta lasciando molto di più di un singolo spettacolo.

Benedetta Carrara frequenta Lettere all’Università di Pavia. Autrice di articoli e racconti, ed editor per la rivista Efemera, ha esordito con il testo teatrale “Una cosa bella” (Divergenze, 2020).

Giuseppina Capone

Riprende il campionato di serie A

Il Napoli piace e sta trascinando l’entusiasmo dei tifosi che dopo il maggio caldo vissuto tra striscioni contro De Laurentis e Spalletti oltre alle critiche nei confronti della squadra che non aveva vinto lo scudetto, ha ritrovato l’euforia di un tempo.

Attesi circa 50000 tifosi sabato allo stadio Maradona per la sfida con il Torino e sono andati esauriti i tickets per la trasferta in casa dell’Ajax anche se ieri è stato forte il disagio dei tremila fan presentatisi a Fuorigrotta per ritirare i biglietti.

Per circa sei ore sono rimasti in fila davanti ai soli due botteghini messi a disposizione per il ritiro del tagliando.

Importante rientro in campo per Politano che oggi ha svolto tre quarti dell’allenamento in gruppo e proprio il rientro in extremis di Lozano alimenta i dubbi di Spalletti sull’out destro.

Danilo Pisapia

Audrey Mestre, la storia della famosa apneista

Audrey Mestre è stata un’apneista francese di fama mondiale. Nata a Saint-Denis in Francia l’11 agosto del 1974, Audrey, ebbe presto la possibilità di dimostrare le sue doti quando, nel 1977, all’età di soli 3 anni, vinse la sua prima gara di nuoto contro i suoi coetanei. L’immensa dedizione per l’apnea nacque grazie al forte interesse che la sua mamma, insieme con suo padre, (nonno materno), aveva per la pesca subacquea in apnea, una passione che esercitava quasi ogni giorno; fu proprio nel corso di quelle occasioni che la piccola Audrey ebbe l’opportunità di entrare in intimità con il mare e rendersi conto di quanto si sentisse a suo agio in acqua. Da lì a poco, la Mestre, capì quale sarebbe stato il suo destino: diventare la più brava apneista. Se sin da bambini si è consapevoli di qual è il proprio posto nel mondo si parte con un piccolo vantaggio: non perdere mai di vista sé stessi andando dritti verso l’obiettivo che ci si prefigge per concretizzare i propri sogni e, difatti, la piccola aspirante apneista non smise un solo giorno di lottare per realizzare le sue aspirazioni e per divenire una delle più brave apneiste al mondo. Tuttavia ogni anno, Audrey, raggiungeva un nuovo traguardo: a soli 13 anni riuscì ad immergersi con l’autorespiratore d’aria nelle acque del Mediterraneo ottenendo il brevetto di immersione della Federazione francese dopo soli 3 anni. Poco tempo dopo l’intero nucleo familiare si trasferì nel Messico e, nel 1993, Audrey scelse di frequentare l’università della Baja California (Sur di la Paz) per seguire la sua grande passione per la Biologia Marina. Il percorso universitario proseguiva a gonfie vele; Audrey fu in grado di terminare gli esami nei tempi richiesti fino a conseguire la laurea. Nella tesi di laurea, la Mestre parlò di Fisiologia marina e, per approfondire l’argomento, chiese consiglio e supporto al grande profondista Francisco Pipin Ferreras con il quale, sin da subito, instaurò un sincero rapporto di amicizia.

Un anno dopo la laurea, nel 1996, per eseguire dei video durante uno dei record di Pipin, Audrey scese con l’autorespiratore a -135 metri. Nello stesso periodo la campionessa dell’apnea entrò a far parte del team di Pipin e per lei fu motivo di grande soddisfazione. Nel 1997 riuscì a scendere a -80 metri stabilendo il record francese di immersione in apnea assetto variabile assoluto a Grand Cayman. Nel 1998 scese con Francisco Pipin a -115 metri stabilendo il mondiale in coppia.

L’amicizia tra Audrey e Francisco diventava sempre più forte e il fatto di essere l’uno accanto all’altro durante ogni esperienza, soprattutto in quella lavorativa, fu di grande giovamento per i loro sentimenti che, in brevissimo tempo, si mutarono in amore puro fino a coronare il loro sogno unendosi in matrimonio. Furono anni felici quelli tra la Mestre e Pipin; quest’ultimo era sempre pronto a sostenere sua moglie nel bene e nel male, per spronarla a migliorare sempre più nel campo degli apneisti, e questo per Audrey era fondamentale per crescere nella sua carriera e, infatti, la giovane apneista maturava di giorno in giorno e, nell’ottobre del 2002, scese a -166 metri. Anche se la Mestre tentava di scendere sempre più in profondità marina, sottovalutando, purtroppo, ogni eventuale pericolo: il 12 ottobre del 2002 Audrey cercò di superare i -171 metri di profondità, ma diversi problemi sorsero al meccanismo di risalita nel momento in cui la donna sarebbe dovuta risalire in superficie. Audrey rimase sott’acqua per 8 minuti e mezzo in più e, al suo ritorno, ogni tentativo di salvarla fu invano perché aveva già perso i sensi una volta arrivata in ospedale. Fu solo questione di attimi e il suo cuore cessò di battere. Innumerevoli le accuse a Pipin per la morte di sua moglie per averla incoraggiata a spingersi oltre ogni limite, ma nonostante le diverse supposizioni al riguardo, non si è mai indagato a fondo sulla questione, non si è mai arrivato al vero colpevole.

Audrey ci ha lasciati quando era solo una giovane donna, ma con la fierezza di chi aveva raggiunto tanti importanti traguardi e di aver lottato  da sempre per conquistarli, ottenendo tutto ciò che desiderava, senza alcun rimpianto, nella carriera come nell’amore.

Alessandra Federico

Come coloravano il mondo i romani?

I romani attribuivano un significato diverso dal contemporaneo a taluni pigmenti. Ciò si traduceva, chiaramente, in un uso differente dall’attuale. Il blu e l’azzurro, a mo’ d’esempio, non erano particolarmente apprezzati. Ad onor del vero, stentavano ad esser riconosciuti come colori decisi e definiti. Del resto, essi venivano bollati come i colori tipici dei popoli germanici. Si pensi, andando alla ricerca di prove lessicali, che la lingua latina non possedeva termini atti a designare i già citati pigmenti. Essi, infatti, derivano, rispettivamente dal germanico blau e dall’arabo azraq.

Nascere con gli occhi azzurri, poi, era reputato come un segno di sfortuna per le donne e di buffo per gli uomini.

C’è anche da valutare una ragione pratica: il blu e l’azzurro erano notevolmente macchinosi da ottenere e derivavano dalla lavorazione di vegetali, conseguentemente meno permanenti nel tempo.

A Pompei sono stati reperiti blocchi di color azzurro, un composto cristallino contenente silice, ossido di calcio ed ossido di rame, ottenuto con quarzo fuso, carbonati di rame e di calcio, oltre a carbonato di sodio e potassio, usato come fondente.

Il rosso porpora ed il rosso scarlatto, invece, erano di certo di gran lunga più amati. Simboli d’opulenza ed autorità. Si pensi che, durante l’età di Cesare, un minuscolo panno della dimensione di un foulard poteva costare quanto l’onorario mensile di un funzionario di livello medio! D’altro canto, la produzione di siffatta tonalità permetteva un impiego ininterrotto dei vestimenti, essendo il colore di origine animale. Marziale attribuisce alla chioma di una sua amica il rosso: “Quae crine vincit vellus”.

Il giallo, dato dall’orpimento, reperibile in natura nelle miniere d’oro e d’argento dell’Asia Minore, era molto apprezzato tanto da esser adoperato dalle esigentissime donne, in special modo durante le cerimonie pubbliche. Ovidio dipinge l’aurora di color zafferano, corrispondente al giallo: “Croceo velatur amictu.”

Il bianco ed il nero venivano indicati con più termini: “albus” e “candidus” per il bianco acceso; “niger” per il nero lucente  ed “ater” per il nero opaco. Ed ancora, ahinoi, il color laridus, pallidissimo, tanto che Orazio scriveva  “Laridus orcus”.

Giuseppina Capone

 

Tragedia nelle Marche: la tempesta di pioggia ha distrutto la regione

29Strazio e terrore in una delle regioni italiane: lo scorso 15 settembre una vera catastrofe si è abbattuta nelle Marche dove case, negozi, e strade sono state sommerse da quintali di acqua distruggendo così l’intera regione, causando 10 vittime, 3 dispersi tra cui un bambino di 8 anni.

“Sono stati momenti di vero orrore in quelle poche ore, sembrava che il cielo si stesse spaccando e ci stesse piombando addosso”.

Lucia ha 26 anni e vive a Jesi, nelle Marche. La giovane donna ha vissuto l’esperienza terrificante della tempesta d’acqua dello scorso 15 settembre. Lucia, per fortuna, si trovava in casa durante la tempesta, ma sua sorella minore Benedetta da qualche ora si era recata a scuola di danza e la loro madre Silvia era da poco uscita di casa per andare a prenderla, mentre suo marito Carlo, il padre delle ragazze, era rimasto a casa con la primogenita a causa di una leggera influenza.

La vicenda per la famiglia di Lucia si è conclusa nel migliore dei modi grazie ad una persona dal cuore grande. La signora Jolanda stava osservando la tempesta di pioggia dal balcone della cucina di casa sua che affaccia proprio sulla strada dove si trova l’accademia di danza e dove, Benedetta e Silvia, assieme ad altre 5 mamme con figlie e con la loro insegnante di ballo, si erano fermate lì, spaventate e pietrificate, indecise se scappare via in macchina o ritornare nella scuola di danza. Ma la struttura si trovava al piano terra e quindi sarebbe stato imprudente fare marcia indietro. Per buona sorte, esistono persone pronte a soccorrere il prossimo, pur mettendo a rischio la propria vita; Jolanda non ha esitato un solo istante a scendere ed aprire il portone del palazzo per far entrare quelle 14 persone terrorizzate e infreddolite, nonostante la situazione fosse rischiosa e stesse degenerando attimo dopo attimo. Tuttavia, Jolanda era ben consapevole che se non avesse aiutato quelle persone non se lo sarebbe mai perdonato.

La donna salvatrice abita al settimo piano, il mese prossimo compirà 74 anni e vive con due meravigliosi gatti, Luna e Chicco. Dunque le 15 donne, in compagnia dei due felini, hanno trascorso le ore del temporale insieme, dandosi forza e coraggio a vicenda e cercando di proteggere i gatti dai rumori frastornanti del temporale e di distrarre le bambine, quelle più piccole, con giochi e favole.

Al termine del temporale la città era distrutta e per tornare a casa hanno dovuto farsi trasportare dai Vigili del Fuoco a bordo di un gommone.

“Sono felice che sia andato tutto bene, sono però molto afflitta per le persone disperse, per quelle che hanno perso i loro parenti e per quelle che hanno perso la vita. Credo che non me ne sarei mai fatta una ragione se fosse capitato qualcosa di brutto a qualcuno a me caro.”

Lucia parla della sua esperienza durante la notte del 15 settembre a Jesi e ci narra, tramite i racconti di sua sorella minore e di sua madre, come hanno vissuto quella notte e come oggi cercano di superare il brutto accaduto.

Lucia, come hai vissuto il momento in cui tua madre e tua sorella si trovavano per strada il 15 settembre?

Ho vissuto nel terrore, nella paura più grande che potessi mai provare in tutta la mia vita: quella di non rivedere mai più mia madre e mia sorella.  Per fortuna hanno avuto la grazia di incontrare questa donna meravigliosa che le ha accolte e trattate come figlie dando loro dei vestiti asciutti, cibo e dedicando molto tempo a mia sorella e alle sue compagne di danza. Ho saputo che la signora Jolanda è stata un’insegnante alla scuola materna e che ama profondamente i bambini, forse per questo ha un animo così gentile e generoso.

Tua madre e tua sorella hanno superato la brutta vicenda?

Mia madre è ancora molto turbata anche se non vuole darlo a vedere per proteggerci, per dare lei forza a noi; lei è una donna molto altruista e non ha mai voluto mostrare le sue paure per non farci sentire il peso delle sue preoccupazioni. La piccola Benedetta, invece, inizialmente pareva stesse bene e che avesse superato alla grande e in fretta l’accaduto, o addirittura si comportava come se non fosse successo a lei. Ma dopo solo un giorno dal loro ritorno ha iniziato ad avere incubi durante il sonno; chiaramente tutti tormentati da tempeste, uragani, tornadi, o mostri fatti di acqua, perché è pur sempre una bambina e la fantasia gioca anche nei momenti bui. Anche se credo che qualcosa l’abbia pur romanzata, ma le lascio raccontare liberamente ciò che vuole, forse la creatività la aiuta a liberarsi dalle paure.

Che provvedimenti pensate di prendere per la bambina?

Deve passare un po’ di tempo prima che Benedetta si riprenda del tutto, io e mia madre abbiamo pensato di portarla in terapia da uno psicanalista per poter affrontare la situazione in modo consapevole e non solo in famiglia che, per quanto il nostro amore per lei incondizionato le sarà di supporto, non siamo in grado di sostenerla come farebbe uno specialista.

Cosa pensa Benedetta per quanto riguarda andare in terapia?

Posso dire che mia sorella, per avere solo otto anni, è una bambina abbastanza matura, forse perché i nostri genitori ci hanno dato, a mio parere, un’ottima educazione facendoci comprendere il valore delle cose materiali e dei rapporti umani, coccolandoci ma senza viziarci, essendoci di supporto ma lasciandoci anche libere di fare le nostre scelte senza condizionarci. Dunque Benedetta è contenta di andare dallo psicologo anche perché sa bene che può parlargli di qualsiasi cosa senza essere giudicata ma venendo soltanto aiutata. Lei sa bene di cosa si tratta perché nostra zia, la sorella di nostro padre, è psicoterapeuta e quindi conosce bene, tramite i racconti di zia, le dinamiche di uno psicologo con i bambini e ne pare divertita e interessata quando la ascolta. Purtroppo, però, zia Nilde non può analizzare Benedetta perché in questi casi si è coinvolti emotivamente, anche se ha ugualmente espresso il suo parere, dicendo che la bambina è molto sveglia ed ha un carattere molto forte e che quindi supererà tutto molto presto e con grande caparbia. Tutti noi speriamo che questa tragedia diventi soltanto un ricordo assopito.

Alessandra Federico

Milano Fashion Week 2022 presenta le collezioni primavera estate 2023

La settimana più entusiasmante nella sfera della moda è ormai alle porte e gli appassionati dell’alta moda potranno godersi questo momento tanto atteso dal giorno 20 al giorno 26 settembre 2022. Durante lo spettacolo scenderanno in passerella le collezioni Donna Primavera/Estate 2023 con un cospicuo calendario di incontri: 30 eventi all’interno del Fashion Show con 11 presentazioni, 210 appuntamenti e ben 68 sfilate.

Camera Moda ha rivelato, durante la conferenza stampa di presentazione, tantissime novità che ci saranno nel corso della Fashion Week; celebrazioni, esibizioni, commemorazioni, esordi e premi.

Questa volta, la Fashion Week, presenterà anche collezioni di diversi stilisti emergenti come quella di Matty Bivan (stilista sostenuto da Dolce & Gabbana) e di Stella Jean, abiti indossati e sfilati dalla affascinante  modella svizzera Bally.

Il compito di Laura Biagiotti, invece, sarà quello di chiudere lo show con la sua collezione, prima di cedere il posto agli eventi digitali che si terranno l’ultimo giorno della fashion week: il 26 settembre debutteranno Mmusomaxwell, Durazzi Milano e Viviers (Brand sudafricano supportato da Lezanne Viviers). Act N.1 invece, presenterà la sua sfilata live sul canale Instragam di Valentino. Anche Diesel presenterà la sua collezione attraverso in digitale e, inoltre, a questo evento digitale, potranno partecipare tutti gli appassionati di moda attivando semplicemente una registrazione online. Anche Andrea Incontri debutterà con la direzione creativa di Benetton e Maximilian Davis e direzione creativa di Salvatore Ferragamo. Tuttavia, ad aprire la fashion week, sarà lo stilista sardo Antonio Marras (che fa parte del team Calzedonia). Ma non finisce qui, perché oltre alla presentazione di tanti meravigliosi e accattivanti creazioni di abiti, ci sarà un altro motivo fondamentale per il quale festeggiare: due anniversari di due illustri stilisti, ad oggi fra le icone nel mondo del fashion che hanno contribuito a fare la storia della moda, Moncler e Anteprima che celebrano 70 e 30 anni di successo. Ancora, ce ne saranno delle belle, potremmo dire, per questa settimana della moda di Milano: anche stavolta hanno preferito dare voce all’arte e alla sostenibilità: il 25 settembre si terranno i Cnmi Sustainable Fashion Awards in collaborazione con la Ethical Fashion Initiative (Efi) delle Nazioni Unite, con il sostegno del ministero degli Affari Esteri, Agenzia Ice e Comune di Milano. “Siamo orgogliosi di presentare un programma ricco di attività e di grande respiro internazionale. Il programma riflette il nostro impegno verso tematiche di primaria importanza, tra cui la promozione della sostenibilità, il supporto di giovani talenti e la costruzione di una cultura della moda inclusiva.”, ha dichiarato il presidente di Camera Moda, Carlo Capassa, durante la conferenza stampa. Con queste parole, Capassa, ha consentito di celebrare la moda sostenibile con una serata esclusiva, all’interno del Teatro più importante di Milano, il Teatro alla Scala. Tanti saranno gli eventi speciali nel corso di questa Fashion Week, all’insegna della passione, divertimento, e forti emozioni che ci regalerà ogni fashion stylist.

Alessandra Federico

Carla Fracci, la regina della danza classica

Carla Fracci (Carolina Fracci), ballerina italiana, nasce a Milano il 20 agosto del 1936 e, sin da piccola, dimostra il suo talento per la danza; la sua innata eleganza, il suo portamento signorile e raffinato come quello di un cigno, l’hanno portata a diventare una delle più brave ballerine al mondo. Non a caso, dal New York Times, nel 1981, fu definita la prima ballerina assoluta.

Figlia di Luigi Fracci di origine sarde, sergente maggiore degli alpini in Russia stabilito a Milano dopo il ritorno dall’unione Sovietica e di Santa Rocca, operaia alla Innocenti di Milano, Carla, con l’arrivo della guerra, assieme all’intero nucleo familiare, si trasferisce dalla madre di Santa (Argelide) nella campagna di Volongo.

Al termine della guerra, Luigi Fracci, ottenne un posto come impiegato dell’azienda tranviaria come conducente a Milano e, da lì a poco, tornò insieme con la sua famiglia, nuovamente nella loro città natale. Carla, che aveva da poco iniziato la quinta elementare, quasi ogni pomeriggio, dopo aver terminato i compiti per la scuola, andava con la sua mamma e il suo papà al circolo ricreativo dell’azienda di trasporti dove, durante una festa di ballo, alcuni colleghi di lavoro di Luigi notarono, sin da subito, la grande capacità che la bambina aveva nel seguire a ritmo la musica riuscendo, perfettamente, a stare a passo con le note. Così, pochi giorni dopo la festa, grazie a chi l’aveva notata e convinto i genitori che fosse un talento sprecato e che studiando, probabilmente, sarebbe diventata una brava ballerina, Carla riuscì a sostenere un’audizione al Teatro alla Scala. Non fu arduo superare la selezione; la giovane aspirante ballerina fu immediatamente notata per il suo immenso talento, ma, come per tutte le passioni, anche la danza ha bisogno di tempo e dedizione, sacrifici e determinazione, inoltre, la danza classica richiede una severa disciplina e rigide regole da rispettare e, anche se questo a Carla non mancava, nei primi tempi, provò molta difficoltà ad adeguarsi in una circostanza per lei totalmente nuova e soffocante: Carla era solita danzare, correre e giocare negli spazi aperti come in campagna da sua nonna e, quindi, sentiva di dover fare grande sforzo per ambientarsi in un posto chiuso senza sentire nostalgia della libertà.

Per trovare continui stimoli, incoraggiamenti e riuscire a sentirsi ugualmente a suo agio quando danzava, Carla, pensava ai momenti trascorsi con sua nonna in campagna, momenti in cui si sentiva libera come una libellula: la libellula è stata per lei il simbolo che l’ha accompagnata durante tutta la sua carriera da ballerina, perché era per lei l’emblema della leggerezza, e questi pensieri gioiosi e positivi l’hanno sostenuta nei momenti di sconforto e aiutata a risollevarsi ogni volta che crollava sia psicologicamente che fisicamente.

Un altro pilastro della sua vita, soprattutto durante la sua carriera, per Carla è stata Margot Fonteyn, sua compagna di danza nonché migliore amica.

Margot riuscì a far sentire Carla a proprio agio, ponendole un differente punto di vista nei confronti di quella disciplina tanto severa che la Fracci spesso non riusciva a reggere: la danza le avrebbe portate lontano, magari insieme, e le avrebbe fatto viaggiare, sognare, appassionare e vivere davvero, e a queste parole, Carla, si strinse forte per tutta la vita. Margot regalò a Carla una spilla d’oro a forma di libellula che quest’ultima avrebbe portato sempre con sé, come una sorta di portafortuna.

Carla aveva una forte passione per la danza classica e stava finalmente credendo fortemente nelle sue doti, e oramai il suo talento stava diventando evidente agli occhi di tutti: dopo soli due anni di studio alla Scala, la Fracci, divenne danzatrice solista (prima ballerina). Si diplomò nel 1954 e fu il giorno più emozionante della sua vita insieme al giorno del suo matrimonio: la mitica danzatrice italiana trovò tempo anche per la sfera amorosa, sposò il regista Beppe Menegatti nel 1964 e nel 1969 diede alla luce il figlio Francesco. Beppe, da quel momento in poi, gestì la regia delle creazioni interpretate da Carla.

Il London Festival Ballet, il Sadler’s Welles Ballet (ora Royal Ballet), il Balletto di Stoccarda e il Balletto reale svedese furono le compagnie con le quali la Fracci danzò tra la fine degli Anni Cinquanta e gli Anni Settanta.

Il cavallo di battaglia della Fracci era Giselle, a lei seguirono tante altre interpretazioni di ruoli drammatici e romantici come La Sylphide, Romeo e Giulietta, Coppélia, Francesca da Rimini, Medea.

La sua strada era spianata e la Fracci non poteva che godersi tutto quel successo che cresceva di giorno in giorno; Carla danzò con diversi noti ballerini come il grande Rudolf Nureyev, Vladimir Vasiliev, Henning Kronstam, Alexander Goduov, Gheorghe lancu, Marinel Stefanescu, e con il mitico Roberto Bolle.

La Fracci iniziò a comparire anche nelle serie televisive come quella dello sceneggiato Rai, diretto da Renato Castellani nel 1982. Mentre, alla fine degli Anni ‘80, la regina della danza diresse il corpo di ballo del Teatro San Carlo di Napoli.

Dal 1996 al 1997 diresse il corpo di ballo dell’arena di Verona. Interpretò anche ruoli nei programmi: Il pomeriggio di fauno, Onegin, La vita di Maria, A.M.W., La bambola di Kokoschka. Furono innumerevoli le sue interpretazioni nel corso di quegli anni e tutti ruoli principali. Donna forte, caparbia e temeraria era diventata la Fracci, tanto da riuscire a coprire diversi ruoli nel corso della sua vita: dal 1994 fu membro dell’Accademia di Belle Arti di Brera e dal 1995 fu presidente dell’associazione ambientalista Altritalia Ambiente. Ancora, nel 2004 fu nominata Ambasciatrice di buona volontà della FAO. Anche lo Zecchino d’Oro la invitò nel 1997 come ospite alla serata finale della 40esima edizione.

Per ben 10 lunghi anni diresse il corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma, dal 2000 al 2010. Nel 2008 fece parte dell’album “Studentessi”, con il gruppo rock “Elio e le storie tese”. Anche non più in giovane età la suprema della danza continuava a praticare le sue passioni: dicembre 2013 pubblicò la sua prima autobiografia con Arnoldo Mondadori Editore, intitolata “Passo dopo Passo” a cura di Enrico Rotelli.

Nel giugno del 2009 fino al 2014 è stata Assessore alla Cultura della Provincia di Firenze. Nel 2015 è stata ambasciatrice di Expo. Carla Fracci è morta il 27 maggio del 2021 a 84 anni. La determinazione e l’audacia della Fracci, icona nel mondo della danza classica, sarà di grande insegnamento per chiunque abbia un sogno da realizzare.

Alessandra Federico

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