Le ecofotopasseggiate di “Operazione Napoli città pulita”

“Operazione Napoli città pulita”  è un progetto che nasce con lo scopo di far riemergere questa città  ricca di storia e tradizioni, di arte, cultura e arte culinaria dai mille e più sapori, liberandola dai rifiuti che per anni hanno sommerso e nascosto il suo grande valore. La fotografia, ad esempio, è un efficace mezzo di rivolta ai fini di un concreto mutamento, perché attraverso quest’ultima si inducono i soggetti coinvolti a riflettere sulle tematiche affrontate e sui modi per produrre cambiamenti.

La fotografia come arma di rivoluzione, fermare tutti quegli attimi che sono in grado di accendere  una miccia nel nostro cervello. Perché la fotografia ha ancora la forza di smuovere le masse. Di accendere   gli animi. Di  creare  rivoluzioni.”  Gianni Berengo Gardin fotoreporter

Sarà proprio la fotografia  il perno centrale del  vasto programma di attività che svolgeranno le Associazioni che hanno promosso il progetto “Operazione Napoli città pulita” che si propongono di contribuire allo sviluppo della coscienza civica.  La prima iniziativa  sarà  una serie di passeggiate  ecologiche, storiche ed artistiche-architettoniche, nei meravigliosi luoghi  di Napoli deturpati e resi indecenti dal comportamento spesso irresponsabile dell’uomo. Il primo incontro è avvenuto lo scorso dodici ottobre in uno dei siti  che più rappresenta l’involuzione della società  nei riguardi del rispetto dell’arte, della natura  e della dignità umana: Piazza Carlo III, dominata dalla mole del Real Albergo dei Poveri, frutto della maestria  di Ferdinando Fuga nel XIX secolo (fatto edificare da re Carlo III per offrire ai cittadini bisognosi e ai senza tetto un ricovero e assistenza). Durante l’incontro  del dodici ottobre, che si è svolto presso il Caffè Vanvitelli a piazza Carlo III, è stato notevole e interessante l’intervento dei rappresentanti delle Associazioni che hanno promosso il progetto, i quali hanno raccontato le tante funzioni che Palazzo Fuga ha avuto nei decenni della sua storia e tale informazione ha permesso poi di mettere a confronto la grande umanità che contraddistingueva la classe dirigente dell’epoca con il pressapochismo e incapacità delle attuali politiche sociali, sorde e cieche nei confronti della popolazione sofferente. Difatti, nei secoli la struttura ha acquisito diverse funzioni quali l’accoglienza  e l’istruzione per gli orfani e gli indigenti,  è stata una  scuola di musica, un carcere, scuola per sordomuti e non solo, è stata anche un centro educativo per minori. Ancora, in questo luogo,  due secoli fa, si restituiva  dignità e sicurezza ai diseredati; una famiglia agli  esclusi, ai senzatetto una casa, e ai giovani si insegnava un lavoro con cui vivere. Proprio per questi suoi usi umanitari, il progetto “Operazione Napoli città pulita” ha considerato  questo luogo il più pertinente dove iniziare il lungo percorso  per far sì che Napoli si liberi dalla sporcizia fisica e dalla miseria morale che da troppo tempo rischia di devastarla, a dispetto  della sua luminosa storia e degli immensi tesori che custodisce. Tuttavia, nonostante la storia ci racconti che al suo tempo la struttura fu utilizzata per scopo solidale, accogliente e altruista, durante gli  anni del progresso  tecnologico e  dello sviluppo  economico si sono ugualmente dimenticati i valori della  solidarietà e del rispetto della persona. Per questo Napoli ha estremo bisogno di un’azione di riappropriazione della città per liberarsi dalla situazione nella quale  si trova attualmente per incuria e superficialità di parte della sua classe dirigente. Nel contempo, però, pare proprio che la popolazione popolo stia rapidamente acquisendo  consapevolezza del grande valore della città partenopea e che ora sia pronta a portare avanti un’opera di cambiamento  per evitare che muoia con tutti i suoi figli. L’incontro del dodici ottobre è proseguito con la visita alla piazza dai giardini devastati e ricolmi di rifiuti, al palazzo Fuga circondato da aiuole con cespugli selvatici che accolgono senzatetto che vivono tra rifiuti di ogni genere. Tutto puntualmente documentato da un attento reportage fotografico.

Alessandra Federico

Una nuova collana dedicata alla grande saga medievale di re Artù

Un viaggio nel mondo della leggenda e della magia con “Le Cronache di Excalibur: i miti di Re Artù”, il mitico re della spada nella roccia. Il suo mito affonda le radici nella cultura celtica e con il trascorrere dei secoli si è arricchito sempre più di avventure che hanno dato vita al più importante ciclo narrativo del Medioevo.

La saga va in edicola con una preziosa veste grafica  per le edizioni RBA Italia che ha evidenziato, nel sito dedicato, l’intenzione principale della pubblicazione periodica “La nostra edizione Codex Kelmscott si ispira ai disegni di William Morris e a quelli di altri celebri maestri, per ricreare un Medioevo tra storia e leggenda. Le copertine così come gli interni, sono impreziositi da raffinate cornici ispirate alle decorazioni che William Morris realizzò per i Racconti di Canterbury del poeta medievale Geoffrey Chaucer, pubblicati nel 1896 dalla sua casa editrice Kelmscott. Inoltre i colori e i preziosi rilievi stampati a secco evocano le edizioni medievali”.

Dopo le prime uscite Il mago Merlino e il potere del drago; Il Re Artù ed Excalibur nella roccia / La fata Morgana e il fuoco della vendetta; La ricerca del Sacro Graal, seguiranno Il mago Merlino nella torre oscura; Il potere di Camelot e la terra maledetta; La dama del lago e il segreto di Avalon; Il Re Artù contro gli undici regni; La ricerca del Graal e le armi sacre; L’isola di Avalon e le antiche divinità; La fata Morgana e il tradimento del sangue.

Un mondo e una saga da scoprire attraverso  personaggi, situazioni, luoghi e descrizioni fantastiche.

Orsola Grimaldi

Valerio Catoia: l’eroe tutto fare con la sindrome di Down diventa poliziotto

Valerio è un capo scout, Alfiere della Repubblica, ballerino di danza afro-caraibica, è un atleta paralimpico, nuota a livello agonistico e lavora in un’azienda che vende energia pulita. Ma non finisce qui, Valerio, da mercoledì 29 settembre, è un poliziotto ad honorem. Ha ottenuto il ruolo per aver dimostrato di avere grandi capacità e tutti i requisiti per svolgere questo lavoro; coraggio, determinazione, e soprattutto tanta grinta e non solo, ha conseguito eccellentemente tutto il percorso gli studi. Ha dimostrato di possedere grande forza, audacia e generosità quando, appena diciassettenne, salvò una bambina che rischiava di annegare. Oggi Catoia ha ventuno anni e ha raggiunto il suo grande sogno di diventare poliziotto.

“Sono emozionato e felicissimo di ricevere questo premio, per me un grande onore far parte della Polizia!”Afferma Valerio, dopo la cerimonia dedicata a lui nel parco Archeologico del Colosseo a Roma mercoledì 29 settembre. Non potevano mancare, purtroppo, le offese e le critiche colme di rabbia e disprezzo attraverso i social. “Valerio è argento vivo” – afferma con grande orgoglio il padre del ragazzo. Valerio è affetto dalla sindrome di Down e da sempre i suoi genitori cercano di proteggerlo da chi, possedendo poca sensibilità, ha sempre cercato di sminuirlo. “Valerio è un fiore destinato a non sbocciare” – queste sono state le parole dei medici quando è nato Valerio – ma, al contrario di ciò che si presumeva, il giovane poliziotto è un fiore che sboccia continuamente ed è costantemente motivo di orgoglio e soddisfazione per i suoi genitori. Generoso, altruista, combattivo e ricco di entusiasmo, Valerio non si lascia abbattere dai pregiudizi a volte crudeli, al contrario, dimostra ancora una volta di aver grandi doti prendendo la decisione di non rispondere sui social ad alcuna provocazione, ma andando, e, quasi con indifferenza nei confronti dell’accaduto, direttamente a denunciare  alla polizia postale la questione. Tante, troppe le offese cariche di odio, di derisione che ha dovuto subire Valerio sui social. Difatti, la polizia ha voluto coinvolgere il ragazzo in una campagna per la sensibilizzazione delle persone sull’uso consapevole della rete contro l’odio. “La noia, la stupidità? Ho pensato persino che il fisico scolpito di Valerio possa avere dato fastidio, magari non te lo aspetti, no?”. Sono le parole del padre di Valerio, che, assieme a sua moglie, avevano inizialmente e con l’intenzione di proteggerlo, deciso di non tenerlo al corrente delle offese ricevute sui social network. “Stargli dietro è un privilegio, ma anche molto faticoso, non per la sua condizione, ma perché non si ferma mai” affermano i genitori sorridendo. Perché Valerio, sin da bambino, ha sempre seguito ogni suo sogno, niente per lui è mai stato un ostacolo, alcun sorrisino ironico dei compagni di banco e alcun pregiudizio di chi credeva e sosteneva che non ce l’avrebbe fatta a realizzare ciò che voleva sono stati per lui motivo per arrendersi o non credere in sé, al contrario, ha da sempre avuto una grande forza di volontà e voglia di esplorare e scoprire il mondo in ogni sua sfaccettatura; non a caso Valerio ama fare tante cose che racchiudono sia cultura che attività fisica. Insomma, Valerio è davvero un’esplosione di energia e dal quale chiunque dovrebbe, invece di provare invidia o deriderlo, prenderne esempio.

Alessandra Federico

Britney Spears: la regina del pop è finalmente libera

Britney Spears è finalmente libera. Il tribunale di Los Angeles ha stabilito che James Spears (padre della cantante) dovrà rinunciare al ruolo di tutore di sua figlia. James dovrà smettere di occuparsi delle finanze di Britney e soprattutto della sua vita privata come fino a poco fa aveva fatto (sin dal 2008).  Al posto del padre e per il momento il tutore legale della Spears sarà Jhon Zabel (commercialista). Tutto ebbe inizio quando, in seguito ad una crisi nervosa, la giovane cantante fu sottoposta ad una condizione di tutela legale in cui si trattava dell’impedimento del libero controllo del suo patrimonio e addirittura della gestione autonoma della sua vita privata.

Britney sosteneva da tempo di subire gravi forme di abuso da parte del padre ed è per questo motivo che chiedeva insistentemente che smettesse di essere il suo tutore. A dirla tutta, a inizio settembre James Spears, aveva proposto di terminare la tutela legale nei confronti della figlia e la giudice del tribunale ha accolto la sua richiesta. A causa del padre, Britney, avrebbe trascorso un lunghissimo periodo subissata dalla sofferenza. Un vero incubo per la cantante che, per tredici lunghi anni, sembra non abbia potuto vivere la sua vita liberamente ed è per questo che non voleva più debuttare fin quando il padre non sarebbe uscito dalla sua vita.

“E’ un uomo crudele, tossico e violento, Britney lo vuole fuori dalla sua vita oggi stesso e merita di svegliarsi domani sapendo che suo padre non è più il suo tutore”. L’avvocato sembra aver sostenuto anche che James fosse stata una persona violenta non solo in questi ultimi tredici anni, ma fin quando Britney era solo una bambina. “Per tutti questi anni non ho vissuto. Sto portando questa vicenda all’attenzione del pubblico perché non voglio che pensino che la mia vita sia perfetta, perché sicuramente non lo è affatto… Ovviamente ora sapete davvero che non lo è. L’ho fatto a causa del mio orgoglio ed ero imbarazzata a condividere ciò che mi è successo. Vi raccontavo che la mia vita era una completa favola: in realtà era un inferno”. Le parole della regina del pop fanno comprendere chiaramente lo stato d’animo, la sua sofferenza.  Era l’inizio del 2007 quando la vita di Britney è cambiata del tutto, quando la sua vita è finita nelle mani di chi prima l’ha messo al mondo e poi l’ha distrutta. Il padre di Britney avrebbe preso questa decisione in seguito ad una particolare vicenda; Britney, non appena aveva lasciato il centro di riabilitazione, si recò in un salone di bellezza a Los Angeles per radersi la testa, questo atto impulsivo fu causato  dal rifiuto del suo ex dopo la sua richiesta di farle vedere i figli. Da quel momento in poi Britney soffrì più volte di diverse crisi nervose e decise quindi, di sua spontanea volontà, di trascorrere un po’ di tempo in più strutture di trattamento. Nonostante ciò la giovane cantante l’anno successivo pubblicò il suo album Blackout vendendo tre milioni di copie in tutto il mondo.  Ma la vita della pop star era ugualmente sotto tutela del padre che aveva ottenuto il controllo assoluto di ogni aspetto della sua vita, da quella privata a quella professionale o sentimentale facendole perdere anche il diritto di tutela dei suoi figli; le persone sotto tutela legale non hanno il permesso di guidare, votare, nemmeno avere figli nè sposarsi. Poco tempo dopo ci fu un susseguirsi di numerose visite e valutazioni psichiatriche involontarie della durata di  settantadue ore e da quel momento in poi Britney si limitò a sopravvivere. Adesso che ha ottenuto la piena libertà le auguriamo di riprendersi tutto il tempo perso e di essere finalmente padrona della sua vita.

Alessandra Federico

A Porto Torres convegno su “Prove di ripartenze”

. A Porto Torres le proposte della FIP CISAL

“Abbiamo necessità di allargare il fronte…”.

L’incipit nel saluto istituzionale di Massimo Mulas, sindaco di Porto Torres, apre i lavori del Convegno Provinciale FIP CISAL di Sassari, realizzatosi nel pomeriggio del trenta settembre, presso l’auditorium comunale “Filippo Canu” a Porto Torres.

L’iniziativa, organizzata dalla Segreteria Provinciale Cisal di Sassari è stata seguita da alcune decine di iscritti e simpatizzanti turritani.

Intervenuti all’assise muniti di invito personale e certificato sanitario vigente (green pass), per garantire la massima prevenzione del caso, nel rispetto del distanziamento sociale, imposto e necessario in un ambiente indoor quale la sala congressi comunale.

Nino Fiori, segretario provinciale Fip/Cisal, introduce i relatori e ne modera gli interventi in modo puntuale.

La sua presentazione essenziale ha ricordato i suoi trascorsi turritani nell’inizio della carriera da insegnante. Nel riconoscimento socio economico di Porto Torres, Fiori ha incluso più di un valore aggiunto, non da ultimo, l’importante numero di pensionati locali, iscritti Fip Cisal, oltre la decisiva rappresentanza di tre lavoratrici turritane in organico al C.a.f. affiliato alla struttura di Viale Umberto.

Coinvolgenti e solidali i pochi secondi di silenzio in sala per ricordare i quindici anziani del sassarese, iscritti Fip, scomparsi nella tragedia della pandemia covid19.

L’onorevole Gavino Manca, attualmente impegnato alla Camera dei Deputati, nel suo primo intervento della serata, ha ribadito il concetto espresso nel saluto del sindaco, ovvero condividere con tutti i colleghi parlamentari sardi, una visione trasversale e unanime, l’impegno prioritario di sostenere la ripartenza sociale, economica dell’isola.

L’assise ha vissuto la fase essenziale nella relazione di Franco Cavallaro, segretario generale nazionale Cisal.

Inclusiva, di ampio respiro, l’analisi di Cavallaro ha toccato vari punti salienti del pianeta lavoro in Italia, prescindendo dal fenomeno planetario della pandemia che ha drammaticamente sospeso l’evoluzione temporale dei popoli, della nostra vita “normale”.

Il presidente Cisal, un articolato vissuto alle spalle con importanti incarichi amministrativi istituzionali ricoperti – non ultimo, quello da sindaco a Dinami, suo luogo natio in provincia di Vibo Valentia –si è soffermato, inevitabilmente, sullo stato delle Politiche attive del Lavoro in Italia, ricordando all’uopo l’acceso dibattito in essere su alcuni provvedimenti dirimenti quando non divisivi, come il noto “reddito di cittadinanza”, norme che nell’attuazione delle stesse, sembrano trascurare il tema decisivo, strategico nelle originarie aspettative del dispositivo fondato sull’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

La famosa “seconda gamba” della riforma che riconosceva nei centri per l’impiego, le agenzie regionali per il lavoro (forti dei famosi navigator ndr) lo strumento vincente per contrastare la crisi occupazionale nel nostro Paese.

Sappiamo, più o meno, come è andata a finire o quasi con l’uso enfatico di un sostegno economico diffuso per una fascia importante di soggetti incapienti o comunque non coinvolti, nella maggior parte dei casi, in processi d’inserimento occupazionale né per un necessario reinserimento nel mercato del lavoro per le migliaia di ex lavoratori, licenziati in questa stagione pandemica.

Difficile poter approfondire in un seminario problematiche complesse rese drammatiche dalla pandemia. E’ invece importante poter provare a riprendere occasioni d’incontro in presenza per scoprire e ricordare modalità di relazioni che nel comparto industriale e economico, fra le parti sociali, rischiano di essere compromesse o superate definitivamente.

Su questo aspetto Cavallaro non ha fatto sconti, neppure all’attuale Premier, avvolto da un’aurea d’immanenza mediale.

Lo stato d’emergenza per la pandemia, non può e non deve prescindere da un dialogo costruttivo scevro da diktat unilaterali.

Senza scomodare necessariamente una stagione non ripetibile dello scorso secolo (la nota, talvolta usurata nel termine, “concertazione”), solo la partecipazione attiva e plurale dei cittadini potrà fare la differenza.

Se il Sindacato italiano, nella sua accezione plurale, registra la principale adesione nei cittadini in pensione, ci sarà più di un problema da affrontare.

Luigi Coppola

 

 

 

(Foto di Luigi Coppola: Sindaco Massimo Mulas, Segretario generale FIP CISAL Franco Cavallaro)

L’esercizio della filosofia. Per una vitale incertezza. Con un poemetto di Pasquale Panella

In un tempo di crisi e di fondamentalismi il dissenso può costituire il senso stesso della filosofia?
Parliamo di un tempo di crisi nel senso di “crisi dei fondamenti” (o anche del concetto stesso di fondamento), crisi di concetti quali: progresso, storia come linea unica, razionale e progressiva, realtà, verità, umanità. La fine di quelli che Lyotard chiamò i “grandi racconti”, insomma l’orizzonte culturale ed esistenziale dell’annuncio nietzscheano della morte di Dio. Paradossalmente è anche il tempo dei tanti fondamentalismi, non solo religiosi (anche se è stato osservato che proprio da quando “Dio è morto” assistiamo ad un continuo fiorire di intolleranze, conflitti religiosi e guerre sante nel nome di Dio). Da un certo punto di vista, la questione del dissenso va ad incrociare proprio questi due aspetti, crisi dei fondamenti e odierni fondamentalismi.
Il termine “dissenso” ha avuto, almeno in Italia, una storia, un uso e una interpretazione alquanto particolari. Ricordiamo i “cattolici del dissenso” e l’opera dei “dissidenti” russi e dell’Europa allora chiamata “dell’est”. Per la verità, nel mondo della sinistra di quei tempi l’espressione “dissenso” non godeva di molta fortuna, perché considerata lontana se non avversa alla pratica e al pensiero “rivoluzionari” (ma ricorderemo, qui, che ogni potere istituito da una rivoluzione si è prodotto in una sistematica repressione del “dissenso”…)
Proporrei di pensare al termine dissenso non riferendoci al piano dell’espressione – di parola, di pensiero (e anche alle sue molte ombre, basti pensare alla “tolleranza repressiva” di cui scrisse Marcuse) – quanto al piano dell’esperienza, del vissuto: il dis-sentire ha a che fare con il senso e più ancora con il prefisso dis-.
Il prefisso indica dispersione oppure separazione, taglio, discrimine. In questo senso, anche dis-sesto (esser fuori sesto, vivere un tempo disturbato,“out of joint” come dice Amleto, come una spalla che va fuori posto, disarticolata), dismissione della sicurezza e esercizio di incertezza.
Anche dis-sociazione: in una avvertenza premessa al dattiloscritto del progetto inedito di Husserl per una trattazione che avrebbe dovuto costrituire la sesta delle Meditazioni cartesiane, Eugen Fink parla della filosofia come dissociazione, come metodica “schizofrenia” del vivere l’esperienza e contemplare l’esperienza vivente. Dissociato è, dunque, il discorso della filosofia.
Del resto, discorso deriva da discurrĕre: correre di qua e di là. Nel Sofista Platone scrive che il logos non soltanto denomina ma discorre anche, e per questo è detto discorso. Per Platone il pensiero porta dentro di sé una estraneità che gli si oppone e con cui deve fare i conti.
Il dis-senso è dunque il senso stesso della filosofia, del suo discorso. Esperienza vissuta di dissidio, tolleranza dell’incertezza ed esercizio del dubbio: una prospettiva di permanente, sistematica revisione dei codici interni a una data cultura.
Soprattutto in tempi di crisi, di fondamentalismi, di conformistica volontà di piacere (i social e la conta dei like…) e ricerca del consenso, il dissenso andrebbe inteso come la postura stessa della filosofia e del suo esercizio. La postura filosofica, capace di sostenere un attrito. La contemporaneità va infatti intesa nel suo senso più proprio, ossia compresenza e attrito di tempi diversi all’interno dello stesso tempo.
Il “limite”, attraverso i temi del confine, del gioco, del silenzio e dello stile in filosofia, è da anni al centro dei suoi lavori. Ebbene, “L’esercizio della filosofia” quale ulteriore apporto offre a “Voci di confine. Il limite e la scrittura” ed a “Ludus Mundi. Idea della filosofia”?
L’esercizio della filosofia porta a conclusione un percorso iniziato con i due libri da lei citati, pubblicati nel 2011 e nel 2016. Come ricordo e chiarisco nella Premessa, si tratta di un percorso durato dunque un decennio, che ha tuttavia iniziato a prendere forma nei miei lavori del decennio precedente. Ma a convergere in questo libro sono anche i seminari annuali che ho tenuto a Roma presso la galleria La Nuova Pesa, le conferenze e lezioni presso il Macro e il Museo delle Periferie di Roma, i dialoghi al Circolo dei Lettori di Torino, il Forum sulla pandemia curato alla Società Filosofica Europea di Ricerca e Alti Studi (Sfera). Il libro, insomma, non è soltanto la conclusione di una trilogia ma anche il primo tracciarsi di una proposta teorica, che queste pagine si assumono il compito di introdurre. Nella premessa ricordo anche che il libro è stato scritto durante la pandemia e che il tema della pandemia attraversa, con toni differenti, tutte le pagine del libro, a partire dagli stessi titoli dei capitoli. Ma esperienza, incertezza, distanza, convalescenza sono innanzitutto i termini attraverso i quali è andata delineandosi l’idea, centrale nel libro, di filosofia come “esercizio”. Ciò in particolar modo attraverso i rimandi a due fondamentali filosofi del Novecento. Il primo è Vladimir Jankélévitch: i due decenni di cui dicevo sono anche quelli che ho dedicato allo studio del suo Philosophie première, di cui ho curato l’edizione italiana, pubblicata proprio mentre lavoravo a L’esercizio della filosofia. Il secondo è Pierre Hadot. Sempre presente nel libro è il richiamo alla sua imprescindibile riflessione sulla filosofia “come modo di vivere”. A questo proposito, considero strettamente connesso a questo libro il mio Monte Athos, il cielo in terra. Esperienze della filosofia (Luca Sossella editore) uscito nel 2018 e in seconda edizione nel 2020.
Lascio infine il posto principale a Pasquale Panella. Il percorso dei due decenni che è all’origine di L’esercizio della filosofia è tutto attraversato dai nostri lavori scritti e pubblicati insieme. Tra i tanti, il suo Orfeo, un cantante chiude le pagine di questo libro, così come un suo poemetto concludeva Ludus Mundi e come i capitoli di Voci di confine hanno ispirato i suoi undici testi di “Pensiero ballabile”.
Lei scrive “Sospendendo e spostando soprattutto in tempi di crisi”. Il filosofo che ha scelto di non conformarsi alla politica e di non aderire alle etichette paga con la solitudine?
Lei si riferisce, evidentemente, ad una pagina di Jankélévitch che commento nel capitolo dedicato alla figura e al ruolo degli “intellettuali” oggi. In quella pagina Jankélévitch denuncia: “Non avere nessuna parentela filosofica con i propri amici politici, né alcuna connivenza politica con dei filosofi che forse condividono il nostro destino filosofico: è un triste destino filosofico. Ed è il mio destino. Nello stato gregario in cui oggi si esercita la funzione filosofica, chi non ha scelto il proprio pubblico e il proprio gregge è condannato alla solitudine: non ha un’etichetta sulle spalle, non è individuabile, non ha famiglia”. Nel mio commento a quella pagina riprendo un passo di Jankélevitch in cui egli tuttavia ci avverte: “Perché privarsi delle scoperte che ci riservano i cammini nascosti e abbandonati, deviati dei vagabondi? Le scoperte che vi si possono fare non sono giudicate degne di figurare sulle guide blu della cultura… E tuttavia la necessità di rompere con le idee date e acquisire nuove abitudini” è proprio ciò che fa sì che la cultura e ” la filosofia si nutrano di domande sempre nuove”. Insomma, in quel “triste” destino, in quella solitudine risuona tutta la carica dell’ironia di Janhélévitch: la postura socratica, solitaria, che non è isolamento; la messa a distanza che non è distanziamento sociale; il dissenso del non esser-di casa che non è il disagio che, come nei tempi di pandemia, si può provare proprio mentre si “resta a casa”…In altri termini, è quanto dicevamo prima su filosofia e dissenso, filosofia e contemporaneità, dilosofia come perenne indisponibilità ad ogni potere costituito e dogma.
Come deve esercitarsi la Filosofia, secondo il suo parere?
Appunto come esercizio di tale indisponibilità. Esercizio del suo spirito critico, ironico, come costante vigilanza.
“Mantenersi nell’incertezza”, diceva Jankélévitch, è il compito del filodosso convertito alla filosofia. Esercizio del dubbio e tolleranza dell’incertezza. Esercizio di radicale finitezza, pratica del limite, disciplina e “modo di vivere”.
Lei convoca a sostegno delle sue idee pensatori di tutti i tempi: Socrate, Jankélévitch, Hadot, Nietzsche, Heidegger, Gadamer. A me, però, interessa il Mito. Perchè lo chiama in causa?
Nei primi anni novanta, episodio che ricordo nel libro, in Italia si ebbe una fioritura di pubblicazioni e di seminari intorno al mito. Soprattutto all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli si discusse sul tema del mito proponendo nuove prospettive in cui ripensare il rapporto tra filosofia e mito. Partecipai a ciascuno di questi seminari, insieme a Vattimo, Givone, Curi, Rella, alternandosi presentazioni, relazioni e commenti per alcuni anni. Ripensando a quel contesto, forse anche il mio Voci di confine, credo possa essere collocato in quel tipo di riflessione sul tema della narrazione e, nel mio caso in particolare, sulla filosofia come genere di scrittura. In quella fioritura di studi e discussioni, c’era un punto centrale che potremmo formulare così: la “fabulizzazione” del mondo operata dal sistema media-scienze sociali, impone alla coscienza contemporanea l’esigenza di ridefinire la propria posizione nei confronti del mito. In altri termini, caduta in crisi la nozione di storia unitaria, razionale, orientata verso un fine, anche la la metafisica della storia sia idealistica che storicistica è andata perduta. Di conseguenza, la stessa teoria filosofica del mito non riesce più a formularsi nei termini tradizionali. Perché il mito si presenta (ad esempio nella psicoanalisi, nella teoria della storiografia, nella sociologia dei mass media) rispetto al sapere scientifico non come semplice rovesciamento dei caratteri di dimostratività e obiettività, quanto per il suo tratto specifico: la struttura narrativa. Proprio ricordando il tema principale di quei nostri lontani seminari, l’ultima parte di L’esercizio della filosofia è dedicata alle primissime battute del Protagora di Platone. Invitato da Socrate a dimostrare che l’arte politica sia un’arte (potremmo pensare qui alle parole di Jankélévitch prima ricordate) il grande sofista – in un passaggio in verità spesso trascurato dagli interpreti – dice: «Preferite che io lo dimostri mediante un racconto oppure attraverso un ragionamento?». I suoi interlocutori lo invitano a scegliere il modo a lui più gradito e Protagora allora decide per un mito: perché il racconto è più dilettevole rispetto alla dimostrazione concettuale. Il mito non è dunque inteso come una narrazione fantastica destituita di verità quanto, invece, un equivalente modo di dimostrazione. Vedremo lo stesso Platone dimostrare spesso con un racconto quando certi temi saranno difficili da comprendere. Ma la storia della filosofia occidentale, come sappiamo, è anche la storia di una scelta: dimostrare secondo il ragionamento, non secondo il racconto. Autori, opere, narrazioni sono stati messi in ombra, rimossi. E’ una doppia operazione riduzionistica: c’è un solo tipo di pensiero, quello filosofico, e il pensiero filosofico si esprime solo attraverso il ragionamento. E’ dovuta a questa doppia riduzione la difficoltà a far rientrare autori come Kafka, Hölderlin, Proust, in quell’orizzonte di riflessione sulla condizione umana proprio perché, tra le due possibilità protagoree, hanno aderito alla forma della narrazione.
Dall’altra parte, invece, assistiamo al caso di non pochi testi filosofici che a molti spesso appaiono di rilevanza francamente dimenticabile ma inseriti nella pubblicistica filosofica per semplice appartenenza di categoria o di accademia: anche qui, un doppio spostamento. E un duplice “esercizio”: ma questa, come sappiamo, è un’altra storia…

Lucio Saviani, filosofo e scrittore, è uno dei principali esponenti dell’ermeneutica in Italia, (tra i suoi libri: “Ermeneutica radicale come esperimento in Nietzsche”, 1985; “Ermeneutica del gioco”, 1998; “Ermeneutica e scrittura”, 2008, “Voci di confine. Il limite e la scrittura”, 1994, 2011; “Segnalibro”, 1995; “Ludus Mundi. Idea della filosofia”, 2017; “Necessità della filosofia”, 2007; “Monte Athos, il cielo in terra. Esperienze della filosofia”, 2018-2020). Ha curato la prima edizione italiana di “Filosofia prima” di Vladimir Jankélévitch (Moretti&Vitali, 2020). Numerosi anche i suoi saggi in volumi e riviste. E’ socio fondatore della Società Filosofica Europea di Ricerca e Alti Studi. Ha insegnato Storia della Filosofia, Fondamenti di Scienze Umane ed Estetica all’Università “La Sapienza” di Roma. Già consulente di Rai Educational e collaboratore dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, è membro della Società Italiana di Estetica. Negli ultimi anni, per le Giornate della Cultura Italiana, ha tenuto conferenze all’Università di Breslavia, alla City University di New York e negli Istituti Italiani di Cultura di Parigi, di Cracovia e di Praga.

Giuseppina Capone

Il dolore e l’arte in Frida Khalo

“Molte volte nel dolore si trovano i piaceri più profondi, le verità più complesse, la felicità più vera”.

Frida Khalo (Magdalena Carmen Frida Khalo y Calderón ) è stata una pittrice Messicana. Nata a Coyoacàn in Messico il 6 luglio 1907, amava dire, però, che era nata nel 1910 perché  si sentiva figlia della rivoluzione messicana di quell’anno e del Messico moderno.

Una vita non facile e molto travagliata quella della pittrice, ma, nonostante le difficoltà della vita che ha dovuto affrontare, ha, sin da bambina, avuto un carattere temerario, forte, e indipendente, è stata e rimarrà una delle figure femminili più combattive e rivoluzionarie del novecento.

Frida amava l’arte e dipingeva, cominciò per gioco e per passione a dipingere i ritratti che lei stessa realizzava dei suoi compagni  di studio (Cachunas, gruppo di studenti col berretto che indicava un segno distintivo, sostenitori del socialismo nazionale)  della Escuela Nacional preparatoria. Inizialmente, però, aveva prima studiato al collegio tedesco Aleman. Alejandro faceva parte del gruppo e non solo, era il capo spirituale e ispiratore dei cachuchas e studiava diritto e giornalismo. Tra il giovane aspirante giornalista e la giovane aspirante pittrice nacque l’amore ma da lì a poco stava per accadere qualcosa che avrebbe per sempre cambiato la vita di Frida.

L’incidente

Il 17 settembre del 1925, i due innamorati erano in procinto di tornare a casa al termine delle lezioni al collegio, quando il veicolo  su cui viaggiavano si schiantò contro un muro. Frida subì 32 operazioni a causa del tragico incidente poiché le causò gravi conseguenze come la rottura delle colonna vertebrale in tre punti (nella zona lombare), collo del femore fratturato e altrettanto le costole, il piede destro fu schiacciato e slogato, la gamba sinistra subì undici fratture, la spalla sinistra restò lussata, l’osso pelvico spezzato in tre punti e l’asta di metallo del pullman le trafisse l’anca sinistra.

Obbligata a rimanere molto tempo nel letto di casa viste le sue condizioni, Frida si dedicò alla lettura di libri sul movimento comunista e alla pittura. Quando il gesso al busto le fu tolto, decise di trasformare la sua passione per l’arte in un vero e proprio lavoro. Diego Riviera era un illustre pittore dell’epoca, al quale Frida si rivolse per avere una sua critica. Quest’ultimo, rimasto colpito dallo stile moderno della giovane pittrice, decise di inserirla nella scena politica  e culturale messicana. Non passò molto tempo e Frida iniziava a partecipare a numerose manifestazioni fino a divenire un’attivista del partito comunista messicano (si iscrisse nel 1928).

La vita sentimentale

Questo continuo contatto con Diego fece sì che Frida se ne innamorasse e nonostante fosse consapevole dei continui atti di infedeltà da parte dell’uomo decise ugualmente di sposarlo.  Ma erano inevitabili le delusioni sentimentali così la giovane artista, decise di avere diverse esperienze anche omosessuali. Successivamente, però, i due coniugi si trasferirono negli USA per svolgere alcuni lavori che a Diego furono commissionati ma che a breve gli sarebbero stati revocati a causa dello scalpore suscitato dall’affresco nel Rockfeller Center (operaio con volto di Lenin). Le sofferenze per la giovane pittrice non erano ancora giunte al termine: durante il loro soggiorno a New york Frida era in dolce attesa ma dopo poco ebbe un aborto spontaneo. Decisero allora i due coniugi, distrutti dal dolore per la perdita del loro bambino, di tornare in Messico. Nel 1939 decisero di divorziare in seguito al tradimento da parte di Diego con la sorella di Frida. Ma dopo un anno circa, Diego la convinse a sposarlo di nuovo convincendola sul fatto che non aveva mai smesso di amarla.

La carriera artistica

“Sono felice, fino a quando potrò dipingere”.

L’intenzione di Frida era quella di affermare la propria identità messicana attraverso i suoi dipinti di piccoli autoritratti ispirati all’arte popolare e alle tradizioni precolombiane. Frida lo dimostrava anche attraverso il suo modo di vestire poiché si ispirava molto al costume delle donne di Tehuantepec (un comune di Oaxaca) in cui le donne comandano i mercati locali e deridono gli uomini. Forse era stato questo che aveva  maggiormente affascinato Frida. Il primo dipinto di Frida fu il ritratto del suo primo amore Alejandro e nei dipinti successivi raffigurava spesso gli aspetti drammatici della sua vita. Dalle sue tragiche esperienze prende anche spunto per altri dipinti: autoritratto con una colonna romana fratturata (che rappresenta la sua spina dorsale) e circondata da numerose scimmie che cura come figlie (probabile riferimento al figlio che ha perso e che tanto avrebbe voluto). Dal 1838 i suoi dipinti non erano più descrizioni della parte tragica della sua vita ma parlano del suo stato d’animo interiore. A città del Messico, a New York (1938) e a Parigi (1953) furono dedicate a Frida tre importanti esposizioni. Ma il valore delle sue opere artistiche state recentemente rivalutate soprattutto in Europa attraverso diverse mostre.

“Una surrealista creatasi con le proprie mani” affermava, nel 1938, il poeta e saggista surrealista Andrè Breton quando, per la prima volta, vide il lavoro di Frida. Estasiato dalle opere della pittrice, nel 1939, la invitò a Parigi dove le sue opere vennero esposte durante una mostra dedicata a lei. In quel periodo Frida a Parigi frequentava i surrealisti perché le piaceva essere considerata un’artista originale. Nel 1953 per un’infezione esitata in cancrena le fu amputata una gamba.  Frida morì di embolia polmonare a quarantasette anni nel 1954.

“Spero che l’uscita sia gloriosa e spero di non tornare mai più”.

Sono le ultime parole scritte da Frida nel suo diario.

Alessandra Federico

Valentina Della Seta: Le ore piene

Valentina Della Seta, scrittrice, collabora con Domani, GQ, Rivista Studio.

“Era passato l’inverno e non avevo fatto altro che invecchiare”
Quale relazione tesse la protagonista del suo romanzo tra Tempo e Corpo?

La protagonista all’inizio del romanzo vive in uno stato leggermente disancorato dalla realtà: non ha rapporti stretti non nessuno, lavora da sola, attraversa una serie di giornate tutte uguali e non si accorge del tempo che passa. Al corpo non sembra dare peso, se ne prende cura ma fa in modo di non occupare troppo spazio, di non inquinare, per questo va in bicicletta e fa la spesa al mercato di quartiere. Le cose cambiano quando sente il desiderio di una relazione. Immagina una relazione e si percepisce inadeguata, vede il proprio corpo in una luce che evidenzia uno per uno i cambiamenti legati al passare del tempo. Si accorge che in un certo senso è tardi, ma questa cosa la risveglia, le dà la possibilità di smettere di vivere da sonnambula e cominciare ad assaporare intensamente i momenti.
Questo è un libro che gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni.
Qual idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?

Non volevo esporre alcuna tesi sui rapporti umani, ho cercato di raccontare una storia di persone che si incontrano al di fuori dei circuiti abituali e che quindi non hanno molto in comune se non la voglia di aprirsi e fidarsi di un certo tipo di esperienze. Mi ha sempre affascinato l’infinita varietà di persone che esistono e si possono incontrare nel mondo; e l’infinita varietà di relazioni, anche inaspettate, che possono nascere. I personaggi del mio romanzo forse hanno in comune il coraggio di mettere in campo le parti più istintive di sé, quelle che rimangono quando ci togliamo gli abiti di scena legati al lavoro e al contesto sociale, culturale, familiare.

Oggidì, il corpo messo al centro del dibattito nella società contemporanea è quello muliebre. Quali forze diverse ed in contrapposizione si combattono su questo campo?
Mi sembra che al centro del dibattito ci sia il corpo di tutte e tutti, non solo quello delle donne. C’è il corpo delle donne che ha conquistato la libertà (purtroppo ancora solo in una parte di mondo, e lotteremo fino a che non sarà così per tutte e tutti) dopo secoli in cui è stato tenuto segregato nelle case, nelle cucine, nei salottini, lontano dalla vita pubblica e dal piacere sessuale. C’è anche il corpo degli uomini, che può smettere di uniformarsi a codici di abbigliamento, comportamento e identità che a molti andavano stretti. C’è il corpo delle persone trans e il corpo fluido. C’è il corpo disabile, che rivendica spazi e desideri. Più che alle contrapposizioni mi piace pensare alle cose che uniscono: l’avere un corpo è un’esperienza universale.
“Non ho avuto voglia di rispondere, mi sembrava che il nostro modo di stare insieme ci portasse a un livello di verità che non aveva bisogno di troppe parole. Una volta tanto non avevo dubbi su me stessa e non mi sentivo fuori posto”
Cosa determina il riscatto della donna sul corpo?

La donna del romanzo più che altro cerca un riscatto dall’insicurezza che la tiene lontana dagli altri. E in parte lo trova quando si affida totalmente ai desideri, al corpo, all’attrazione che prova per P. Lei smette di pensare, di farsi domande, si butta nell’avventura e nell’inaspettato. Le ore piene è un romanzo di scoperta, un romanzo d’amore.
La sua prosa non vela, non omette, non camuffa: il lessico è volutamente inequivocabile. Perché ha desiderato non intaccare l’esplicita logica connessione lettura-comprensione?
Ho cercato a lungo una voce che mi permettesse di raccontare questa storia, quando l’ho trovata è stata lei a dettare le parole e il ritmo delle frasi. Credo si tratti di una voce molto diretta ma nello stesso tempo timida, che ha paura di invadere, di annoiare l’interlocutore. Credo anche che la paratassi in un testo non equivalga per forza a una freddezza. Ho usato tante virgole, anche dove avrei potuto usare il punto o i due punti. Mi piacciono le possibilità lasciate aperte dalla virgola, amo la sua morbidezza.

Giuseppina Capone

I Puffi: origini e significato

I Puffi sono una creazione del fumettista belga Pierre Culliford in arte Peyo. Peyo diede vita ai Puffi nel 1958 e sono apparsi, da lì a poco, come personaggi secondari nella serie Jhon e Solfami. Ma il successo di queste piccole creature blu fu immediato tanto da dargli il ruolo di protagonisti in un racconto tutto loro che ad oggi possiamo vedere in più di 400 puntate divise in  9 stagioni. Dolci, teneri e gioiosi, i Puffi hanno da sempre catturato l’attenzione dei più grandi e dei più piccini con le loro storie fantastiche e avventurose e la loro allegria contagiosa che fa appassionare e innamorare chiunque abbia anche solo una volta ascoltato la sigla iniziale della serie. La realizzazione del cartone animato dei Puffi è stato una collaborazione con Yvan Delporte, fumettista e editore.

La storia

Schtriumpfs, è il termine Puffo in belga. Questo tenero nome nacque per caso quando Peyo, durante una cena, chiese al suo migliore amico di passargli la saliera chiamandola puffo “tieni il puffo, rispose l’amico – quando hai finito di puffare ripuffalo al suo posto”. Questa conversazione diede vita alla creazione dei Puffi e diventò presto il linguaggio degli ometti blu. Strunfi, fu il primo nome dei Puffi quando arrivarono in Italia all’interno della rivista Tipitì, ma poco dopo il Corriere dei Piccoli diede loro il nome Puffi. L’originale caratteristica della serie dei Puffi è proprio quella di inserire la parola Puffo all’interno di ogni frase (come ad esempio Puffare – Puffoso – Puffato e tanti altri termini simpatici e divertenti). Il nome di ogni puffo è stato assegnato in base ad un particolare che lo caratterizza o dal ruolo che il Puffo ricopre nel villaggio.

In collaborazione con lo studio Tva Dupuis, Peyo, creò la prima serie televisiva nel 1959. Entrava finalmente nelle case italiane all’interno del programma televisivo di Rai “Gli Eroi di Cartone” nel 1970. per realizzare questa serie Peyo, utilizzò la tecnica di animazione che consisteva nel muovere le figure di carta dei Puffi su dei disegnati. Ma la serie più amata di sempre è quella andata in onda per la prima volta nel 1981 fino al 1990 in Italia e in America. Al produttore della Nbc, Fred Silverman, venne l’idea per un cartone animato dei Puffi (che sarebbe stato perfetto per il Palinsesto della domenica mattina) quando, verso la fine degli anni ‘70, a sua figlia le regalarono un peluche di Puffetta.

In Italia, a contribuire al successo della serie animata, che approdò presto anche su Canale5 e Italia1 dove le repliche andarono in onda per molti anni, fu senza dubbio la musica. La prima serie fu intitolata Arrivano I Puffi (1981) accompagnata dalla sigla iniziale. In seguito la serie fu acquistata da Fininvest (trasmessa anche su Canale5) elaborarono altre nuove sigle cantate da Cristina d’Avena.

Le critiche

Diverse sono state le polemiche da parte di diversi critici il quale affermavano che il cappello bianco dei Puffi ricordasse il cappuccio del Ku Klux Klan. Non solo, sostenevano che il rosso del vestito del Grande Puffo sia stato ispirato dal Leader del Kkk perché anche lui è vestito di rosso.  Ancora, alcuni dicevano che il colore blu del Puffo sia un riferimento alla Massoneria e che il rosso del grande puffo sarebbe un chiaro riferimento al modello comunista descritto da Carl Marx ne Il Capitale.

Al contrario, Peyo raccontò che per quanto riguarda il cappello dei Puffi si era ispirato al berretto frigio degli schiavi dell’antica Roma (cappello che ha avuto un grande significato nella storia) che lo indossavano  come simbolo della loro libertà ritrovata. Ragion per cui per il creatore dei Puffi, il loro cappello ha un significato molto profondo, ed è il simbolo del villaggio dei Puffi:  villaggio in cui vivono in totale libertà, in cui vivono in una società senza classi sociali e dove sono identificati attraverso il lavoro che ogni puffo svolge.

Peyo ha voluto comunicare e trasferire  un messaggio di pace e serenità, cordialità e di forte empatia attraverso l’esempio della convivenza, dell’unione e della collaborazione tra i Puffi all’interno del villaggio, mostrando le loro grandi differenze caratteriali non contrastanti tra loro, bensì uniti in un reciproco rapporto di umanità, di rispetto, unione e amore.

“L’amore porta il sole anche dove non c’è”  (cit. dalla terza sigla de I Puffi).

Alessandra Federico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al Consiglio Regionale della Campania incontro sulle “buone prassi” anti-violenza

“Un confronto sulle buone prassi anti-violenza”: è il tema dell’iniziativa che si tiene oggi mercoledì 29 settembre 2021 alle ore 10,00 nella sala “Caduti di Nassiriya” al ventunesimo piano della sede del Consiglio Regionale della Campania, al Centro Direzionale di Napoli isola F13.

Si discuterà, tra l’altro, del referto psicologico e delle buone prassi sanitarie della Regione Campania sulla violenza contro le donne, di ampliamento della formazione e della costruzione della rete dell’emergenza. Introdurranno i lavori il Presidente del Consiglio Regionale della Campania, Gennaro Oliviero, la Consigliera delegata alle Pari Opportunità, Rosetta D’Amelio, la Presidente della VI Commissione consiliare permanente, Bruna Fiola. Interverranno la Responsabile del Centro “Dafne” dell’Azienda Ospedaliera “Antonio Cardarelli”, Elvira Reale, il Responsabile del Pronto Soccorso dell’ospedale C.T.O. dell’Azienda Ospedaliera dei Colli, Mario Guarino, il Giudice della I Sezione Civile del Tribunale di Napoli, Valeria Rosetti, il Procuratore aggiunto della IV Sezione Violenza di genere e fasce deboli del Tribunale di Napoli, Raffaello Falcone, la Dirigente della Divisione Anticrimine della Questura di Napoli, Nunzia Brancati, la Responsabile del Centro anti violenza “Aurora” di Napoli, Rosa Di Matteo. Modererà la dirigente dell’Asl Napoli 1 Centro, Antonella Bozzaotra.

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